During the time
of the second World War
A small town in Italy
Death
Came
Aboard
Train number 8017
It wasn’t strafing of bombing
Clandestine de-railings
It was just
Some bad coal
The stockyard was selling
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017 to hell of to heaven
Train 8017 climb aboard
All the allied forces
Shut down the town
Made rich men and poor men
The same
poor
So they hid
In the night
Shivered
Til the 8017 came
Their families were starving
In the village of Bovano
They had to break
The rules
Just to try
To find food
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017 to hell of to heaven
Train 8017 climb aboard
Just through the mountains
Is Galleria dele Armi
A rich valley so fertile
And full
And only one train can get there
there’s only one tunnel
To pass through
But the train
It stopped
In the middle
Of the tunnel
And smoke
From bad coal
Turned black
The 500
From Bovano
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017
Train 8017 climb aboard
During the time
of the second World War
A small town in Italy
Death
Came
Aboard
of the second World War
A small town in Italy
Death
Came
Aboard
Train number 8017
It wasn’t strafing of bombing
Clandestine de-railings
It was just
Some bad coal
The stockyard was selling
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017 to hell of to heaven
Train 8017 climb aboard
All the allied forces
Shut down the town
Made rich men and poor men
The same
poor
So they hid
In the night
Shivered
Til the 8017 came
Their families were starving
In the village of Bovano
They had to break
The rules
Just to try
To find food
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017 to hell of to heaven
Train 8017 climb aboard
Just through the mountains
Is Galleria dele Armi
A rich valley so fertile
And full
And only one train can get there
there’s only one tunnel
To pass through
But the train
It stopped
In the middle
Of the tunnel
And smoke
From bad coal
Turned black
The 500
From Bovano
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017
Train 8017 climb aboard
During the time
of the second World War
A small town in Italy
Death
Came
Aboard
inviata da Riccardo Venturi - 15/9/2008 - 15:05
Lingua: Italiano
Versione italiana da Treno di Luce 8017
"Se a qualcuno interessa ancora il folk americano, Terry Allen è l'uomo giusto: un bizzoso texano che ha passato metà della vita a scolpire e metà a scrivere canzoni, ma ha seguito una sua personale strada di country, rock e honky tonk, raccontando il natio Texas e le suggestioni del Messico appena più a sud. Un bel narratore, anche, con una semplice poesia capace di divertenti aperture ironiche e surreali."
"Se a qualcuno interessa ancora il folk americano, Terry Allen è l'uomo giusto: un bizzoso texano che ha passato metà della vita a scolpire e metà a scrivere canzoni, ma ha seguito una sua personale strada di country, rock e honky tonk, raccontando il natio Texas e le suggestioni del Messico appena più a sud. Un bel narratore, anche, con una semplice poesia capace di divertenti aperture ironiche e surreali."
GALLERIA DELLE ARMI
Era il tempo
della seconda Guerra Mondiale
Un paesino in Italia
La morte
Venne
A bordo
Treno numero 8017
Non fu attacco di bombardamento
Né sabotante deragliamento
Fu soltanto
Quel cattivo carbone
Che i depositi vendevano
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Treno 8017 all'inferno del cielo
Treno 8017 montati a bordo
Tutto gli eserciti alleati
Hanno occupato il Paese
E ricchi e poveri hanno reso
Indistintamente
Poveri
Così nascosti
Nella notte
Tremanti
Finché l'8017 arrivò
I familiari morivano di fame
Nel paese di Balvano
Infrangere toccò
Le leggi
Per cercare
Trovar da mangiare
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Il treno 8017 all'inferno del cielo
Treno 8017 montati a bordo
Proprio tra quei monti
La Galleria delle Armi
Vallata ricca cosi fertile
Abbondante
Soltanto un treno ci può arrivare
Là c'è solo un tunnel
Che porta di là
Ma il treno
Si fermò
Nel mezzo
Del tunnel
Ed il fumo
Dal cattivo carbone
Nero circondò
I 500
Da Balvano
Affamati
Ma morti
Già prima
Di passare di là
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Il treno 8017
Treno 8017 montati a bordo
Era il tempo
della seconda Guerra Mondiale
Un paesino in Italia
La morte
Venne
A bordo
Era il tempo
della seconda Guerra Mondiale
Un paesino in Italia
La morte
Venne
A bordo
Treno numero 8017
Non fu attacco di bombardamento
Né sabotante deragliamento
Fu soltanto
Quel cattivo carbone
Che i depositi vendevano
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Treno 8017 all'inferno del cielo
Treno 8017 montati a bordo
Tutto gli eserciti alleati
Hanno occupato il Paese
E ricchi e poveri hanno reso
Indistintamente
Poveri
Così nascosti
Nella notte
Tremanti
Finché l'8017 arrivò
I familiari morivano di fame
Nel paese di Balvano
Infrangere toccò
Le leggi
Per cercare
Trovar da mangiare
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Il treno 8017 all'inferno del cielo
Treno 8017 montati a bordo
Proprio tra quei monti
La Galleria delle Armi
Vallata ricca cosi fertile
Abbondante
Soltanto un treno ci può arrivare
Là c'è solo un tunnel
Che porta di là
Ma il treno
Si fermò
Nel mezzo
Del tunnel
Ed il fumo
Dal cattivo carbone
Nero circondò
I 500
Da Balvano
Affamati
Ma morti
Già prima
Di passare di là
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Il treno 8017
Treno 8017 montati a bordo
Era il tempo
della seconda Guerra Mondiale
Un paesino in Italia
La morte
Venne
A bordo
inviata da Riccardo Venturi - 15/9/2008 - 15:36
Balvano 3 marzo 1944, la strage del silenzio
Di Roberta Ronconi
Da Liberazione, tramite Treno di Luce 8017
A volte la storia degli uomini, delle donne e delle loro vicende prende strane pieghe. E tra queste restano incastrati eventi che poi nessuno trova più per decenni, a volte per secoli. E' il caso della strage di Balvano, forse il più grande disastro ferroviario del mondo. Avvenne in Italia, 61 anni fa.
In moltissimi non ne avevamo mai sentito parlare sino all'uscita, qualche settimana fa, del libro "Balvano 1944" (Mursia, pp. 292, euro 20.00), ricostruzione minuziosa degli eventi a firma di Gianluca Barneschi, di mestiere avvocato e per passione storico.
I motivi di tanto silenzio sono diversi. Intricati, confusi, in parte dovuti a precise volontà politiche in parte al caso e alla noncuranza, in parte alla voglia di seppellire velocemente quei morti e dimenticarli. Sono tante le imprecisioni attorno a questa vicenda. Con il passare dei giorni e poi degli anni di certo è rimasto pochissimo. Tra questo pochissimo, il numero del treno, il merci 8017 e il totale dei morti: seicento.
Due sole certezze, che combinate tra loro ci offrono già uno spunto di cronaca importante: quelli erano anni in cui anche i merci servivano per il trasporto delle persone che avevano pochi altri mezzi per spostarsi da un punto all'altro dell'Italia. Anche quel giorno del marzo '44 in tanti erano saliti al volo su quel treno che da Napoli avrebbe dovuto raggiungere Potenza e poi Catanzaro dove avrebbe dovuto fare carico di legname. La linea era, dalla fine del '43, in mano alle Forze alleate che l'avevano sequestrata per fini militari tutta la settimana, tranne il mercoledì. Chi perdeva il "giorno passeggeri" era costretto o ad incamminarsi o ad attendere sette giorni. Per molti, un'attesa impossibile. Anche perché quella linea serviva a molti scopi, primo fra tutti quello di fornire scorte di cibo a una Napoli distrutta e affamata. A cercarlo, il cibo, si andava a Potenza dove l'agricoltura era rimasta salva e si poteva acquistare dai contadini ancora una buona varietà di generi alimentari. Si prendevano, si pagavano alla bell'e meglio e poi si portavano a Napoli, dove servivano ad incrementare il giro di borsa nera alimentare, che di fatto sfamava l'intera città.
