Probabilmente uscì chiudendo dietro a sé la porta verde.
Qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè d'orzo.
Non so se si girò, non era il tipo d'uomo che si perde
in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo.
Quand'io l'ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio,
o così a me sembrava, ma allora non andavo ancora a scuola;
colpiva il cranio raso e un misterioso e strano suo apparecchio:
un cinto d'ernia che sembrava una fondina per la pistola,
Ma quel mattino aveva il viso dei vent'anni, senza rughe
e rabbia ed avventura, e ancora vaghe idee di socialismo.
Parole dure al padre e dietro tradizione di fame e fughe
e per il suo lavoro, quello che schianta e uccide: il fatalismo.
Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo per casa e madre
e per scacciarlo aveva in corpo il primo vino di una cantina,
e già sentiva in faccia l'odore d'olio e mare che fa Le Havre
e già sentiva in bocca l'odore della polvere della mina.
L'America era allora, per me i G.I. di Roosevelt, la quinta armata,
l'America era Atlantide, l'America era il cuore, era il destino;
l'America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata;
l'America era il mondo sognante e misterioso di Paperino;
L'America era allora per me provincia dolce, mondo di pace,
perduto un paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta,
e Gunga-Din e Ringo, gli eroi di Casablanca e di Fort Apache,
un sogno lungo il suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra.
Non so come la vide quando la nave offrì New York vicino:
dei grattacieli il bosco, città di feci e strade, urla, castello!
E Pàvana un ricordo lasciata tra i castagni dell'Appennino,
l'inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello
E fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale mattino e sera,
per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri,
di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani, nella miniera
sudore d'antracite, in Pennsylvania, Arkansas, Tex, Missouri.
Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita.
L'America era un angolo, l'America era un'ombra, nebbia sottile;
l'America era un'ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita,
e dire boss per "capo", e ton per "tonnellata", raif per "fucile".
Quand'io l'ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio;
sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo,
e non capivo che quell'uomo era il mio volto, era il mio specchio,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
Finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
Qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè d'orzo.
Non so se si girò, non era il tipo d'uomo che si perde
in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo.
Quand'io l'ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio,
o così a me sembrava, ma allora non andavo ancora a scuola;
colpiva il cranio raso e un misterioso e strano suo apparecchio:
un cinto d'ernia che sembrava una fondina per la pistola,
Ma quel mattino aveva il viso dei vent'anni, senza rughe
e rabbia ed avventura, e ancora vaghe idee di socialismo.
Parole dure al padre e dietro tradizione di fame e fughe
e per il suo lavoro, quello che schianta e uccide: il fatalismo.
Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo per casa e madre
e per scacciarlo aveva in corpo il primo vino di una cantina,
e già sentiva in faccia l'odore d'olio e mare che fa Le Havre
e già sentiva in bocca l'odore della polvere della mina.
L'America era allora, per me i G.I. di Roosevelt, la quinta armata,
l'America era Atlantide, l'America era il cuore, era il destino;
l'America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata;
l'America era il mondo sognante e misterioso di Paperino;
L'America era allora per me provincia dolce, mondo di pace,
perduto un paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta,
e Gunga-Din e Ringo, gli eroi di Casablanca e di Fort Apache,
un sogno lungo il suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra.
Non so come la vide quando la nave offrì New York vicino:
dei grattacieli il bosco, città di feci e strade, urla, castello!
E Pàvana un ricordo lasciata tra i castagni dell'Appennino,
l'inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello
E fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale mattino e sera,
per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri,
di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani, nella miniera
sudore d'antracite, in Pennsylvania, Arkansas, Tex, Missouri.
Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita.
L'America era un angolo, l'America era un'ombra, nebbia sottile;
l'America era un'ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita,
e dire boss per "capo", e ton per "tonnellata", raif per "fucile".
Quand'io l'ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio;
sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo,
e non capivo che quell'uomo era il mio volto, era il mio specchio,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
Finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
inviata da daniela -k.d.- e Riccardo Venturi - 31/1/2009 - 22:19
Lingua: Inglese
English version by Riccardo Venturi
January 31/February 1, 2009
January 31/February 1, 2009
AMERIGO
He probably got out and the green door shut behind his back.
