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11 settembre: terrorismo a New York

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10 SETTEMBRE 2001: IL GIORNO MANCATO
di Tiziano Terzani
da "Lettere contro la guerra"
Edito da Longanesi & C. nella collezione "Il Cammeo"


Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c'è più.
Il 10 settembre 2001 per me, e son certo non solo per me, fu un giorno di questo tipo: un giorno di cui non ricordo assolutamente nulla. So che ero ad Orsigna, l'estate era finita, la famiglia s'era di nuovo sbrancata in tutte le direzioni ed io probabilmente preparavo vestiti e carte per tornare in India a svernare.

...continua
Pensavo di partire dopo il mio compleanno, ma non contavo i giorni e quel 10 settembre 2001 passò senza che me ne accorgessi, come non fosse nemmeno stato nel calendario. Peccato. Perché per me, per tutti noi - anche per quelli che ancora oggi si rifiutano di crederlo -, quel giorno fu particolarissimo, uno di cui avremmo dovuto, coscientemente, gustare ogni momento. Fu l'ultimo giorno della nostra vita di prima: prima dell'11 settembre, prima delle Torri Gemelle, della nuova barbarie, della limitazione delle nostre libertà, prima della grande intolleranza, della guerra tecnologica, dei massacri di prigionieri e di civili innocenti, prima della grande ipocrisia, del conformismo, dell'indifferenza o, peggio ancora, della rabbia meschina e dell'orgoglio malriposto; l'ultimo giorno prima che la nostra fantasia in volo verso più amore, più fratellanza, più spirito, più gioia venisse dirottata verso più odio, più discriminazione, più materia, più dolore.
Lo so: apparentemente poco o nulla è cambiato nella nostra vita. La sveglia suona alla stessa ora, si fa lo stesso lavoro, nello scompartimento del treno squillano sempre i telefonini ed i giornali continuano ad uscire ogni giorno con la loro dose di mezze bugie e mezze verità. Ma è un'illusione, l'illusione di quel momento di silenzio che c'è fra il vedere una grande esplosione in lontananza ed il sentirne poi il botto. L'esplosione c'è stata: enorme, spaventosa. Il botto ci raggiungerà, ci assorderà. Potrebbe anche spazzarci via. Meglio prepararsi in tempo, riflettere prima che si debba correre, anche solo figurativamente, a cercare di salvare i bambini o a prendere qualche ultima cosa da mettere in borsa.

Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.
Questa impressione che tutto era cambiato mi colpì immediatamente. Un amico mi aveva telefonato dicendo semplicemente: "Accendi la televisione, subito". Quando in diretta vidi il secondo aereo esplodere, pensai: " Pearl Harbor. Questa è una nuova guerra ". Restai incollato davanti un po' alla BBC, un po' alla CNN per delle ore, poi uscii a fare una passeggiata nel bosco. Mi ricordo con quanto stupore mi accorsi che la natura era indifferente a quel che succedeva: le castagne cominciavano a maturare, le prime nebbie a salire dalla valle. Nell'aria sentivo il solito, lontano frusciare del torrente e lo scampanellio delle capre della Brunalba. La natura era assolutamente disinteressata ai nostri drammi di uomini, come se davvero non contassimo nulla e potessimo anche scomparire senza lasciare un gran vuoto.
Forse perché ho passato tutta la mia vita adulta in Asia e davvero sono ora convinto che tutto è uno e che, come riassume così bene il simbolo taoista di Yin e Yang, la luce ha in sé il seme delle tenebre e che al centro delle tenebre c'è un punto di luce, mi venne da pensare che quell'orrore a cui avevo appena assistito era... una buona occasione. Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L'uomo avrebbe preso coscienza, si sarebbe svegliato per ripensare tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo. Era una buona occasione per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita.
Dinanzi a quel che avevo appena visto alla televisione e quel che c'era ora da aspettarsi non si poteva continuare a vivere normalmente, come tornando a casa vidi fare alle capre che brucavano l'erba.

Credo che in tutta la vita non sono mai stato davanti alla televisione quanto nei giorni che seguirono. Dalla mattina alla sera. Quasi non dormivo. In testa avevo sempre quella frase: una buona occasione. Per mestiere, dinanzi ad una verità ufficiale ho sempre cercato di vedere se non ce n'era una alternativa, nei conflitti ho sempre cercato di capire non solo le ragioni di una parte, ma anche quelle dell'altra. Nel 1973, assieme a Jean-Claude Pomonti di Le Monde ed al fotografo Abbas, fui uno dei primi a passare le linee del fronte nel Vietnam del Sud per andare a parlare col " nemico ", i vietcong. Allo stesso modo, per cercare di capire i terroristi che avevano già provato a far saltare in aria una delle Torri Gemelle a New York, nel 1996 ero riuscito, due volte di seguito, ed entrare nella "università della jihad" per parlare con i seguaci di Osama bin Laden.

