Lent a vén Doberdón fütyül a szél,
elkerül az álom, nem alszom én.
Rőzselángja 1 mellett dúdolgatom 2,
sújt engem az élet, fogoly vagyok.
Kis tanyám a régi, cseréptetős
szomszédom egy régi jó ismerős.
Asztalomon ott áll amint szokás
egy üveg kadarka, s fehér kalács.
Asszonyom ruhát varr a kis padon
én a hamvas ajkát csókolgatom.
Átölele tartom kis gyermekem,
ő a szabadságrol beszél nekem.
Megzörren az ablak, felébredek
álmos két szememből a könny pereg.
Álom volt csupán hogy szabad vagyok,
sújt engem az élet, fogoly vagyok.
Lassan évek multán időm lejár,
bezörgetnek hozzám, szabad vagy már.
Elindulok lassan hazafelé,
a sok ismerős már nevet felém.
Templom elé érve térdre rogyom 3,
reszkető kezekkel imádkozom.
Imádkozom hozád bűneimért
Imádkozom hozzád kegyelemért.
elkerül az álom, nem alszom én.
Rőzselángja 1 mellett dúdolgatom 2,
sújt engem az élet, fogoly vagyok.
Kis tanyám a régi, cseréptetős
szomszédom egy régi jó ismerős.
Asztalomon ott áll amint szokás
egy üveg kadarka, s fehér kalács.
Asszonyom ruhát varr a kis padon
én a hamvas ajkát csókolgatom.
Átölele tartom kis gyermekem,
ő a szabadságrol beszél nekem.
Megzörren az ablak, felébredek
álmos két szememből a könny pereg.
Álom volt csupán hogy szabad vagyok,
sújt engem az élet, fogoly vagyok.
Lassan évek multán időm lejár,
bezörgetnek hozzám, szabad vagy már.
Elindulok lassan hazafelé,
a sok ismerős már nevet felém.
Templom elé érve térdre rogyom 3,
reszkető kezekkel imádkozom.
Imádkozom hozád bűneimért
Imádkozom hozzád kegyelemért.
Note testuali
Le seguenti note al testo si rivolgono a chi abbia qualche conoscenza, anche di base, della lingua ungherese e intendono dar conto di qualche incertezza nel testo così come riportato dalla fonte. Il testo sembra essere stato trascritto a memoria da qualcuno che lo ha ascoltato molti anni fa, durante il servizio militare, e appare come scritto da qualcuno che non scrive più usualmente l'ungherese (gli errori di ortografia sono stati, come già specificato, corretti).
[1] In rözselángja è presente il suffisso possessivo di III persona singolare (-ja) che non appare giustificato dal significato: “accanto al suo fuoco di sterpi”, alla lettera.
[2] Il verbo dúdolgat “canticchiare, canterellare” appare qui munito della desinenza della I persona singolare del presente indicativo della coniugazione oggettiva, che richiederebbe un complemento diretto. Non essendo presente, dovrebbe a rigore recare la desinenza della coniugazione soggettiva (propriamente: dúdolgatok). Ma è pur vero che, nell'ungherese parlato, le due coniugazioni verbali non vengono spesso rispettate.
[3] Il medesimo caso: anche qui il verbo rogy sta alla coniugazione oggettiva quando dovrebbe stare a quella soggettiva, essendo intransitivo (rogyok).
Le seguenti note al testo si rivolgono a chi abbia qualche conoscenza, anche di base, della lingua ungherese e intendono dar conto di qualche incertezza nel testo così come riportato dalla fonte. Il testo sembra essere stato trascritto a memoria da qualcuno che lo ha ascoltato molti anni fa, durante il servizio militare, e appare come scritto da qualcuno che non scrive più usualmente l'ungherese (gli errori di ortografia sono stati, come già specificato, corretti).
[1] In rözselángja è presente il suffisso possessivo di III persona singolare (-ja) che non appare giustificato dal significato: “accanto al suo fuoco di sterpi”, alla lettera.