Le cronache (del resto, scarsissime), anche quelle ufficiali, bollarono l'intera presenza umana sull'8017 come gruppo di «contrabbandieri e viaggiatori di frodo» (queste le parole usate anche dalla relazione sul disastro del governo Badoglio), contribuendo così ad abbassare l'impatto emotivo sulla tragedia. In realtà su quel treno molti viaggiavano con tanto di biglietto (si comprava per la tratta e poi si saliva sul primo treno che l'avrebbe percorsa. Era normale in tempi in cui le ferrovie non garantivano nulla) e molti non avevano niente a che fare con la borsa nera, ma viaggiavano per raggiungere parenti o famigliari, o anche per motivi di lavoro. Come il professor Vincenzo Jura, chirurgo e professore universitario che prese quel treno nel tentativo di raggiungere in un qualche modo Bari dove avrebbe dovuto tenere delle lezioni. Con lui forse viaggiavano alcuni suoi studenti. C'erano anche diversi militari allo sbando e un gruppo di sette soldati italiani con il loro uffciale, gli unici ad aver avuto regolare permesso dagli alleati per viaggiare su quel treno. Poi le donne, tante, oltre un centinaio con i loro bambini, famiglie intere, studenti, lavoratori e avventurieri. C'era insomma tutto quel genere umano sbandato e provato dalla guerra che abitava il nostro paese in quegli anni.
Da Napoli erano partiti nel tardo pomeriggio. A Balvano arrivarono a sera inoltrata, dopo aver attraversato montagne, gallerie, stazioni (ad ognuna, qualcuno riusciva ad aggiungersi al carico umano del treno) in un percorso ferroviario tra i più belli ma anche tra i più aspri delle ferrovie italiane. A quell'epoca i treni viaggiavano a vapore e le locomotive venivano alimentate con palate di carbone. Il carbone degli Alleati sembra fosse di qualità peggiore di quello dei tedeschi, pieno di zolfo e residui tossici. Il percorso dell'8017 da Napoli a Potenza era accidentato e affollato di gallerie. Il treno era un merci, ovvero molti dei 47 vagoni che lo componevano erano scoperti. E questi sono gli elementi principali della tragedia.
A Balvano, stazioncina di montagna in provincia di Potenza, la sera del 2 marzo il treno si era fermato per più di mezz'ora, poi verso le 23.40 era ripartito verso la prossima stazione di Bella-Muro, a 8 chilometri di distanza. Tra le due stazioni, la galleria delle Armi, lunga meno di due chilometri. Il treno vi entrò, ne percorse nemmeno la metà, poi si fermò.
Da qui in poi le ricostruzioni sono tutte contrastanti e caotiche, anche se Gianluca Barneschi ha potuto, per primo, mettere le mani su materiale desecretato dell'esercito americano. In testa al treno c'erano le due locomotive, a carbone. La galleria aveva una leggera inclinazione in salita che i ferrovieri spesso affrontavano irrobustendo un po' le caldaie con qualche palata aggiunta prima di entrare. I pochissimi che poterono raccontare cosa successe quella notte, dissero di aver sentito il treno frenare, poi tornare indietro, poi di nuovo avanti, quindi fermarsi definitivamente. Il capotreno, forse nel tentativo di dare un'accelerata o comunque di sbloccare la situazione, aprì la leva del vapore al massimo. Il monossido di carbonio lo uccise prima di poter completare la manovra. Il gas venefico non deve aver impiegato molto a saturare l'intera galleria, bassa e priva di sfiatatoi. Il fumo usciva dalle caldaie e rientrava nelle carrozze, compresa quella della locomotiva, compiendo un brevissimo giro. I macchinisti furono probabilmente tra i primi a morire. Gli altri impiegarono solo qualche minuto in più. Morirono tutti nel più assoluto silenzio, molti nel sonno, alcuni presi dalla morte tanto di sorpresa da essere rimasti lì - raccontarono poi i soccorritori - chi con la sigaretta in bocca, chi con il gomito poggiato su un asse di legno, un uomo addirittura ancora nell'atto di bere un uovo, una donna nel sonno abbracciata al figlio. Probabilmente, molti di loro si erano già intossicati nelle gallerie precedenti, dove comunque il monossido ristagnava a lungo dopo il passaggio dei treni.
Della tragedia nessuno si accorse per molte ore. Del resto, non c'era nulla da stupirsi in quei tempi se un treno impiegava anche diverse ore per coprire pochi chilometri. Solo nella prima mattinata un frenatore accompagnato da un militare riuscì a raggiungere la stazione di Balvano e a gridare disperato che «lì sono tutti morti».
La tragedia continuerà ancora, e per diversi giorni. Riportare il treno in stazione, accatastare quelle centinaia di corpi lungo le banchine, aspettare i parenti per i riconoscimenti, cercare un luogo dove seppellirli per tempo, riportarli dove possibile nei cimiteri dei propri paesi... Fu un vero disastro, un lutto profondo per migliaia di persone ma di cui nessuno per molto tempo si prese carico. Anzi, sia gli alleati che il governo Badoglio a lungo tentarono di tenere le cose sotto silenzio. I primi per non «deprimere ulteriormente il morale degli italiani» ("The Times", articolo del 1951), i secondi per vago disprezzo nei confronti di questo popolo di poveri alla ricerca di cibo.
Ma ancora più sorprendente il silenzio dei decenni successivi, un silenzio che arriva quasi sino ad oggi, con pochissime rotture: un'inchiesta del settimanale "Europeo" nel 1956 di Giulio Frisoli; il romanzo di Alessandro Perissinotto "Treno 8017"; un testo di ricostruzione attraverso testimonianze pubblicato a tiratura limitata dal giornalista Mario Restaino nel 1994. Pochissimo altro, sino all'uscita di questa ultima dettagliata ricostruzione di Barneschi. Che dopo più di sessant'anni recupera dalle pieghe del tempo e della noncuranza un pezzo di storia anche nostro.
Di Roberta Ronconi
Da Liberazione, tramite Treno di Luce 8017
A volte la storia degli uomini, delle donne e delle loro vicende prende strane pieghe. E tra queste restano incastrati eventi che poi nessuno trova più per decenni, a volte per secoli. E' il caso della strage di Balvano, forse il più grande disastro ferroviario del mondo. Avvenne in Italia, 61 anni fa.
In moltissimi non ne avevamo mai sentito parlare sino all'uscita, qualche settimana fa, del libro "Balvano 1944" (Mursia, pp. 292, euro 20.00), ricostruzione minuziosa degli eventi a firma di Gianluca Barneschi, di mestiere avvocato e per passione storico.
I motivi di tanto silenzio sono diversi. Intricati, confusi, in parte dovuti a precise volontà politiche in parte al caso e alla noncuranza, in parte alla voglia di seppellire velocemente quei morti e dimenticarli. Sono tante le imprecisioni attorno a questa vicenda. Con il passare dei giorni e poi degli anni di certo è rimasto pochissimo. Tra questo pochissimo, il numero del treno, il merci 8017 e il totale dei morti: seicento.
Due sole certezze, che combinate tra loro ci offrono già uno spunto di cronaca importante: quelli erano anni in cui anche i merci servivano per il trasporto delle persone che avevano pochi altri mezzi per spostarsi da un punto all'altro dell'Italia. Anche quel giorno del marzo '44 in tanti erano saliti al volo su quel treno che da Napoli avrebbe dovuto raggiungere Potenza e poi Catanzaro dove avrebbe dovuto fare carico di legname. La linea era, dalla fine del '43, in mano alle Forze alleate che l'avevano sequestrata per fini militari tutta la settimana, tranne il mercoledì. Chi perdeva il "giorno passeggeri" era costretto o ad incamminarsi o ad attendere sette giorni. Per molti, un'attesa impossibile. Anche perché quella linea serviva a molti scopi, primo fra tutti quello di fornire scorte di cibo a una Napoli distrutta e affamata. A cercarlo, il cibo, si andava a Potenza dove l'agricoltura era rimasta salva e si poteva acquistare dai contadini ancora una buona varietà di generi alimentari. Si prendevano, si pagavano alla bell'e meglio e poi si portavano a Napoli, dove servivano ad incrementare il giro di borsa nera alimentare, che di fatto sfamava l'intera città.