Someone had risen up to make him in a hurry a barley coffee.
I don't know if he turned back, he wasn't the kind of man to get lost
in homesickness, as a rich, and he went his way with no toil.
When I got to know him, or my memories begin, he was an old man,
or so he looked to me, but I didn't go to school yet at that time;
I was struck by his bald head, and by a mysterious, strange gadget:
a hernia belt that looked like a pistol holster
But that morning he had a twenty years old boy's fresh face
and rage and adventure, and still vague ideas of socialism.
Hard words to his father, hunger and escape in his background,
his feelings for work were dismaying, appalling: fatalism.
But that morning he had a new feeling for his home and mother,
and to get rid of it, he drank his first strong wine from a cellar.
He was already feeling Le Havre's oil and seawater smell,
He was already feeling in his mouth the taste of minepowder.
America, then, was for me Roosevelt's G.I. men, the fifth army,
America was Atlantis, America was the heart, was destiny;
America was Life, smiles and white teeth on art paper,
America was the dreaming and mysterious world of Donald Duck;
America, then, was for me a sweet land, a harbor of peace,
Paradise lost, subtle melancholy, slow neurosis
and Gunga-Din and Ringo, the heroes of Casablanca and Fort Apache
as I went dreaming along Limentra with its obsessive stream noise.
I don't know the way he looked, when New York came to his eyesight:
a forest of skyscrapers, city of shit and streets, cries, a castle!
Pàvana, a memory of his own lost among the chestnut trees on the Appennines,
English sounded strange to his ears and hurt his heart like a dagger.
And then, hard work and blood, the same toil all the day long,
Years and years like in jail, beer, whores, harsh days,
Negroes, Irishmen, Poles, Italians in the same pit,
the same coal sweat in Pennsylvania, Arkansaw, Texas, Missouri.
He came back like many do, a sum and his youth already over.
America was a corner, America was a shadow, thin fog;
America was hernia, just a trick like many that life plays,
and saying boss for capo, and ton for tonnellata, rifle for fucile.
When I got to know him, or my memories begin, he was an old man;
Scornful, like any boy, I slipped beside him, couldn't catch him.
I couldn't understand yet, that man was my own face, my own mirror,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face.
He probably got out and the green door shut behind his back.
Someone had risen up to make him in a hurry a barley coffee.
I don't know if he turned back, he wasn't the kind of man to get lost
in homesickness, as a rich, and he went his way with no toil.
When I got to know him, or my memories begin, he was an old man,
or so he looked to me, but I didn't go to school yet at that time;
I was struck by his bald head, and by a mysterious, strange gadget:
a hernia belt that looked like a pistol holster
But that morning he had a twenty years old boy's fresh face
and rage and adventure, and still vague ideas of socialism.
Hard words to his father, hunger and escape in his background,
his feelings for work were dismaying, appalling: fatalism.
But that morning he had a new feeling for his home and mother,
and to get rid of it, he drank his first strong wine from a cellar.
He was already feeling Le Havre's oil and seawater smell,
He was already feeling in his mouth the taste of minepowder.
America, then, was for me Roosevelt's G.I. men, the fifth army,
America was Atlantis, America was the heart, was destiny;
America was Life, smiles and white teeth on art paper,
America was the dreaming and mysterious world of Donald Duck;
America, then, was for me a sweet land, a harbor of peace,
Paradise lost, subtle melancholy, slow neurosis
and Gunga-Din and Ringo, the heroes of Casablanca and Fort Apache
as I went dreaming along Limentra with its obsessive stream noise.
I don't know the way he looked, when New York came to his eyesight:
a forest of skyscrapers, city of shit and streets, cries, a castle!
Pàvana, a memory of his own lost among the chestnut trees on the Appennines,
English sounded strange to his ears and hurt his heart like a dagger.