Pensai che sarebbe servito riraccontare brevemente quella storia e le impressioni di quelle visite per immaginarsi il mondo dal punto di vista dei terroristi. Ma scrivere mi pesava.
Il 14 settembre era il mio sessantatreesimo compleanno ed in quella data scadeva formalmente il mio bei rapporto di lavoro con Der Spiegel, iniziato esattamente trent'anni prima, ma già dal 1997 messo, su mia richiesta, in una forma concordata di letargo.
Con In Asia* il libro che raccoglieva tutte le grandi e piccole storie di cui ero stato testimone, avevo detto quel che avevo da dire sul giornalismo. Da allora mi sono praticamente ritirato dal mondo. Passo gran parte del tempo nell'Himalaya e godo enormemente di non avere scadenze tranne quelle della natura: il buio è l'ora di andare a letto, la prima luce l'ora di alzarsi. Dove abito, in un posto isolato a due ore di macchina dal primo centro abitato, più un'ora a piedi attraverso una foresta di rododendri giganti, non c'è ne luce ne telefono e così non ho distrazioni tranne quelle piacevolissime degli animali, degli uccelli, del vento e delle montagne. Ho perso l'abitudine di leggere i giornali e, anche quando vengo in Europa, ne faccio volentieri a meno: le storie si ripetono e mi pare di averle già lette anni fa, quando erano scritte meglio.

L'inverno è per me la più bella stagione nell'Himalaya. Il cielo è limpidissimo e le montagne appaiono vicinissime. Avevo assolutamente fatto piani per partire, ma come dicono gli indiani indicando il cielo: "Vuoi far ridere Baghawan (Dio)? Bene: digli i tuoi piani ".
Così passai il mio compleanno a scrivere, non un articolo con quel numero fisso di righe, con l'attacco attraente per renderlo leggibile, ma una lettera come l'avrei scritta di getto a un amico.
Mi piace scrivere lettere. Ho sempre pensato che se fossi nato ricco e trecento anni fa, là dove comunque son nato, povero, a Firenze, avrei solo voluto viaggiare il mondo per scrivere delle lettere. Il giornalismo in qualche modo mi ha permesso di fare una cosa simile, ma con la limitazione dello spazio, la fretta delle scadenze, gli obblighi del linguaggio. Ora finalmente posso scrivere semplicemente delle lettere.
Quella da Orsigna la mandai per e-mail a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, con un messaggio che più o menu diceva: " Vedi tu. Secondo gli accordi ".

Per anni avevo avuto col Corriere un contratto di collaborazione; ma quando era venuto il momento di rinnovarlo avevo scelto di non fame niente, per la stessa ragione per cui non ho mai voluto anticipi sui libri non ancora scritti. Non voglio sentirmi obbligato a nulla, non voglio avere complessi di colpa, sensi del dovere. Così con de Bortoli ripiegammo su un personalissimo gentle-men agreement: io mi sarei sentito libero di scrivere quando, quanto e come volevo, lui libero di pubblicare o meno, cambiando al massimo le virgole. Così è stato.
La lettera uscì il 16 settembre. Il titolo non era quello che avevo suggerito, " Una buona occasione ", ma non potevo, come non ho mai dovuto fare poi, lamentarmi. Cominciava in prima pagina ed il seguito ne occupava un'altra intera. Il nocciolo di tutto quel che volevo dire era lì: le ragioni dei terroristi, il dramma del mondo musulmano nel suo confronto con la modernità, il ruolo dell'Islam come ideologia anti-globalizzazione, la necessità da parte dell'Occidente di evitare una guerra di religione, una possibile via d'uscita: la non-violenza.