[2] Il verbo dúdolgat “canticchiare, canterellare” appare qui munito della desinenza della I persona singolare del presente indicativo della coniugazione oggettiva, che richiederebbe un complemento diretto. Non essendo presente, dovrebbe a rigore recare la desinenza della coniugazione soggettiva (propriamente: dúdolgatok). Ma è pur vero che, nell'ungherese parlato, le due coniugazioni verbali non vengono spesso rispettate.
[3] Il medesimo caso: anche qui il verbo rogy sta alla coniugazione oggettiva quando dovrebbe stare a quella soggettiva, essendo intransitivo (rogyok).
inviata da Riccardo Venturi - 26/8/2013 - 08:39
Lingua: Italiano
Traduzione italiana di Riccardo Venturi
26 agosto 2013
Si vedano le note alla traduzione. La canzone è assolutamente tipica e, si può dire, "naturale" nel suo contesto: un prigioniero di guerra sogna ad occhi aperti di essere libero e, soprattutto, di essere a casa con la sua famiglia, i suoi amici e le sue semplici cose di paese. La I Guerra Mondiale gettò al massacro le masse contadine europee ("e si spararono dalle trincee, contadino su contadino", dice Chiara Riondino in Sia maledetto chi ha trovato la spada). Con gli ovvi adattamenti locali, si trovano canzoni del genere in tutte le lingue europee.
26 agosto 2013
Si vedano le note alla traduzione. La canzone è assolutamente tipica e, si può dire, "naturale" nel suo contesto: un prigioniero di guerra sogna ad occhi aperti di essere libero e, soprattutto, di essere a casa con la sua famiglia, i suoi amici e le sue semplici cose di paese. La I Guerra Mondiale gettò al massacro le masse contadine europee ("e si spararono dalle trincee, contadino su contadino", dice Chiara Riondino in Sia maledetto chi ha trovato la spada). Con gli ovvi adattamenti locali, si trovano canzoni del genere in tutte le lingue europee.
LÀ SOTTO SULLA VECCHIA DOBERDÒ FISCHIA IL VENTO
Là sotto sulla vecchia Doberdò fischia il vento,
ecco che arriva il sogno, ma non dormo.
Canticchio accanto a un fuoco di sterpi,
mi affligge la vita, sono prigioniero.
La mia piccola e vecchia cascina col tetto di tegole rosse,
il mio buon vicino che conosco da tanto tempo.
Là, sulla mia tavola, sta come sempre
una bottiglia di kadarka 1 e pandolce nero 2.
Mia moglie cuce il suo vestito sul panchetto,
io le baciucchio le sue labbra cinerine.
Tengo abbracciato il mio bambino piccolo,
lui mi parla della libertà.
Cigola la finestra, mi risveglio,
da miei occhi assonnati scorre una lacrima.
Sognavo soltanto che ero libero,
mi affligge la vita, sono prigioniero.
Lento col volger degli anni mi passa il tempo,
bussano alla mia porta, sono già libero.
Parto lentamente verso casa mia,
Tanti amici già ridono accanto a me.
Arrivando davanti alla chiesa mi inginocchio,
tremando con le mie mani dico una preghiera.
Ti prego per i miei peccati,
ti prego perché tu abbia pietà di me.
Là sotto sulla vecchia Doberdò fischia il vento,
ecco che arriva il sogno, ma non dormo.
Canticchio accanto a un fuoco di sterpi,
mi affligge la vita, sono prigioniero.
La mia piccola e vecchia cascina col tetto di tegole rosse,
il mio buon vicino che conosco da tanto tempo.
Là, sulla mia tavola, sta come sempre
una bottiglia di kadarka 1 e pandolce nero 2.
Mia moglie cuce il suo vestito sul panchetto,
io le baciucchio le sue labbra cinerine.
Tengo abbracciato il mio bambino piccolo,
lui mi parla della libertà.
Cigola la finestra, mi risveglio,
da miei occhi assonnati scorre una lacrima.
Sognavo soltanto che ero libero,
mi affligge la vita, sono prigioniero.