And then, hard work and blood, the same toil all the day long,
Years and years like in jail, beer, whores, harsh days,
Negroes, Irishmen, Poles, Italians in the same pit,
the same coal sweat in Pennsylvania, Arkansaw, Texas, Missouri.
He came back like many do, a sum and his youth already over.
America was a corner, America was a shadow, thin fog;
America was hernia, just a trick like many that life plays,
and saying boss for capo, and ton for tonnellata, rifle for fucile.
When I got to know him, or my memories begin, he was an old man;
Scornful, like any boy, I slipped beside him, couldn't catch him.
I couldn't understand yet, that man was my own face, my own mirror,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face,
Until the time will come that I meet him again in anyone's face.
Lingua: Francese
Version française – Amerigo – Marco Valdo M.I. – 2009
Chanson italienne – Amerigo – Francesco Guccini – 1978
Chanson italienne – Amerigo – Francesco Guccini – 1978
Cette chanson fait partie de ces chansons odieusement oubliées de Canzoni contro la Guerra.
Nous y remédions avec un retard abyssal.
Il y a peu à dire sur la chanson, tellement elle est connue... [pour les Italiens... dit Marco Valdo M.I.]
...
Disons seulement que le Sieur Amerigo Guccini, de Pàvana (PT – province de Pistoia ) était vraiment un parent de Guccini et que la chanson raconte son histoire, vraie, celle de milliers d' Amerigos (d'Americani, d'Américains...) de chaque village. Curieusement Amerigo avait le nom de l'Amérique [ou plutôt l'inverse, c'est l'Amérique qui portait son nom; MVMI], mais il n'était pas Amerigo Vespucci et il n'allait rien explorer. Il allait travailler à la mine, parmi « des nègres, des Irlandais... ». Une chanson qui est une histoire, une histoire que Guccini a racontée aussi dans ses Croniche Epafaniche*, une chanson qu'il est toujours bien de reproposer, spécialement en pensant à combien de Pàvana sont abandonnées à présent dans qui sait quelles montagnes africaines ou asiatiques, combien de Limentra chantent aux souvenirs leurs sons continus et obsédants [CCG/AWS Staff]
*"Croniche Epafaniche" est le premier livre que Francesco Guccini a publié il y a une vingtaine d'années. Il s'agit de la première partie des "memoires de sa jeunesse" où il raconte le petit monde du village de ses aïeux, Pàvana, où il a vécu toute son enfance bien qu'il soit né à Modène. "Epafaniche" signifie "de Pàvana"; c'est un curieux gentilé latinisant que Guccini a inventé sur le modèle de "Charleville-Mézières --> Carolomacériens", ou "Ivrea --> Eporediensi" ou machin truc, et que l'on pourrait traduire comme "Chroniques Épaphaniennes". Francesco Guccini est aussi l'auteur d'un excellent dictionnaire du dialecte de Pàvana, publié en 1998 après un travail de dix ans. [RV]
Nous y remédions avec un retard abyssal.
Il y a peu à dire sur la chanson, tellement elle est connue... [pour les Italiens... dit Marco Valdo M.I.]
...
Disons seulement que le Sieur Amerigo Guccini, de Pàvana (PT – province de Pistoia ) était vraiment un parent de Guccini et que la chanson raconte son histoire, vraie, celle de milliers d' Amerigos (d'Americani, d'Américains...) de chaque village. Curieusement Amerigo avait le nom de l'Amérique [ou plutôt l'inverse, c'est l'Amérique qui portait son nom; MVMI], mais il n'était pas Amerigo Vespucci et il n'allait rien explorer. Il allait travailler à la mine, parmi « des nègres, des Irlandais... ». Une chanson qui est une histoire, une histoire que Guccini a racontée aussi dans ses Croniche Epafaniche*, une chanson qu'il est toujours bien de reproposer, spécialement en pensant à combien de Pàvana sont abandonnées à présent dans qui sait quelles montagnes africaines ou asiatiques, combien de Limentra chantent aux souvenirs leurs sons continus et obsédants [CCG/AWS Staff]
*"Croniche Epafaniche" est le premier livre que Francesco Guccini a publié il y a une vingtaine d'années. Il s'agit de la première partie des "memoires de sa jeunesse" où il raconte le petit monde du village de ses aïeux, Pàvana, où il a vécu toute son enfance bien qu'il soit né à Modène. "Epafaniche" signifie "de Pàvana"; c'est un curieux gentilé latinisant que Guccini a inventé sur le modèle de "Charleville-Mézières --> Carolomacériens", ou "Ivrea --> Eporediensi" ou machin truc, et que l'on pourrait traduire comme "Chroniques Épaphaniennes". Francesco Guccini est aussi l'auteur d'un excellent dictionnaire du dialecte de Pàvana, publié en 1998 après un travail de dix ans. [RV]
AMERIGO
Il sortit sans doute en fermant la porte verte derrière lui
Quelqu'un s'était levé pour lui préparer en vitesse un café d'orge
Je ne sais s'il se retourna, ce n'était pas le genre d'homme qui se perd
En nostalgie de riches et il poursuivit son chemin sans peine.