II sasso era tirato. Finii di preparare vestiti e carte ed andai a Firenze, pronto a partire. Non ero sicuro di andare nell'Himalaya. Tornare al mio splendido ritiro mi pareva un lusso che non potevo permettermi. Bush aveva giusto detto: " We shall smoke Osama bin Laden out of his cave ". Io dovevo accettare che Osama aveva stanato me dalla mia tana.
La tentazione di tornare nel mondo, di " scendere in pianura", come dicono nell'Himalaya quando vanno a fare la spesa, mi era già venuta. A luglio era uscita l'edizione americana di Un indovino mi disse* e l'editore mi aveva invitato a fare quella orribile cosa che gli americani chiamano flogging, frustare il libro, spingerlo, il che tradotto in parole povere significa diventare un pacco postale in mano a degli abilissimi, efficientissimi giovani PR che ti prendono in consegna e ti portano a giro dalla mattina alla sera in macchina, in aereo, in elicottero, da costa a costa, da una città ad un'altra - a volte due in un giorno -, mettendoti ora davanti all'intervistatore di un quotidiano che del libro ha solo letto la copertina, ora davanti ai microfoni di una stazione radio per taxisti o di un'altra per insonni, ora davanti alle telecamere di un grande TV-show o a quelle di un più modesto programma di prima mattina per massaie dove si parla di destino fra una ricetta di insalata di pollo e un nuovo tipo di sci acquatico. L'ho fatto per due settimane. E Dio mio se valeva la pena! Tornai da quel viaggio scioccato, con un'impressione spaventosa. Avevo visto un'America arrogante, ottusa, tutta concentrata su sé stessa, tronfia del suo potere, della sua ricchezza, senza alcuna comprensione o curiosità per il resto del mondo. Ero stato colpito dal diffuso senso di superiorità, dalla convinzione di essere unici e forti, di credersi la civiltà definitiva. Il tutto senza alcuna autoironia.

Una notte, dopo un incontro sul Libro allo Smithsonian Institute, un vecchio giornalista che conosco da anni mi portò a fare una passeggiata tra vari monumenti nel cuore di Washington, quello particolarmente commovente ai caduti in Vietnam, quello teatrale e suggestivo ai morti in Corea e, nel posto dove sorgerà, quello ai caduti della seconda guerra mondiale.
La prima riflessione che feci era che mi pareva strano che un paese giovane, fondato sull'aspirazione alla felicità, avesse scelto di mettere al centro della sua capitale tutti quei monumenti alla morte. L'amico disse che non ci aveva mai pensato. Quando fummo davanti al mastodontico, bianchissimo Lincoln, seduto su una gran poltrona bianca in una gigantesca copia tutta bianca d'un tempio greco, mi venne da dire, sapendo che anche lui era stato a Pyongyang: " Mi ricorda Kim II Sung ".
Si offese come gli avessi toccato la madonna. "Noi amiamo quest'uomo ", disse. Mi trattenni dal fargli notare che un nordcoreano avrebbe detto esattamente la stessa cosa, ma questa era l'impressione che l'America mi aveva messo addosso. Il paragone non era soltanto nella mastodonticità dei monumenti; era nel fatto che gli americani mi parevano loro stessi vittime di un qualche lavaggio del cervello: tutti dicono le stesse cose, tutti pensano allo stesso modo. La differenza è che, al contrario dei nordcoreani, essi credono di farlo liberamente e non si rendono conto che quel loro conformismo è frutto di tutto quel che vedono, bevono, sentono e mangiano.

L'America mi aveva fatto paura e avevo pensato di tornarci, magari a fare un viaggio di qualche mese attraverso l'intero paese, un viaggio come quello che feci con mia moglie Angela quando ero studente alla Columbia University, un viaggio che un tempo facevano i giornalisti europei, ora invece incollati a New York davanti ai loro computer, dove vedono e leggono quello che l'America vuole che vedano e che leggano perché ce lo possano riraccontare.
Avevo già in tasca il biglietto per Delhi quando il solito amico mi chiamò: " L'hai letta? " " Chi? " " La Fallaci. T'ha risposto, nel Corriere di stamani. " Erano le tre del pomeriggio del 29 settembre e dovetti fare il giro di mezza Firenze per procurarmene una copia. Il giornale era davvero andato a ruba.
Lessi i quattro paginoni e mi prese una gran tristezza. Ancora una volta m'ero sbagliato. Altro che buona occasione! L'11 settembre era stata l'occasione di svegliare ed aizzare il cane che è in ognuno di noi. Il punto centrale della risposta della Oriana era non solo di negare le ragioni del " nemico ", ma di negargli la sua umanità, il che è il segreto della disumanità di tutte le guerre.
Mi colpì. Poi mi fece una gran pena. Ognuno ha diritto ad un suo modo di affrontare la vecchiaia e la morte; mi dispiaceva vedere che lei aveva scelto la via del rancore, dell'astio, del risentimento: la via delle passioni meno nobili e della loro violenza. Sinceramente mi dispiaceva per lei perché la violenza - ne sono sempre più convinto - brutalizza non solo le sue vittime, ma anche chi la compie.
Mi misi a scrivere. La lettera questa volta era diretta a lei. Uscì sul Corriere 1'8 di ottobre, il giorno in cui i giornali erano dominati dalle foto di Bush e di Osama bin Laden. L'America aveva cominciato a bombardare l'Afghanistan. Riuscii a trovare una copia del giornale all'aeroporto di Firenze. Era l'alba, partivo per Parigi, da lì sarei volato a Delhi e poi in Pakistan.
Avevo deciso di " scendere in pianura ". Pagavo di tasca mia, così da essere libero, eventualmente, di non scrivere. Mi sentivo leggero a non "rappresentare " che me stesso e a rispondere "pensionato" alla domanda sulla professione nelle schede dell'immigrazione.