Lento col volger degli anni mi passa il tempo,
bussano alla mia porta, sono già libero.
Parto lentamente verso casa mia,
Tanti amici già ridono accanto a me.
Arrivando davanti alla chiesa mi inginocchio,
tremando con le mie mani dico una preghiera.
Ti prego per i miei peccati,
ti prego perché tu abbia pietà di me.
Note alla traduzione
[1] Il kadarka è un vino rosso ungherese molto leggero, quel che si direbbe un “vinello”. E' bevuto anche in Bulgaria, ottenuto con il medesimo tipo di uva, ma è detto Gămza. Ha una lunga storia, ma è attualmente in declino come vino autonomo anche se è tra i costituenti di due tra i più importanti vini ungheresi, il “Sangue di Toro di Eger” (Egri Bikavér) e lo Szekszárd. Il kadarka è di origine ungherese, ma il nome sembra provenire dalla variante Skadarska, che riporta al lago di Scutari al confine tra l'Albania e il Montenegro.
[2] Diffuso in tutti i Balcani e in Russia, il kalács è un pandolce di forma rotonda simile, come consistenza, a una brioche. Il nome è russo: калач (dalla variante кoлач appare chiaro che il nome proviene da кoлo “ruota”). In Ungheria si usa mangiarlo leggermente bruciacchiato, per cui viene detto “nero”; è un tradizionale dolce pasquale.
[1] Il kadarka è un vino rosso ungherese molto leggero, quel che si direbbe un “vinello”. E' bevuto anche in Bulgaria, ottenuto con il medesimo tipo di uva, ma è detto Gămza. Ha una lunga storia, ma è attualmente in declino come vino autonomo anche se è tra i costituenti di due tra i più importanti vini ungheresi, il “Sangue di Toro di Eger” (Egri Bikavér) e lo Szekszárd. Il kadarka è di origine ungherese, ma il nome sembra provenire dalla variante Skadarska, che riporta al lago di Scutari al confine tra l'Albania e il Montenegro.
[2] Diffuso in tutti i Balcani e in Russia, il kalács è un pandolce di forma rotonda simile, come consistenza, a una brioche. Il nome è russo: калач (dalla variante кoлач appare chiaro che il nome proviene da кoлo “ruota”). In Ungheria si usa mangiarlo leggermente bruciacchiato, per cui viene detto “nero”; è un tradizionale dolce pasquale.
Lingua: Ungherese
Fenn a vén Doberdón süvölt a szél: una variante della canzone.
La seguente variante della canzone proviene dalla pagina Népdalok ("canzoni popolari") del sito Zeneszöveg.
Fenn a vén Doberdón süvölt a szél
Elkerül az álom nem alszom én
Rabtársaim mellet dúdologatok
Sújt engem az élet
Mert rab vagyok.
Fenn a magas égen göncölszekér
Álmaimban hányszor elszököm én
És a csillagok közt elindulok
Két szemem kitárom
Szabad vagyok.
Kis házunk a régi, cseréptetős
szomszédunk a régi, jó ismerős
asztalomon ott áll ahogy szokás
egy üveg bor és egy
tányér kalács.
Jó anyám is ott ül a kis padon
én a sápadt arcát simogatom
ölébe hajtom bús fejemet
ő a szabadságról
mesél nekem.
Feleségem kint ül a zsámolyon
én a rózsás arcát csókolgatom
ölében ott van kis gyermekem
ő a boldogsáról
mesél nekem.
Megzörren az ajtó, felébredek
álmos két szememből a könny pereg
álom volt csupán, hogy szabad vagyok
sújt engem az élet
mert rab vagyok.
Elkerül az álom nem alszom én
Rabtársaim mellet dúdologatok
Sújt engem az élet
Mert rab vagyok.
Fenn a magas égen göncölszekér
Álmaimban hányszor elszököm én
És a csillagok közt elindulok
Két szemem kitárom
Szabad vagyok.
Kis házunk a régi, cseréptetős
szomszédunk a régi, jó ismerős
asztalomon ott áll ahogy szokás
egy üveg bor és egy
tányér kalács.