Le cronache (del resto, scarsissime), anche quelle ufficiali, bollarono l'intera presenza umana sull'8017 come gruppo di «contrabbandieri e viaggiatori di frodo» (queste le parole usate anche dalla relazione sul disastro del governo Badoglio), contribuendo così ad abbassare l'impatto emotivo sulla tragedia. In realtà su quel treno molti viaggiavano con tanto di biglietto (si comprava per la tratta e poi si saliva sul primo treno che l'avrebbe percorsa. Era normale in tempi in cui le ferrovie non garantivano nulla) e molti non avevano niente a che fare con la borsa nera, ma viaggiavano per raggiungere parenti o famigliari, o anche per motivi di lavoro. Come il professor Vincenzo Jura, chirurgo e professore universitario che prese quel treno nel tentativo di raggiungere in un qualche modo Bari dove avrebbe dovuto tenere delle lezioni. Con lui forse viaggiavano alcuni suoi studenti. C'erano anche diversi militari allo sbando e un gruppo di sette soldati italiani con il loro uffciale, gli unici ad aver avuto regolare permesso dagli alleati per viaggiare su quel treno. Poi le donne, tante, oltre un centinaio con i loro bambini, famiglie intere, studenti, lavoratori e avventurieri. C'era insomma tutto quel genere umano sbandato e provato dalla guerra che abitava il nostro paese in quegli anni.
Da Napoli erano partiti nel tardo pomeriggio. A Balvano arrivarono a sera inoltrata, dopo aver attraversato montagne, gallerie, stazioni (ad ognuna, qualcuno riusciva ad aggiungersi al carico umano del treno) in un percorso ferroviario tra i più belli ma anche tra i più aspri delle ferrovie italiane. A quell'epoca i treni viaggiavano a vapore e le locomotive venivano alimentate con palate di carbone. Il carbone degli Alleati sembra fosse di qualità peggiore di quello dei tedeschi, pieno di zolfo e residui tossici. Il percorso dell'8017 da Napoli a Potenza era accidentato e affollato di gallerie. Il treno era un merci, ovvero molti dei 47 vagoni che lo componevano erano scoperti. E questi sono gli elementi principali della tragedia.
A Balvano, stazioncina di montagna in provincia di Potenza, la sera del 2 marzo il treno si era fermato per più di mezz'ora, poi verso le 23.40 era ripartito verso la prossima stazione di Bella-Muro, a 8 chilometri di distanza. Tra le due stazioni, la galleria delle Armi, lunga meno di due chilometri. Il treno vi entrò, ne percorse nemmeno la metà, poi si fermò.
Da qui in poi le ricostruzioni sono tutte contrastanti e caotiche, anche se Gianluca Barneschi ha potuto, per primo, mettere le mani su materiale desecretato dell'esercito americano. In testa al treno c'erano le due locomotive, a carbone. La galleria aveva una leggera inclinazione in salita che i ferrovieri spesso affrontavano irrobustendo un po' le caldaie con qualche palata aggiunta prima di entrare. I pochissimi che poterono raccontare cosa successe quella notte, dissero di aver sentito il treno frenare, poi tornare indietro, poi di nuovo avanti, quindi fermarsi definitivamente. Il capotreno, forse nel tentativo di dare un'accelerata o comunque di sbloccare la situazione, aprì la leva del vapore al massimo. Il monossido di carbonio lo uccise prima di poter completare la manovra. Il gas venefico non deve aver impiegato molto a saturare l'intera galleria, bassa e priva di sfiatatoi. Il fumo usciva dalle caldaie e rientrava nelle carrozze, compresa quella della locomotiva, compiendo un brevissimo giro. I macchinisti furono probabilmente tra i primi a morire. Gli altri impiegarono solo qualche minuto in più. Morirono tutti nel più assoluto silenzio, molti nel sonno, alcuni presi dalla morte tanto di sorpresa da essere rimasti lì - raccontarono poi i soccorritori - chi con la sigaretta in bocca, chi con il gomito poggiato su un asse di legno, un uomo addirittura ancora nell'atto di bere un uovo, una donna nel sonno abbracciata al figlio. Probabilmente, molti di loro si erano già intossicati nelle gallerie precedenti, dove comunque il monossido ristagnava a lungo dopo il passaggio dei treni.
Della tragedia nessuno si accorse per molte ore. Del resto, non c'era nulla da stupirsi in quei tempi se un treno impiegava anche diverse ore per coprire pochi chilometri. Solo nella prima mattinata un frenatore accompagnato da un militare riuscì a raggiungere la stazione di Balvano e a gridare disperato che «lì sono tutti morti».
La tragedia continuerà ancora, e per diversi giorni. Riportare il treno in stazione, accatastare quelle centinaia di corpi lungo le banchine, aspettare i parenti per i riconoscimenti, cercare un luogo dove seppellirli per tempo, riportarli dove possibile nei cimiteri dei propri paesi... Fu un vero disastro, un lutto profondo per migliaia di persone ma di cui nessuno per molto tempo si prese carico. Anzi, sia gli alleati che il governo Badoglio a lungo tentarono di tenere le cose sotto silenzio. I primi per non «deprimere ulteriormente il morale degli italiani» ("The Times", articolo del 1951), i secondi per vago disprezzo nei confronti di questo popolo di poveri alla ricerca di cibo.
Ma ancora più sorprendente il silenzio dei decenni successivi, un silenzio che arriva quasi sino ad oggi, con pochissime rotture: un'inchiesta del settimanale "Europeo" nel 1956 di Giulio Frisoli; il romanzo di Alessandro Perissinotto "Treno 8017"; un testo di ricostruzione attraverso testimonianze pubblicato a tiratura limitata dal giornalista Mario Restaino nel 1994. Pochissimo altro, sino all'uscita di questa ultima dettagliata ricostruzione di Barneschi. Che dopo più di sessant'anni recupera dalle pieghe del tempo e della noncuranza un pezzo di storia anche nostro.
Riccardo Venturi - 15/9/2008 - 16:51
Le sciagure per il paese di Balvano non sarebbero purtroppo terminate con questa, pur di eccezionale gravità. La sera del 23 novembre 1980, Balvano fu uno dei paesi distrutti dal terremoto dell'Irpinia; in particolare, vi morirono 77 persone nel crollo della chiesa di Santa Maria Assunta, mentre si stavano svolgendo le comunioni. Tra i morti, 62 erano bambini e bambine. A quei terribili momenti e a tutta la tragica storia di Balvano (e di tutti gli altri paesi della zona) vogliamo dedicare un impressionante documento, anch'esso per non dimenticare, mai.
Quella che segue è la registrazione della prima scossa di terremoto, alle ore 19,34 del 23 novembre 1980. Una radio locale avellinese, Radio Alfa 102, stava registrando delle basi musicali, quando si ebbe la scossa che rimase impressa nel nastro che andò in saturazione. [CCG/AWS Staff]
Quella che segue è la registrazione della prima scossa di terremoto, alle ore 19,34 del 23 novembre 1980. Una radio locale avellinese, Radio Alfa 102, stava registrando delle basi musicali, quando si ebbe la scossa che rimase impressa nel nastro che andò in saturazione. [CCG/AWS Staff]
La guerra e il terremoto. Balvano e Onna.
Guerra e terremoto si somigliano, tragicamente. Il confine tra la guerra, tragedia provocata dall'uomo, e il terremoto, catastrofe naturale (cui l'uomo però, spesso, dà una mano più che decisiva) è sottile; distruzione, macerie, morte sono le stesse.
In questa pagina si parla di un paese irpino, Balvano, che ha dovuto, nella sua storia, subire entrambe le tragedie: quella della guerra e quella di un terremoto rovinoso. Era il 23 novembre 1980.