Quand je l'ai connu, ou que je me le rappelle, il était déjà vieux,
Ou à ce qu'il me semblait, mais alors je n'allais pas encore à l'école;
Il portait son crâne rasé et un étrange et mystérieux appareil
Une ceinture herniaire qui ressemblait à une ceinturon pour pistolets.
Mais ce matin-là, il avait le visage de ses vingt ans, sans rides
De la rage et de l'aventure et encore de vagues idées de socialisme.
Des mots durs pour son père et contre les traditions de faim et de vide
Et contre son travail, celui qui brise et tue : son fatalisme.
Mais ce matin-là, il avait ce sentiment nouveau pour la maison et sa mère
Et pour la chasser, il avait mit dans son corps le premier vin d'une cantine
Et il sentait déjà dans son visage l'odeur du Havre, une senteur d'huile et de mer
Et déjà il sentait dans sa bouche le parfum de la poussière de la mine.
L'Amérique était alors, pour moi, les GI de Roosevelt, la cinquième armée
L'Amérique, c'était l'Atlantide, l'Amérique était le cœur, c'était le destin;
L'Amérique, c'était Life, des sourires et des dents blanches sur papier glacé;
L'Amérique, c'était le monde de rêve et de mystère de Rintintin.
L'Amérique, c'était alors, pour moi, une province douce, un monde de paix,
Un paradis perdu, une mélancolie subtile, une lente névrose,
Et Gunga Din et Ringo, les héros de Casablanca et de Fort Apache,
Un long rêve, le son continu et obsédant que fait la Limentra.
Je ne sais comment il vit New-York quand le navire lui offrit un matin:
Le bois des gratte-ciel, la ville de la merde et des rues, des hurlements, château !
Et Pàvana, un souvenir abandonné parmi les châtaigniers de l'Appennin
L'anglais, un son étrange qui le blessait au cœur comme un couteau.
Puis, ce fut travail et sang, et ce fut une peine égale du soir au matin
Pendant des années prison, bière, putains et jours à la suite,
Dans la mine, avec des nègres, des Irlandais, des Polonais et des Italiens,
En Pennsylvanie, Arkansas, Tex, Missouri : sueur d'anthracite.
Il revînt comme beaucoup avec deux sous et sa jeunesse enfuie désormais.
L'Amérique était un coin, l'Amérique était une ombre, une brume qui se défait.
L'Amérique était une hernie, un jeu parmi ceux que nous joue la vie,
Et dire boss pour chef, et ton pour tonne et raïf pour fusil.
Quand je l'ai connu, ou que je me le rappelle, il était déjà âgé;
Méprisant comme les jeunes, je le poussais de côté sans le regarder.
Et je ne comprenais pas que cet homme était mon miroir, était mon visage,
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Il sortit sans doute en fermant la porte verte derrière lui
Quelqu'un s'était levé pour lui préparer en vitesse un café d'orge
Je ne sais s'il se retourna, ce n'était pas le genre d'homme qui se perd
En nostalgie de riches et il poursuivit son chemin sans peine.