Jó anyám is ott ül a kis padon
én a sápadt arcát simogatom
ölébe hajtom bús fejemet
ő a szabadságról
mesél nekem.
Feleségem kint ül a zsámolyon
én a rózsás arcát csókolgatom
ölében ott van kis gyermekem
ő a boldogsáról
mesél nekem.
Megzörren az ajtó, felébredek
álmos két szememből a könny pereg
álom volt csupán, hogy szabad vagyok
sújt engem az élet
mert rab vagyok.
inviata da Riccardo Venturi - 26/8/2013 - 12:24
Lingua: Italiano
Traduzione italiana della precedente versione
di Riccardo Venturi, 26 agosto 2013
di Riccardo Venturi, 26 agosto 2013
LÀ SULLA VECCHIA DOBERDÒ SIBILA IL VENTO
Là sulla vecchia Doberdò sibila il vento,
ecco che arriva il sogno ma non dormo.
Canticchio accanto ai miei compagni di prigionia,
mi affligge la vita
perché sono prigioniero.
Lassù nell'alto cielo l'Orsa Maggiore,
nei miei sogni quante volte io scappo
e vado via tra le stelle.
Spalanco gli occhi:
sono libero.
La nostra vecchia casetta col tetto dalle tegole rosse,
il nostro vicino che conosco da tanto tempo,
là sulla mia tavola sta come sempre
una bottiglia di vino
e un piatto di pandolce.
La mia buona madre siede là sul panchetto
mentre le accarezzo il viso pallido,
in grembo le metto la mia testa malinconica
e lei mi parla
della libertà.
Mia moglie siede là fuori sul seggiolino
e io le bacio il viso color di rosa,
nel suo grembo sta il mio bambino piccolo
e lei mi parla
della felicità.
Cigola la porta, mi risveglio,
dai miei occhi assonnati scorre una lacrima
sognavo soltanto che ero libero,
mi affligge la vita
perché sono prigioniero.
Là sulla vecchia Doberdò sibila il vento,
ecco che arriva il sogno ma non dormo.
Canticchio accanto ai miei compagni di prigionia,
mi affligge la vita
perché sono prigioniero.
Lassù nell'alto cielo l'Orsa Maggiore,
nei miei sogni quante volte io scappo
e vado via tra le stelle.
Spalanco gli occhi:
sono libero.
La nostra vecchia casetta col tetto dalle tegole rosse,
il nostro vicino che conosco da tanto tempo,
là sulla mia tavola sta come sempre
una bottiglia di vino
e un piatto di pandolce.
La mia buona madre siede là sul panchetto
mentre le accarezzo il viso pallido,
in grembo le metto la mia testa malinconica
e lei mi parla
della libertà.
Mia moglie siede là fuori sul seggiolino
e io le bacio il viso color di rosa,
nel suo grembo sta il mio bambino piccolo
e lei mi parla
della felicità.
Cigola la porta, mi risveglio,
dai miei occhi assonnati scorre una lacrima
sognavo soltanto che ero libero,
mi affligge la vita
perché sono prigioniero.