Il 6 aprile 2009 la storia si ripete a Onna, frazione del comune dell'Aquila. Onna, adesso, è un paese distrutto interamente dal terremoto. Si contano al momento circa 20 vittime accertate, ma è possibile che siano molte di più (su 400 abitanti).
Ma Onna ha subito anche gli orrori della guerra. L'11 giugno del 1944 fu infatti teatro di una strage nazifascista che provocò 16 vittime tra la popolazione inerme; in precedenza, il 2 giugno 1944, una giovane donna vi era già stata uccisa dai nazisti.
La vicenda dell'eccidio di Onna era stata raccontata dai giornalisti Aldo Scimia e Giustino Parisse nel volume "Onna: Indagine su un massacro"; da tale volume è stato tratto un cortometraggio, girato a Onna stessa, del quale qui si può vedere il trailer.
Si legge sul sito della pro-loco di Onna: "Nel 1994 e nel 2004 [la Pro-loco] ha organizzato una grande manifestazione a ricordo del 50° e del 60° anniversario dell'eccidio dei martiri di Onna avvenuto l'11 giugno del 1944. E su quell'esperienza ogni 11 giugno c'è una iniziativa attraverso la quale da Onna parte un grande messaggio di Pace per tutti i Popoli del mondo.
Che questo piccolo paese, così come la città dell'Aquila e tutti gli altri centri duramente colpiti dal sisma del 6 aprile 2009, possano presto risorgere e rivivere; è l'augurio di tutti e di questo sito in particolare.
Giustino Parisse, caporedattore del giornale abruzzese "Il Centro" e coautore del volume sulla strage nazista di Onna ha perso nel terremoto il padre e i due figli adolescenti. Lo apprendiamo adesso dalla lettura di un articolo su "La Repubblica". Ogni altro commento è superfluo.
Guerra e terremoto si somigliano, tragicamente. Il confine tra la guerra, tragedia provocata dall'uomo, e il terremoto, catastrofe naturale (cui l'uomo però, spesso, dà una mano più che decisiva) è sottile; distruzione, macerie, morte sono le stesse.
In questa pagina si parla di un paese irpino, Balvano, che ha dovuto, nella sua storia, subire entrambe le tragedie: quella della guerra e quella di un terremoto rovinoso. Era il 23 novembre 1980.
Il 6 aprile 2009 la storia si ripete a Onna, frazione del comune dell'Aquila. Onna, adesso, è un paese distrutto interamente dal terremoto. Si contano al momento circa 20 vittime accertate, ma è possibile che siano molte di più (su 400 abitanti).
Ma Onna ha subito anche gli orrori della guerra. L'11 giugno del 1944 fu infatti teatro di una strage nazifascista che provocò 16 vittime tra la popolazione inerme; in precedenza, il 2 giugno 1944, una giovane donna vi era già stata uccisa dai nazisti.
La vicenda dell'eccidio di Onna era stata raccontata dai giornalisti Aldo Scimia e Giustino Parisse nel volume "Onna: Indagine su un massacro"; da tale volume è stato tratto un cortometraggio, girato a Onna stessa, del quale qui si può vedere il trailer.
Si legge sul sito della pro-loco di Onna: "Nel 1994 e nel 2004 [la Pro-loco] ha organizzato una grande manifestazione a ricordo del 50° e del 60° anniversario dell'eccidio dei martiri di Onna avvenuto l'11 giugno del 1944. E su quell'esperienza ogni 11 giugno c'è una iniziativa attraverso la quale da Onna parte un grande messaggio di Pace per tutti i Popoli del mondo.
Che questo piccolo paese, così come la città dell'Aquila e tutti gli altri centri duramente colpiti dal sisma del 6 aprile 2009, possano presto risorgere e rivivere; è l'augurio di tutti e di questo sito in particolare.
Giustino Parisse, caporedattore del giornale abruzzese "Il Centro" e coautore del volume sulla strage nazista di Onna ha perso nel terremoto il padre e i due figli adolescenti. Lo apprendiamo adesso dalla lettura di un articolo su "La Repubblica". Ogni altro commento è superfluo.
CCG/AWS Staff - 7/4/2009 - 01:29
War and Earthquake. Balvano and Onna.
War and earthquake are tragically like. The borderline between war, a tragedy caused by man, and earthquake, a natural disaster (though often much helped by man) is very thin: destruction, ruins, death are the same.
This page is about an Irpinian village, Balvano, that had in its history to pass through both tragedies: the war and a destructive earthquake. It was on November 23, 1980.
On April 6, 2009, the story repeats itself in Onna, a small village in the Municipality of L'Aquila. Now Onna is totally destroyed by the earthquake. About 20 victims have been ascertained, but their number may be much more (out of 400 inhabitants).
But Onna had to suffer the horror of war, too. On June 11, 1944, it was the scene of a Nazist massacre that caused 16 victims among the unarmed population; a few days before the massacre, on June 2, 1944, a young woman had already been killed by the Nazis.
The story of the Onna massacre has been told by the journalists Aldo Scimia and Giustino Parisse in their book “Onna: Indagine su un massacro” (“Onna: Investigation on a massacre”); a short documentary film based on this book was shot in Onna - trailer available here.
You may read on Onna Local Supporting Association website: "In 1994 and 2004 [the Local Supporting Association] organized a great event to commemorate the 50th and 60th anniversary of the Onna massacre, occurred on June 11, 1944. An event is held on every 11 June, through which Onna launches a great peace message to all Peoples of the world.
May this small village, as well as the city of L'Aquila and all other towns that have been struck so hard by the earthquake of April 6, 2009, rise again and revive; this is the wish of everybody, and of this website in particular.
Giustino Parisse, chief redactor of the Abruzzese newspaper "Il Centro" and co-author of the book on Onna Nazist massacre, has lost his father and his two teenaged children in the quake. We've learned it from an article on "La Repubblica". No need of commenting.
War and earthquake are tragically like. The borderline between war, a tragedy caused by man, and earthquake, a natural disaster (though often much helped by man) is very thin: destruction, ruins, death are the same.
This page is about an Irpinian village, Balvano, that had in its history to pass through both tragedies: the war and a destructive earthquake. It was on November 23, 1980.
On April 6, 2009, the story repeats itself in Onna, a small village in the Municipality of L'Aquila. Now Onna is totally destroyed by the earthquake. About 20 victims have been ascertained, but their number may be much more (out of 400 inhabitants).
But Onna had to suffer the horror of war, too. On June 11, 1944, it was the scene of a Nazist massacre that caused 16 victims among the unarmed population; a few days before the massacre, on June 2, 1944, a young woman had already been killed by the Nazis.
The story of the Onna massacre has been told by the journalists Aldo Scimia and Giustino Parisse in their book “Onna: Indagine su un massacro” (“Onna: Investigation on a massacre”); a short documentary film based on this book was shot in Onna - trailer available here.
You may read on Onna Local Supporting Association website: "In 1994 and 2004 [the Local Supporting Association] organized a great event to commemorate the 50th and 60th anniversary of the Onna massacre, occurred on June 11, 1944. An event is held on every 11 June, through which Onna launches a great peace message to all Peoples of the world.
May this small village, as well as the city of L'Aquila and all other towns that have been struck so hard by the earthquake of April 6, 2009, rise again and revive; this is the wish of everybody, and of this website in particular.
Giustino Parisse, chief redactor of the Abruzzese newspaper "Il Centro" and co-author of the book on Onna Nazist massacre, has lost his father and his two teenaged children in the quake. We've learned it from an article on "La Repubblica". No need of commenting.
CCG/AWS Staff - 7/4/2009 - 02:09
Macerie
di Alessandra Daniele
da Carmilla on line
In Abruzzo più di un centinaio di morti, e decine di migliaia di senzatetto.
In Parlamento il solito accordo bipartisan: ''questo non è il momento delle polemiche''.
Certo, sarebbe assurdo parlare di norme antisismiche dopo un sisma.
Parliamo di norme antiforfora.
Poi magari diamo fuoco anche alle baraccopoli degli abruzzesi sfollati come facciamo con quelle dei rom.