Quand je l'ai connu, ou que je me le rappelle, il était déjà vieux,
Ou à ce qu'il me semblait, mais alors je n'allais pas encore à l'école;
Il portait son crâne rasé et un étrange et mystérieux appareil
Une ceinture herniaire qui ressemblait à une ceinturon pour pistolets.
Mais ce matin-là, il avait le visage de ses vingt ans, sans rides
De la rage et de l'aventure et encore de vagues idées de socialisme.
Des mots durs pour son père et contre les traditions de faim et de vide
Et contre son travail, celui qui brise et tue : son fatalisme.
Mais ce matin-là, il avait ce sentiment nouveau pour la maison et sa mère
Et pour la chasser, il avait mit dans son corps le premier vin d'une cantine
Et il sentait déjà dans son visage l'odeur du Havre, une senteur d'huile et de mer
Et déjà il sentait dans sa bouche le parfum de la poussière de la mine.
L'Amérique était alors, pour moi, les GI de Roosevelt, la cinquième armée
L'Amérique, c'était l'Atlantide, l'Amérique était le cœur, c'était le destin;
L'Amérique, c'était Life, des sourires et des dents blanches sur papier glacé;
L'Amérique, c'était le monde de rêve et de mystère de Rintintin.
L'Amérique, c'était alors, pour moi, une province douce, un monde de paix,
Un paradis perdu, une mélancolie subtile, une lente névrose,
Et Gunga Din et Ringo, les héros de Casablanca et de Fort Apache,
Un long rêve, le son continu et obsédant que fait la Limentra.
Je ne sais comment il vit New-York quand le navire lui offrit un matin:
Le bois des gratte-ciel, la ville de la merde et des rues, des hurlements, château !
Et Pàvana, un souvenir abandonné parmi les châtaigniers de l'Appennin
L'anglais, un son étrange qui le blessait au cœur comme un couteau.
Puis, ce fut travail et sang, et ce fut une peine égale du soir au matin
Pendant des années prison, bière, putains et jours à la suite,
Dans la mine, avec des nègres, des Irlandais, des Polonais et des Italiens,
En Pennsylvanie, Arkansas, Tex, Missouri : sueur d'anthracite.
Il revînt comme beaucoup avec deux sous et sa jeunesse enfuie désormais.
L'Amérique était un coin, l'Amérique était une ombre, une brume qui se défait.
L'Amérique était une hernie, un jeu parmi ceux que nous joue la vie,
Et dire boss pour chef, et ton pour tonne et raïf pour fusil.
Quand je l'ai connu, ou que je me le rappelle, il était déjà âgé;
Méprisant comme les jeunes, je le poussais de côté sans le regarder.
Et je ne comprenais pas que cet homme était mon miroir, était mon visage,
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
Jusqu'à ce que dans le visage de tout le monde, je rencontre son visage.
inviata da Marco Valdo M.I. - 2/2/2009 - 17:53
Lingua: Spagnolo
Versione spagnola di José Antonio
tratta dal sito di Giuseppe Cirigliano
Esta canción está dedicada a Enrico di Francesco Guccini, familiarmente llamado Nerico o Merigo. Nació en Pàvana el 6 de Diciembre de 1887 y murió en 1963.
Merigo era tío abuelo de Guccini (hermano menor de su abuelo paterno, Pedro).
El título de esta canción es un juego de palabras: Merigo emigró a Norteamérica para trabajar como minero; Guccini antepone la letra "A" a Merigo, "A-merigo", recordando a Amerigo (Americo) Vespucci.
Merigo emigró hacia el año 1911, como muchos otros de su pueblo, porque no había trabajo y además, porque no se llevaba demasiado bien con su padre, Checcone. Regresó a Pàvana hacia 1938.