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Magyar katonai népdal
Canzone popolare ungherese di guerra
Hungarian war folksong
Dall'importante blog A Nagy Háború írásban és képben (La Grande Guerra in documenti e immagini), una canzone popolare sulla battaglia di Doberdò che si unisce in un unico complesso sia a Fuoco e mitragliatrici e Valzer dei disertori che a Kimegyek a doberdói harctérre (e anche, senz'altro, a O Gorizia, tu sei maledetta). La canzone proviene dai commenti all'articolo Két dal a Doberdóról (Due canzoni su Doberdò) di Natasa Gajdarova; è stata inviata dall'utente "Charly Gordon" il 30 gennaio 2011, il quale afferma di averla imparata negli anni '50 mentre faceva il servizio militare. Si riporta qua sotto l'intero articolo di Natasa Gajdarova, in lingua ungherese. Il testo della canzone come riportato sul blog contiene diverse improprietà, che sono state corrette con alcune note al testo. [RV]
2010.11.25. Natasa Gajdarova
Van a magyarok kollektív emlékezetében néhány olyan dal, amit ha nem is mindenki, de elég sokan ismernek. Velük nőttünk fel, hallottuk a családban, megtanultuk az iskolában vagy a tábortűz mellett, vagy jobb híján a tévéből, rádióból. Ilyen az első világháborúból megmaradt Doberdó-dalunk is. Jómagam már sajnos nem emlékszem, hogy vajon ének- vagy történelemórán találkoztam vele először, de ez nem is lényeges. Ami fontos, hogy rám már akkor is nagy hatást gyakorolt. Otthon elővettem a régi családi fényképeket, és az ükapámat ábrázoló, egyetlen megmaradt első világháborús fotóról faggatni kezdtem nagyanyámat. Azt hiszem valamikor itt kezdődött érdeklődésem és érzelmi kötődésem a Nagy Háború korszakához, ami az óta is tart.
Sok évvel később aztán találkoztam egy olasz dallal, aminek először bánatos, keringőszerű dallama ragadott meg. Szövegéből már elsőre is értettem annyit, hogy a Doberdóról szól. Megkerestem hát a dal szövegét és amit tudni lehet róla, s valóban: egy első világháborús olasz népdalra bukkantam.
Mivel a Fuoco e mitragliatrici e Valzer dei disertori című dalt valószínűleg kevesebben ismerik nálunk, néhány mondatot fűznék hozzá, mielőtt meghallgatjuk. Pár hete írtam egy bejegyzést az O Gorizia, tu sei maledetta című olasz dalról, amiben utaltam arra, hogy Olaszországban a háborúellenes dalok sokáig tabunak számítottak. Csak a hatvanas évektől kezdték újrafelfedezni, összegyűjteni ezeket a népdalokat, a nyilvános előadásuk azonban kezdetben sokak nemtetszését váltotta ki.
A Fuoco e mitragliatrici hasonló hangvételű dal, bár nem üt meg olyan éles hangnemet, mint a Goriziáról szóló. A keletkezésével kapcsolatos információk összegyűjtésekor csupán internetes forrásokra tudtam támaszkodni. A dallam az 1913-ban írt Sona, Chitarra című nápolyi dalhoz köthető, amelynek zenéjét Ernesto de Curtis, szövegét pedig Libero Bovio írta. A műdalból lett népdal háborúra aktualizált szövege valószínűleg 1915 decembere és 1916 márciusa között született, amire a dalban a „trincea di raggi” (más változatban „trincea dei razzi” – a „világítórakéták lövészárka”), azaz a San Martino del Carso alatt létezett, és a Sassari gyalogezred által szuronyrohammal elfoglalt lövészárokból, valamint a Monte Nero és a Monte Cappuccio említéséből lehet következtetni. A dalban megemlékezett rohamra 1915. december 16-án került sor, és bár az olaszok győzelmével végződött, az alakulat kétharmada odaveszett. A Monte Nero (Krn, ma Szlovénia) szintén egy nagy áldozatokat követelő sikeres olasz támadás helyszíne, a Monte Cappuccio (más néven Bosco Cappuccio) pedig a Monte San Michele alján húzódó erdős terület neve volt.
Az olasz dal tehát minden bizonnyal a front olyan szakaszán keletkezett, ahol az ellenséges oldalon legtöbbször épp magyar katonák álltak. Úgy tudom, a Kimegyek a doberdói harctérre is a háború idején keletkezett, s ha így van, különös érzés úgy hallgatni ezt a két dalt, hogy a Doberdón talán egy időben is énekelhették az egymással farkasszemet néző árkokban.
Mindkét dalnak létezik többféle változata is, én most a számomra legkedvesebb előadásokat választottam: a magyar dalt Széles András, méltó párját, a Fuoco e mitragliatricit pedig Sandra Mantovani énekli. Ez utóbbi szövegének ismét csak nyersfordítását közlöm, és ha valakit megihlet, bátran kommenteljen be egy szebb változatot.