Questo non è il momento di parlare di speculazione edilizia, incuria, ecomafia, corruzione, per riflettere su quanto sia appropriata la definizione "condono tombale".
È il momento di dare al governo la possibilità di sfruttare la tragedia come ennesimo spot "sociale" per le elezioni europee.
Qualcosa tipo la strappona sdraiata sulla monnezza che ringrazia il governo di avere "ripulito Napoli", ma più in grande, e a reti semi-unificate.
I pezzi grossi da Vespa, il gran sacerdote del Cordoglio Controllato, l’imbalsamatore capo d’ogni tragedia da mummificare nella retorica istituzionale.
Gli sfigati al tavolo tondo da seduta spiritica di Lerner e Gruber, accanto all’inquietante materializzazione dell’ectoplasma di Zamberletti.
Questo non è il momento di dare la colpa ai colpevoli, di attribuire le responsabilità ai responsabili.
È il momento di intervistare gli esperti, e domandargli basiti e increduli come sia possibile aspettarsi un terremoto in un paese che da sempre trema come un parkinsoniano all’ultimo stadio.
Ci faranno una puntata di Voyager. Lo chiederanno a Titor, alla setta dei Cugini di Satana, al sagrestano di Rennes-le-Château: com’è possibile aspettarsi un sisma in zona sismica?...
Questo non è il momento di chiedere conto a chi costruisce palazzi con lo zucchero a velo al posto del cemento, sarebbe indelicato verso chi sotto le macerie di quei palazzi c’è morto.
Il loro ultimo desiderio è stato di certo un accordo bipartisan in Parlamento che evitasse le polemiche.
Questo è il momento di ravanare tra le macerie delle vite altrui, a caccia di reperti strappalacrime da esibire alle telecamere, e poi accusare di sciacallaggio chi quelle vite le avrebbe volute salvare.
Questo è il momento di pregustare il business per la ricostruzione, condito dalla deregulation del nuovo piano casa.
È il momento di preparare il prossimo condono tombale.
di Alessandra Daniele
da Carmilla on line
In Abruzzo più di un centinaio di morti, e decine di migliaia di senzatetto.
In Parlamento il solito accordo bipartisan: ''questo non è il momento delle polemiche''.
Certo, sarebbe assurdo parlare di norme antisismiche dopo un sisma.
Parliamo di norme antiforfora.
Poi magari diamo fuoco anche alle baraccopoli degli abruzzesi sfollati come facciamo con quelle dei rom.
Questo non è il momento di parlare di speculazione edilizia, incuria, ecomafia, corruzione, per riflettere su quanto sia appropriata la definizione "condono tombale".
È il momento di dare al governo la possibilità di sfruttare la tragedia come ennesimo spot "sociale" per le elezioni europee.
Qualcosa tipo la strappona sdraiata sulla monnezza che ringrazia il governo di avere "ripulito Napoli", ma più in grande, e a reti semi-unificate.
I pezzi grossi da Vespa, il gran sacerdote del Cordoglio Controllato, l’imbalsamatore capo d’ogni tragedia da mummificare nella retorica istituzionale.
Gli sfigati al tavolo tondo da seduta spiritica di Lerner e Gruber, accanto all’inquietante materializzazione dell’ectoplasma di Zamberletti.
Questo non è il momento di dare la colpa ai colpevoli, di attribuire le responsabilità ai responsabili.
È il momento di intervistare gli esperti, e domandargli basiti e increduli come sia possibile aspettarsi un terremoto in un paese che da sempre trema come un parkinsoniano all’ultimo stadio.
Ci faranno una puntata di Voyager. Lo chiederanno a Titor, alla setta dei Cugini di Satana, al sagrestano di Rennes-le-Château: com’è possibile aspettarsi un sisma in zona sismica?...
Questo non è il momento di chiedere conto a chi costruisce palazzi con lo zucchero a velo al posto del cemento, sarebbe indelicato verso chi sotto le macerie di quei palazzi c’è morto.
Il loro ultimo desiderio è stato di certo un accordo bipartisan in Parlamento che evitasse le polemiche.
Questo è il momento di ravanare tra le macerie delle vite altrui, a caccia di reperti strappalacrime da esibire alle telecamere, e poi accusare di sciacallaggio chi quelle vite le avrebbe volute salvare.
Questo è il momento di pregustare il business per la ricostruzione, condito dalla deregulation del nuovo piano casa.
È il momento di preparare il prossimo condono tombale.
CCG/AWS Staff - 7/4/2009 - 17:10
3 marzo ‘44 / A Balvano nella Galleria della memoria e dell’orrore
di Vincenzo Esposito
Salerno Sera online, 2 marzo 2019
Il 3 marzo 1944 nella galleria “Delle Armi”, nei pressi della stazione Balvano-Ricigliano, in provincia di Potenza, si verificò il più grave incidente ferroviario per numero di vittime mai accaduto in Italia. La tragedia di 75 anni fa, nota come “Sciagura del treno 8017”, è tra i più gravi disastri ferroviari della storia: 517 i morti benché le stime siano tuttora oggetto di discussione e il numero potrebbe essere maggiore, arrivando a oltre 600 vittime. L’evento è evocato nell’articolo che segue dall’antropologo culturale Vincenzo Esposito, docente presso l’Università di Salerno.
Il 3 marzo 1944 nella galleria “Delle Armi”, nei pressi della stazione Balvano-Ricigliano, in provincia di Potenza, si verificò il più grave incidente ferroviario per numero di vittime mai accaduto in Italia. La tragedia di 75 anni fa, nota come “Sciagura del treno 8017”, è tra i più gravi disastri ferroviari della storia: 517 i morti benché le stime siano tuttora oggetto di discussione e il numero potrebbe essere maggiore, arrivando a oltre 600 vittime. L’evento è evocato nell’articolo che segue dall’antropologo culturale Vincenzo Esposito, docente presso l’Università di Salerno.
Quando mi imbattei nei fatti tragici di Balvano, della Galleria delle Armi e del treno merci 8017 non pensai affatto che tutte quelle vicende dolorose – le vite e le morti di seicento persone, lo sforzo pressoché inutile di quei pochi che furono precettati per un tardivo tentativo di soccorso, il nefasto sfondo sul quale gli avvenimenti si produssero – potessero dare il via ad una ricerca etnografica sul campo diretta da un antropologo culturale e, soprattutto, non pensai che potessero diventare l’oggetto di un libro e di un video documentario di natura etnologica, capace di proporre non un tentativo di ricostruzione dei fatti – di per se stessi fin troppo chiari – ma una loro chiara interpretazione sociale, ambientale, culturale. In grado di porsi come momento critico, riflessivo e dialogico relativo agli avvenimenti. Avevo torto.
Come antropologo e come essere umano, mi sentii coinvolto perché avevo netta la sensazione che, per quanto dimenticate, le vicende di Balvano e del treno 8017 fossero una parte della nostra «tradizione» e della nostra storia sulla quale, professionalmente, avrei potuto dire qualcosa, proporre una riflessione sulla memoria e sulla costruzione dei ricordi. Perché le tragiche e singolari vicende occorse al treno 8017, sotto la Galleria delle Armi, a Balvano, in provincia di Potenza, con la loro lunghissima lista di morti, rappresentano, per chi le ricorda e le vuole celebrare mestamente ma con fiera consapevolezza, il limite tra un passato tragico, che non deve ritornare, con la sua sequenza di catastrofi e di lutti, ed un presente problematico e imprevedibile. Perché, a Balvano, è avvenuta la più grande sciagura ferroviaria d’Europa e, contemporaneamente, è stata costruita una tradizione che la ricorda e ne rende sopportabile il peso «storico». In altre parole, ci si trova di fronte a una vicenda che è diventata “una tradizione in senso antropologico”: un «ricordo» che ci indica chi siamo oggi e chi eravamo ieri. Il mio cordoglio scaturisce da una lunga ricerca che si è svolta sul campo, raccogliendo dalla viva voce delle persone coinvolte, le maggior parte delle notizie utili a ricostruire il contesto nel quale si svolsero le drammatiche vicende del 3 marzo ‘44. Non bastava ricostruire i fatti «così come si erano svolti» ma bisognava individuare il processo di trasformazione della memoria in ricordo.