Le lettere sono quelle scritte nel corso di questo lungo viaggio. Le date indicano quando e dove sono state scritte. Solo metà di quel che segue è uscito sul Corriere, ma mi sta a cuore precisare che ogni singola parola di ogni lettera che ho mandato a de Bortoli lui l'ha con grande correttezza pubblicata. Gliene sono grato, e sono certo che lo sono anche molti lettori. Anche se a volte, specie dopo che un missile americano aveva colpito a Kabul la sede della televisione indipendente Al Jazeera, ho temuto che uno, con simili intenzioni, potesse esser già caduto anche su via Solferino a Milano.

Ovviamente de Bortoli ed io non abbiamo affatto le stesse idee. Lui, ad esempio, concluse l'editoriale del 12 settembre con una frase famosa, che poi molti gli han tolto di bocca: " Siamo tutti americani ". Bene, io no. Di fondo mi sento fiorentino, un po' italiano e sempre di più europeo. Ma americano proprio no, anche se all'America debbo molto, compresa la vita di mio figlio, quella di mio nipote - tutti e due nati là - ed in parte anche la mia. Ma questa è un'altra storia.

In fondo trovo diffìcile questo definirmi. Sono arrivato alla mia età senza mai aver voluto appartenere a nulla, non a una chiesa, non a una religione: non ho avuto la tessera di nessun partito, non mi sono mai iscritto a nessuna associazione, né a quella dei cacciatori né a quella per la protezione degli animali. Non perché non stia naturalmente dalla parte degli uccellini e contro quegli omacci col fucile che sparano nascosti in un capanno, ma perché qualunque organizzazione mi sta stretta. Ho bisogno di sentirmi libero. E questa libertà è faticosa perché ogni volta, davanti ad una situazione, quando bisogna decidere cosa pensare, cosa fare, si può solo ricorrere alla propria testa, al proprio cuore e non alla facile linea, pronta all'uso, di un partito o alle parole di un testo sacro.
Per istinto sono sempre stato lontano dal potere e non ho mai corteggiato chi lo aveva. I potenti mi han sempre lasciato freddo. Se mai sono entrato in qualche stanza dei bottoni, era con un taccuino per prendere appunti e sempre pronto a scoprire qualche magagna. Non dico questo per vantarmi, ma per rassicurare chi, leggendo le pagine che seguono, può pensare che io sono parte di un qualche giro, di un qualche complotto, che ho un mio progetto o che porto avanti il piano di Tizio e di Caio.

Con queste lettere non cerco di convincere nessuno. Voglio solo far sentire una voce, dire un'altra parte di verità, aprire un dibattito perché tutti prendiamo coscienza, perché non si continui a pretendere che non è successo niente, a far finta di non sapere che ora, in questo momento, in Afghanistan migliaia di persone vivono nel terrore di essere bombardate dai B-52, che m questo momento un qualche prigioniero, portato incappucciato e incatenato a venti ore di volo dalla sua terra, viene ora " interrogato " su un ultimo lembo di terra coloniale degli Stati Uniti a Guantanamo, nell'isola di Cuba, mentre gli strateghi della nostra coalizione contro il terrorismo stanno preparando altri attacchi in chi sa quali altri paesi del mondo.
Allora io dico: fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza. Facciamo ognuno qualcosa e, come dice Jovanotti nella sua poetica canzone contro la violenza, arrivata fin quassù nelle montagne: "Salviamoci".
Nessun altro può farlo per noi.

Nell'Himalaya indiana, gennaio 2002

Tutte le Lettere contro la guerra possono essere lette su Il mondo delle idee

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