A Guccini, siempre le había fascinado la idea de componer una canción sobre su tío abuelo, en la que pudiese confrontar dos Américas ; por un lado, la América soñada por Guccini en su infancia y primera juventud, hecha de películas ( Gunga-Din, Fort Apache, Casablanca, la diligencia...), chicles, chocolatinas, revistas ilustradas, comics, música rock, vaqueros, etc, y por otro lado, la América, real y dura, vivida por Merigo en las minas de Pensilvania o Arkansas.
tratta dal sito di Giuseppe Cirigliano
Esta canción está dedicada a Enrico di Francesco Guccini, familiarmente llamado Nerico o Merigo. Nació en Pàvana el 6 de Diciembre de 1887 y murió en 1963.
Merigo era tío abuelo de Guccini (hermano menor de su abuelo paterno, Pedro).
El título de esta canción es un juego de palabras: Merigo emigró a Norteamérica para trabajar como minero; Guccini antepone la letra "A" a Merigo, "A-merigo", recordando a Amerigo (Americo) Vespucci.
Merigo emigró hacia el año 1911, como muchos otros de su pueblo, porque no había trabajo y además, porque no se llevaba demasiado bien con su padre, Checcone. Regresó a Pàvana hacia 1938.
A Guccini, siempre le había fascinado la idea de componer una canción sobre su tío abuelo, en la que pudiese confrontar dos Américas ; por un lado, la América soñada por Guccini en su infancia y primera juventud, hecha de películas ( Gunga-Din, Fort Apache, Casablanca, la diligencia...), chicles, chocolatinas, revistas ilustradas, comics, música rock, vaqueros, etc, y por otro lado, la América, real y dura, vivida por Merigo en las minas de Pensilvania o Arkansas.
AMERIGO
Probablemente salió, cerrando tras de sí la puerta verde;
alguien se había levantado a prepararle deprisa, un café de cebada.
No sé si se volvió, no era la clase de hombre que se pierde
en nostalgias de ricos, y se alejó por su camino sin esfuerzo.
Cuando lo conocí, o inicio a recordarlo, ya era viejo,
o así me parecía a mí, que ni siquiera aún tenía edad para ir a la escuela;
Llamaba la atención su cabeza rapada (2) y un aparato misterioso y extraño:
un braguero (3) que parecía una funda para la pistola,
pero aquella mañana tenía el rostro de los veinte años, sin una arruga,
y rabia y aventura, y aún vagas ideas de socialismo (4).
Atrás dejó los duros enfrentamientos con el padre y una tradición de hambre y fugas,
y un fatalismo hacia el trabajo que lo exasperaba hasta la muerte.
Pero aquella mañana tenía un sentimiento nuevo hacia su casa y su madre
y para ahuyentarlo se metió en el cuerpo el primer vino de una bodega,
y ya sentía en su cara el olor de aceite y mar que se respira en Le Havre, (5)
y ya sentía en su boca el olor del polvo de la mina.
Para mí, por aquel entonces, América era los G.I. de Roosevelt (6), la Quinta armada (7).
América era la Atlántida, América era el corazón, era el destino;
América era "Life", sonrisas y dientes blancos en papel patinado (8);
América era el mundo soñado y misterioso del Pato Donald (9);
América era entonces, para mí, provincia dulce,
mundo de paz, paraíso perdido, sutil melancolía, neurosis lenta,
y Gunga-Din (10) y Ringo (11), los héroes de Casablanca (12) y de Fort Apache (13),
un sueño largo como el sonido continuo y obsesivo del Limentra (14).
No sé que le parecería Nueva York cuando la vio desde el barco que se aproximaba:
bosque de rascacielos, ciudad de excrementos, estrepitosas calles
y Castello (15) y Pàvana, un recuerdo, dejado entre los castaños del Apenino,
el inglés un sonido extraño que lo hería en el corazón como un cuchillo,
y fue trabajo y sangre, y fue fatiga igual mañana y noche,
de negros e irlandeses, polacos e italianos, en la mina
sudor de antracita, en Pensilvania, Arkansas, "Tex", Missouri.
Volvió como muchos, con cuatro duros y la juventud consumida.
América era una esquina, América era una sombra, niebla sutil;
América era una hernia, una broma más de las tantas que nos gasta la vida,
y decir boss por jefe, ton por tonelada, raif por fusil.