Per ricordare bisognava recuperare il racconto degli altri, rammentare i punti di vista di Vincenzo Pacella da Balvano, allora giovane militare, in attesa di destinazione dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, spedito a ricomporre sui binari della stazione i cadaveri della tragedia; di Ugo Gentile, salernitano, giovanissimo capostazione a Baragiano, in vana attesa di un treno che non giunse mai; di Vincenzo Francione da Torre del Greco, figlio di quella donna deposta per errore tra i cadaveri maschili, riconosciuta in extremis dal marito grazie ad un foulard che indossava; di Raffaele Bellucci, uomo di Cava de’ Tirreni che sul treno viaggiava in quella notte del ’44, cercando di sfuggire alle forze dell’ordine che requisivano come illecito tutto ciò che invece serviva per sfamarsi; di Pino Turco da Campagna, artista, regista, musicista, amico caro che con i detenuti dell’Icatt (Istituto a contenzione attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze) di Eboli si occupava di memorie, ricordi, persone sofferenti a partire dai fatti del 3 marzo ‘44; di Pietro Rossini, salernitano di Pastorano, che sul treno maledetto perse il padre Giorgio e non si dette per vinto fino a quando non gli lasciarono apporre una lapide commemorativa a Cappelle, anzi due perché una gli sembrava poco. Neanche loro, tranne Ugo, sono qui tra noi, come le 600 vittime di Balvano. E tutti insieme – e insieme altri ancora – abbiamo costruito una «comunità» particolare, sentimentale.
Una «Comunità affettiva del ricordo» la quale, intorno ai fatti tragici di allora, costruisce e ricostruisce ritualmente, performativamente la loro/nostra memoria, per sottrarla agli inevitabili meccanismi dello scorrere del tempo e dell’oblio; a quelli del potere che frettolosamente dismette ciò che non serve a se stesso. Una «Comuntà» che sopravvive anche grazie ai materiali e ai documenti i quali, per loro «natura», sembrano eterogenei e forse incomparabili: testimonianze, pagine di libri, sequenze cinematografiche, canzoni scritte per ricordare, fotografie d’epoca, articoli di giornale. È sempre stato questo il senso della mia ricerca.
La temperie culturale che fece da cornice ai fatti del treno 8017 è nota: quel grande sfondo storico, politico e sociale che è stata la II Guerra mondiale, col suo inumano carico di strazio, morti, miseria, bombardamenti, distruzione, fame, follia, politiche violente, macerie materiali e morali. Uno sfondo drammatico sul quale l’umana presenza, per dirla con Ernesto de Martino, provava, nonostante tutto, a rimanere sveglia nel suo tentativo di trasformare il contingente in valore, il quotidiano in Storia; provava a trovare gli strumenti morali e culturali per arginare quel negativo per eccellenza che rende gli uomini incapaci di reagire ed agire nella Storia in maniera realistica e concreta, anche in assenza dei più elementari beni materiali, capaci di garantire la sia pur minima sopravvivenza materiale. Anche in assenza dei più elementari diritti come quello all’essere ricordati.
di Vincenzo Esposito
Salerno Sera online, 2 marzo 2019
Il 3 marzo 1944 nella galleria “Delle Armi”, nei pressi della stazione Balvano-Ricigliano, in provincia di Potenza, si verificò il più grave incidente ferroviario per numero di vittime mai accaduto in Italia. La tragedia di 75 anni fa, nota come “Sciagura del treno 8017”, è tra i più gravi disastri ferroviari della storia: 517 i morti benché le stime siano tuttora oggetto di discussione e il numero potrebbe essere maggiore, arrivando a oltre 600 vittime. L’evento è evocato nell’articolo che segue dall’antropologo culturale Vincenzo Esposito, docente presso l’Università di Salerno.
Il 3 marzo 1944 nella galleria “Delle Armi”, nei pressi della stazione Balvano-Ricigliano, in provincia di Potenza, si verificò il più grave incidente ferroviario per numero di vittime mai accaduto in Italia. La tragedia di 75 anni fa, nota come “Sciagura del treno 8017”, è tra i più gravi disastri ferroviari della storia: 517 i morti benché le stime siano tuttora oggetto di discussione e il numero potrebbe essere maggiore, arrivando a oltre 600 vittime. L’evento è evocato nell’articolo che segue dall’antropologo culturale Vincenzo Esposito, docente presso l’Università di Salerno.
Quando mi imbattei nei fatti tragici di Balvano, della Galleria delle Armi e del treno merci 8017 non pensai affatto che tutte quelle vicende dolorose – le vite e le morti di seicento persone, lo sforzo pressoché inutile di quei pochi che furono precettati per un tardivo tentativo di soccorso, il nefasto sfondo sul quale gli avvenimenti si produssero – potessero dare il via ad una ricerca etnografica sul campo diretta da un antropologo culturale e, soprattutto, non pensai che potessero diventare l’oggetto di un libro e di un video documentario di natura etnologica, capace di proporre non un tentativo di ricostruzione dei fatti – di per se stessi fin troppo chiari – ma una loro chiara interpretazione sociale, ambientale, culturale. In grado di porsi come momento critico, riflessivo e dialogico relativo agli avvenimenti. Avevo torto.
Come antropologo e come essere umano, mi sentii coinvolto perché avevo netta la sensazione che, per quanto dimenticate, le vicende di Balvano e del treno 8017 fossero una parte della nostra «tradizione» e della nostra storia sulla quale, professionalmente, avrei potuto dire qualcosa, proporre una riflessione sulla memoria e sulla costruzione dei ricordi. Perché le tragiche e singolari vicende occorse al treno 8017, sotto la Galleria delle Armi, a Balvano, in provincia di Potenza, con la loro lunghissima lista di morti, rappresentano, per chi le ricorda e le vuole celebrare mestamente ma con fiera consapevolezza, il limite tra un passato tragico, che non deve ritornare, con la sua sequenza di catastrofi e di lutti, ed un presente problematico e imprevedibile. Perché, a Balvano, è avvenuta la più grande sciagura ferroviaria d’Europa e, contemporaneamente, è stata costruita una tradizione che la ricorda e ne rende sopportabile il peso «storico». In altre parole, ci si trova di fronte a una vicenda che è diventata “una tradizione in senso antropologico”: un «ricordo» che ci indica chi siamo oggi e chi eravamo ieri. Il mio cordoglio scaturisce da una lunga ricerca che si è svolta sul campo, raccogliendo dalla viva voce delle persone coinvolte, le maggior parte delle notizie utili a ricostruire il contesto nel quale si svolsero le drammatiche vicende del 3 marzo ‘44. Non bastava ricostruire i fatti «così come si erano svolti» ma bisognava individuare il processo di trasformazione della memoria in ricordo.
Per ricordare bisognava recuperare il racconto degli altri, rammentare i punti di vista di Vincenzo Pacella da Balvano, allora giovane militare, in attesa di destinazione dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, spedito a ricomporre sui binari della stazione i cadaveri della tragedia; di Ugo Gentile, salernitano, giovanissimo capostazione a Baragiano, in vana attesa di un treno che non giunse mai; di Vincenzo Francione da Torre del Greco, figlio di quella donna deposta per errore tra i cadaveri maschili, riconosciuta in extremis dal marito grazie ad un foulard che indossava; di Raffaele Bellucci, uomo di Cava de’ Tirreni che sul treno viaggiava in quella notte del ’44, cercando di sfuggire alle forze dell’ordine che requisivano come illecito tutto ciò che invece serviva per sfamarsi; di Pino Turco da Campagna, artista, regista, musicista, amico caro che con i detenuti dell’Icatt (Istituto a contenzione attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze) di Eboli si occupava di memorie, ricordi, persone sofferenti a partire dai fatti del 3 marzo ‘44; di Pietro Rossini, salernitano di Pastorano, che sul treno maledetto perse il padre Giorgio e non si dette per vinto fino a quando non gli lasciarono apporre una lapide commemorativa a Cappelle, anzi due perché una gli sembrava poco. Neanche loro, tranne Ugo, sono qui tra noi, come le 600 vittime di Balvano. E tutti insieme – e insieme altri ancora – abbiamo costruito una «comunità» particolare, sentimentale.
Una «Comunità affettiva del ricordo» la quale, intorno ai fatti tragici di allora, costruisce e ricostruisce ritualmente, performativamente la loro/nostra memoria, per sottrarla agli inevitabili meccanismi dello scorrere del tempo e dell’oblio; a quelli del potere che frettolosamente dismette ciò che non serve a se stesso. Una «Comuntà» che sopravvive anche grazie ai materiali e ai documenti i quali, per loro «natura», sembrano eterogenei e forse incomparabili: testimonianze, pagine di libri, sequenze cinematografiche, canzoni scritte per ricordare, fotografie d’epoca, articoli di giornale. È sempre stato questo il senso della mia ricerca.
La temperie culturale che fece da cornice ai fatti del treno 8017 è nota: quel grande sfondo storico, politico e sociale che è stata la II Guerra mondiale, col suo inumano carico di strazio, morti, miseria, bombardamenti, distruzione, fame, follia, politiche violente, macerie materiali e morali. Uno sfondo drammatico sul quale l’umana presenza, per dirla con Ernesto de Martino, provava, nonostante tutto, a rimanere sveglia nel suo tentativo di trasformare il contingente in valore, il quotidiano in Storia; provava a trovare gli strumenti morali e culturali per arginare quel negativo per eccellenza che rende gli uomini incapaci di reagire ed agire nella Storia in maniera realistica e concreta, anche in assenza dei più elementari beni materiali, capaci di garantire la sia pur minima sopravvivenza materiale. Anche in assenza dei più elementari diritti come quello all’essere ricordati.
Riccardo Venturi - 3/3/2022 - 08:55
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Lyrics and music by Terry Allen & Will Sexton
Testo e musica di Terry Allen e Will Sexton
Green Shoes Pub./Jalapeño Cornbread, BMI
Album: Human Remains
La strage del treno 8017, o strage di Balvano, avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 marzo 1944 dentro la Galleria delle Armi, poco dopo la stazione del paese lucano, è stata la più grave sciagura ferroviaria non solo italiana, ma europea. Una sciagura provocata dalla guerra, e neppure tanto indirettamente; il bel sito Treno di Luce 8017, dal quale molto abbiamo ripreso per questa pagina, è chiarissimo al riguardo. “Oggi 3 marzo 2004, giorno del 60° anniversario della Tragedia di Balvano, nasce la Cyberassociazione "Treno di Luce 8017" con il compito di riunire i familiari ed amici delle circa 600 vittime del treno che si fermò nella Galleria delle Armi (poi rinominata Galleria della Morte) nella notte tra il 2 e 3 marzo 1944, uccidendo i suoi occupanti con l'ossido di carbonio. Il Treno di Luce non è solo un convoglio materiale ma un mezzo celeste per ricordare tutti quei morti, vittime di un olocausto inutile, frutto della guerra e della vita cosiddetta civile che sopraffà i poveri. Per questo il Treno di Luce vuol viaggiare sulle rotaie del Cyberspazio per portare il suo messaggio di pace contro la guerra e la sopraffazione dei deboli ad opera dei forti.”
Parole chiarissime che condividiamo in toto; è ancor più chiaro è il sito “Treno di Luce” nell'individuare i veri colpevoli del disastro o, per dirla con le loro parole: “Il decreto di condanna a morte dei 521 passeggeri del treno 8017 emblema dei tanti innocenti, soldati e civili, caduti per una guerra, che come tutte le guerre, è inutile e criminale.”.
Ma vi invitiamo a leggere bene quel sito, per sapere veramente tutto quel che c'è da sapere su quel fatto apparentemente lontano; per quel che ci riguarda, con questa pagina facciamo semplicemente quel che facciamo da cinque anni e mezzo a questa parte: coltiviamo la memoria.
Alla strage del treno 8017, ancora viva nella cultura popolare della zona, il cantautore country americano Terry Allen ha dedicato una canzone; anche se sbagliata nel titolo (“Galleria dele Armi” nell'originale) e con Balvano trasformato in “Bovano”. Un segno, anche, del risalto che la tragedia ebbe di là dall'Oceano, e fin dai primi giorni. E' possibile che la strage del treno 8017 sia ricordata più in America che in questo paese.
La strage del treno 8017
« Nessuna Spoon River dei poveri ha mai raccontato le loro storie. »
(Antonio Manzo, sul Il Mattino, 29 febbraio 2004)
Il treno merci speciale 8017, creato per caricare legname da utilizzare nella ricostruzione dei ponti distrutti dalla guerra, partì da Napoli nel primo pomeriggio con destinazione Potenza: il treno era molto lungo, perciò venne dotato di una locomotiva elettrica molto potente fino a Salerno, stazione in cui venne sostituita da una macchina a vapore per poter percorrere il tratto dopo Battipaglia, non elettrificato, dove arrivò poco dopo le 6 del pomeriggio.
Alle 19.00 del 2 marzo 1944 partì dalla stazione di Battipaglia in direzione Potenza mosso dalle due vaporiere 476.020 e 480.016 di pertinenza del deposito di Salerno. Il treno era composto da 47 vagoni e 2 locomotive per superare le pendenze, dato il ragguardevole peso di 520 tonnellate.
In origine non era prevista la seconda locomotiva, ma la necessità di spostare la macchina 480 da Battipaglia a Potenza spinse ad aggiungerla in testa al treno per rendere più facile il duro valico tra Baragiano e Tito. Come tutte le locomotive dell'epoca, entrambe le macchine erano a cabina aperta, alimentate a carbone spalato da fuochisti e controllate da un macchinista.
Sul treno salirono centinaia di viaggiatori clandestini provenienti soprattutto dai grossi centri del napoletano, stremati dalla guerra, che nei paesi di montagna lucani speravano di poter acquistare derrate alimentari in cambio di sigari e caffè distribuiti dagli americani. Sul treno erano presenti anche alcuni ragazzi. Il carico di persone influiva notevolmente sul peso del treno, portandolo a superare le 600 tonnellate.
Alla stazione di Eboli alcuni abusivi vennero fatti scendere ma più numerosi ne salirono alle stazioni successive, fino ad arrivare ad un numero di circa 600 passeggeri.
Il treno arrivò circa a mezzanotte alla stazione di Balvano, dove le locomotive ricevettero la normale manutenzione causando un accumulo di 37 minuti di ritardo, e da lì alle 0.50 del 3 marzo ripartì per un tratto in notevole pendenza con numerose gallerie molto strette e poco areate. Sarebbe dovuto arrivare a Bella-Muro venti minuti dopo, ma alle 2.40 non era ancora stato segnalato alla stazione successiva.
Gli sforzi delle locomotive per riprendere la marcia svilupparono grandi quantità di monossido di carbonio e acido carbonico, facendo presto perdere i sensi al personale di macchina. In poco tempo anche la maggioranza dei passeggeri, che in quel momento stavano dormendo, venne asfissiata dai gas tossici che, in assenza di vento, potevano uscire dalla strettissima galleria solo tramite il piccolo condotto di aerazione.
L'unico fuochista che sopravvisse, Luigi Ronga, dichiarò che il macchinista suo compagno, Espedito Senatore, prima di svenire tentò di dare potenza per superare lo stallo e cercare di uscire dal budello. Le condizioni della macchina n. 476 indicano che invece il suo personale, il macchinista Matteo Gigliano e il fuochista Rosario Barbaro, tentò di invertire la marcia per retrocedere. La potenza superiore della 476 e l'inclinazione avrebbero comunque permesso di sopravanzare in potenza la macchina 480, ma il manovratore perse i sensi prima di aprire la valvola di regolazione, particolarmente dura su quelle macchine. La posizione dei treni e dei comandi confermò in seguito questo racconto.