Cuando lo conocí, o inicio a recordarlo, ya era viejo;
despreciativo con los jóvenes (16), yo no lo comprendía pese a su cercanía,
y no comprendía que aquel hombre era mi rostro (17), era mi espejo,
hasta que no llegue un tiempo en el que todos nos veamos
frente a frente y lo vuelva a encontrar (18).
Probablemente salió, cerrando tras de sí la puerta verde;
alguien se había levantado a prepararle deprisa, un café de cebada.
No sé si se volvió, no era la clase de hombre que se pierde
en nostalgias de ricos, y se alejó por su camino sin esfuerzo.
Cuando lo conocí, o inicio a recordarlo, ya era viejo,
o así me parecía a mí, que ni siquiera aún tenía edad para ir a la escuela;
Llamaba la atención su cabeza rapada (2) y un aparato misterioso y extraño:
un braguero (3) que parecía una funda para la pistola,
pero aquella mañana tenía el rostro de los veinte años, sin una arruga,
y rabia y aventura, y aún vagas ideas de socialismo (4).
Atrás dejó los duros enfrentamientos con el padre y una tradición de hambre y fugas,
y un fatalismo hacia el trabajo que lo exasperaba hasta la muerte.
Pero aquella mañana tenía un sentimiento nuevo hacia su casa y su madre
y para ahuyentarlo se metió en el cuerpo el primer vino de una bodega,
y ya sentía en su cara el olor de aceite y mar que se respira en Le Havre, (5)
y ya sentía en su boca el olor del polvo de la mina.
Para mí, por aquel entonces, América era los G.I. de Roosevelt (6), la Quinta armada (7).
América era la Atlántida, América era el corazón, era el destino;
América era "Life", sonrisas y dientes blancos en papel patinado (8);
América era el mundo soñado y misterioso del Pato Donald (9);
América era entonces, para mí, provincia dulce,
mundo de paz, paraíso perdido, sutil melancolía, neurosis lenta,
y Gunga-Din (10) y Ringo (11), los héroes de Casablanca (12) y de Fort Apache (13),
un sueño largo como el sonido continuo y obsesivo del Limentra (14).
No sé que le parecería Nueva York cuando la vio desde el barco que se aproximaba:
bosque de rascacielos, ciudad de excrementos, estrepitosas calles
y Castello (15) y Pàvana, un recuerdo, dejado entre los castaños del Apenino,
el inglés un sonido extraño que lo hería en el corazón como un cuchillo,
y fue trabajo y sangre, y fue fatiga igual mañana y noche,
de negros e irlandeses, polacos e italianos, en la mina
sudor de antracita, en Pensilvania, Arkansas, "Tex", Missouri.
Volvió como muchos, con cuatro duros y la juventud consumida.
América era una esquina, América era una sombra, niebla sutil;
América era una hernia, una broma más de las tantas que nos gasta la vida,
y decir boss por jefe, ton por tonelada, raif por fusil.
Cuando lo conocí, o inicio a recordarlo, ya era viejo;
despreciativo con los jóvenes (16), yo no lo comprendía pese a su cercanía,
y no comprendía que aquel hombre era mi rostro (17), era mi espejo,
hasta que no llegue un tiempo en el que todos nos veamos
frente a frente y lo vuelva a encontrar (18).
(1) Merigo se afeitaba la cabeza completamente, a lo "Yur Brinner". Esta costumbre la habría adquirido en la mina donde con frecuencia, los mineros se afeitan la cabeza para evitar la molestia del polvo del carbón en el pelo.
(2) En la imaginación del niño "Guccini", el braguero que llevaba su tío abuelo para reducir una hernia inguinal, se convertía en la funda de una pistola de algún vaquero de película.
(3) Enrico frecuentaba a Savigni Elivio, alias Livio, un zapatero, y Savigni Amedeo, que tenía una tienda. Se limitaban a jugar a las cartas, beber vino e intercambiarse "vagas ideas de socialismo". Esto bastaba para hacer de ellos y de otros pavaneses, peligrosos subversivos.