Il capostazione del posto di Balvano, alle 5.25 fece distaccare la locomotiva del convoglio 8025 giunto in stazione ed in attesa di passo, e dispose una ricognizione alla galleria indicata: ai soccorsi arrivati sul posto la situazione apparve subito molto grave, al punto da non poter rimuovere il convoglio a causa dei corpi abbandonati anche sulla banchina. Con l'arrivo di una seconda squadra di soccorso, alle ore 8.40 venne liberata la tratta e il treno finalmente recuperato.
Il bilancio della tragedia è ancora oggi impossibile da accertare ed oggetto di controversie: quello ufficiale parlava di 501 passeggeri, 8 militari e di 7 ferrovieri morti, ma sicuramente i morti furono oltre 600. Molte vittime tra i passeggeri non vennero riconosciute. Furono tutti allineati sulla banchina della stazione di Balvano e poi sepolti senza funerali nel cimitero del paesino, in quattro fosse comuni.
Gli agenti ferroviari invece vennero sepolti a Salerno. Molti dei sopravvissuti riportarono gravi sconvolgimenti mentali.
È la più grave sciagura ferroviaria italiana ed europea, e una delle più gravi al mondo.
Le cause della tragedia furono molteplici: la giornata era poco ventosa, per cui la galleria non godeva della normale ventilazione naturale, e l'umidità della foschia notturna aveva bagnato i binari, rendendoli scivolosi e ardui da percorrere per un treno così pesante. A questi si affiancava la mancata vigilanza delle autorità competenti, che avevano permesso il sovraccarico del treno e la presenza a bordo di viaggiatori clandestini.
Inoltre, per una serie di cause contingenti il treno era stato composto con due locomotive in testa, invece che con una in testa e una in coda come nelle composizioni tipiche. Anche solo aver posto le locomotive separate, avrebbe potuto contribuire ad evitare la tragedia.
Soprattutto però la responsabilità della tragedia venne imputata alla scarsa qualità del carbone jugoslavo fornito dal Comando Militare Alleato. Questo carbone, di qualità nettamente inferiore a quello tedesco usato in precedenza, conteneva molto zolfo e ceneri, che rendevano poco affidabile il tiraggio dei fumi ostruendo le tubature della caldaia.
Mancando un efficiente drenaggio dei fumi, all'apertura della bocca di lupo del forno i gas ritornavano in cabina, intossicando il personale e rendendo difficile la regolazione del forno, una situazione che poteva causare improvvisi cali di pressione alla caldaia. Senza uno stretto controllo dell'alimentazione, la capacità di trazione scadeva notevolmente, fino a far fermare la macchina in salita e a rendere impossibile la compensazione dello slittamento sulle rotaie.
Un mese prima, in una galleria sulla tratta Baragiano-Tito, immediatamente successiva a quella della tragedia e con pendenze superiori al 22‰, un treno dell'Autorità Militare Americana aveva subito un incidente simile, dove il personale era rimasto intossicato dai gas di scarico del carbone di scarsa qualità. Il macchinista Vincenzo Abbate era svenuto ed era rimasto schiacciato tra la motrice e il tender.
Per ridurre l'eventualità di questi incidenti riducendo gli sforzi e le emissioni delle macchine era stato disposto il limite di 350 tonnellate per questa tratta, e l'utilizzo di locomotori diesel-elettrici americani nei casi di doppia trazione, con eventualmente una locomotiva a vapore italiana posta in coda e invertita per scaricare con il fumaiolo in coda. Venne stabilito a Battipaglia il punto di applicazione di queste normative, per evitare di dover compiere operazioni di separazione sulla linea montana. Questi limiti rimasero per molto tempo in vigore, fino al 1996, quando la linea Battipaglia-Metaponto venne tutta elettrificata.
Inoltre nell'uscita sud della Galleria delle Armi fu istituito un posto di guardia in cui l'operatore ad ogni passaggio di treno doveva avvertire telefonicamente la stazione di Balvano quando poteva vedere la luce in fondo, segno che nella galleria non vi erano più gas di scarico. Queste disposizioni rimasero in vigore fino al 1959, quando su questa linea vennero vietate le locomotive a vapore.
La commissione parlamentare non rilevò alcuna responsabilità per l'accaduto, che venne ritenuto una sciagura per cause di forza maggiore. Tuttavia vennero avanzate ipotesi per alcune infrazioni secondarie.
Il treno avrebbe dovuto essere fermato a Battipaglia nonostante le due locomotive fossero nominalmente sufficienti al traino, e avrebbe dovuto essere messo in regola con le nuove normative; era noto inoltre che il carbone fornito non era in grado di sviluppare sufficiente potenza per mantenere le massime prestazioni delle macchine.
Vennero sollevati dubbi sulla tempestività dei soccorsi e sull'operato dei capistazione di Balvano e Bella-Muro, che non accertarono subito la posizione del treno quando questo apparve in ritardo sulla tabella di marcia. Tuttavia nella confusione postbellica era normale che le comunicazioni fossero intermittenti, e i treni portassero grande ritardo. Non era raro che ci volessero oltre due ore per percorrere i 7 km della tratta.
Inizialmente venne anche supposto che i macchinisti non avessero adeguatamente regolato le sabbiere, che avrebbero potuto evitare lo slittamento delle ruote.
Infine la catastrofe venne attribuita principalmente a una combinazione di cause materiali, quali densa nebbia, foschia atmosferica, mancanza completa di vento, che non ha mantenuto la naturale ventilazione della galleria, rotaie umide, ecc., cause che malauguratamente si sono presentate tutte insieme e in rapida successione. Il treno si è fermato a causa del fatto che scivolava sulle rotaie e il personale delle macchine era stato sopraffatto dall'avvelenamento prodotto dal gas, prima che avesse potuto agire per condurre il treno fuori del tunnel. A causa della presenza dell'acido carbonico, straordinariamente velenoso, si è prodotta l'asfissia dei passeggeri clandestini. L'azione di questo gas è così rapida, che la tragedia è avvenuta prima che alcun soccorso dall'esterno potesse essere portato.
Venne notato che le disposizioni per la costituzione del treno venivano direttamente dal Comando Alleato, e che comunque il personale di stazione e viaggiante non avrebbe potuto fermare il treno e chiederne la modifica. Lo stesso comando organizzò un treno per verificare le condizioni dell'incidente, con il personale dotato di maschere ad ossigeno, che rilevò l'effettivo sviluppo di quantità anomale di gas tossici.
Molti dei parenti delle vittime intentarono causa alle Ferrovie dello Stato, anche con motivazioni quantomeno pretestuose data la situazione di clandestinità di molti dei passeggeri. Le ferrovie declinarono ogni responsabilità, anche perché secondo la complicata situazione dell'equilibrio dei poteri tra le amministrazioni italiane e il Comando americano non era immediato nemmeno risalire a chi avesse la responsabilità della gestione di quella particolare tratta. Per spegnere sul nascere una vertenza che avrebbe potuto trascinarsi per anni, il Ministero del Tesoro sancì l'emissione di un risarcimento come se si trattasse di vittime di guerra (risarcimento che venne erogato dopo oltre 15 anni).
Peraltro, alcune fonti indicano che molti dei passeggeri a bordo del treno fossero in possesso di un "regolare" biglietto ferroviario, che li qualificava quindi come passeggeri e non come clandestini. Questa condizione, che avrebbe implicato la possibilità di richiedere cospicui risarcimenti all'ente che gestiva la linea, sarebbe stata fatta passare sotto silenzio durante le inchieste ufficiali sulla tragedia. Le fonti ufficiali tuttavia parlano solo di clandestini, questione supportata dal fatto che il treno era classificato come merci e quindi non autorizzato al trasporto di passeggeri paganti.
La questione non risulta tuttora essere stata chiarita in modo definitivo.
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Dal TG2 del 1° marzo 2008.
Si veda anche Una serie completa di articoli e saggi sulla strage del treno 8017.