Refiere Guccini que en los últimos años de la vida de Merigo, cuando comenzó a tratarlo más profundamente, no se interesaba ya por la política y sus vagas ideas de socialismo se habían transformado en vagas ideas democristianas... "después de la guerra, o eras comunista o eras democristiano. Él, quién sabe porqué, escogió la segunda vía" .
(4) Le Havre, puerto de la costa atlántica de Francia, desde donde embarcó Merigo rumbo a Nueva York. El viaje duraba aproximadamente 30 días.
(5) GI Bill: En Junio de 1944, el 32° presidente americano, Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), firmó el acta, Servicemen´s Readjustmente Act, también conocida como Montgomery GI Bill-Active Duty (MGIB), que establecía una serie de medidas especiales para facilitar la transición de los veteranos de la Segunda Guerra Mundial a la vida civil. Estas medidas comprendieron básicamente, préstamos a muy bajo interés para la adquisición de una vivienda, asesoramiento en la búsqueda de empleo, subsidio de 20 dólares semanales durante un año y, becas de estudio.
(6) La Quinta Armada Americana (Fifth Army) desembarcó, bajo la dirección de teniente General Mark W. Clark, en las playas cercanas a Salerno, el 9 de Septiembre de 1943. Junto con la Octava Armada de la Commonwealth, que había desembarcado en Reggio Calabria el 3 de Septiembre de 1943, fueron de capital importancia para vencer a las fuerzas de ocupación nazi en Italia.
(7) "Life", revista americana que se publicó en forma de semanario entre 1936 y 1972; en las portadas de la revista, era frecuente ver rostros sonrientes con dentaduras perfectas.
(8) Pato Donald, personaje de ficción de la productora de Walt Disney, que apareció por primera vez en el año 1934 en el corto animado "The Wise Little Hen"(La Gallinita Sabia). En 1938 el Pato Donald empieza a salir en los periódicos como una tira en blanco y negro y, a partir de 1942, de la mano sobre todo de Carl Barks, tendrá una serie regular de historietas. Refiere Guccini que uno de sus mitos es el Pato Donald de Barks "tengo todo Barks, tanto en inglés como en italiano". Añade Francesco "Barks es un autor infravalorado ... habría que leerlo en inglés... su lenguaje es maravilloso..."
El Pato Donald de Barks es un personaje romántico y misterioso, que con frecuencia vive sus aventuras en enclaves míticos como El Dorado o la Atlántida.
(9) Gunga-Din, película dirigida en 1939 por George Stevens, ambientada en la India, cuando ésta era una colonia del imperio británico y basada en un poema de Rudyard Kipling.
(10) Ringo Kid es el actor John Wayne en la película de 1939 "La diligencia" (the stagecoach), dirigida por John Ford. Es en esta película precisamente donde comienza la carrera estelar de John Wayne, interpretando a un pistolero obsesionado con la idea de la venganza y redimido en el último momento por una exprostituta. Refiere Guccini que " en esta película está todo el género del western: el predicador, el borracho, la prostituta y los indios, ¡ no olvidemos a los pobres indios !".
(11) Casablanca, película americana de 1943, dirigida por Michael Curtiz y protagonizada por Humphrey Bogart, Ingrid Bergman y Paul Henreid.
(12) Fort Apache, película dirigida en 1948 por John Ford, en la que se describe la vida en un fuerte de la Caballería Americana, constantemente hostigado por los Apaches.
(13) Torrente próximo a Pàvana, afluente del río Reno
(14) Probablemente se refiere a Castello de Sambuca, localidad próxima a Pàvana.
(15) Decía un Amerigo anciano "pòra gioventù" ( ¡Pobre juventud! ), cuando con 70 años, él podía aún levantar un saco de un quintal, mientras que Guccini, mucho más joven, era incapaz.
(16) Las esperanzas que albergaba Merigo al partir hacia América, no se vieron colmadas y, al cabo de los años y de mucho trabajo, regresó a Italia "con cuatro duros y la juventud consumida". Este ciclo de esperanza-desilusión, es el mismo que ,años más tarde, sufrirá Guccini; así, en su infancia y primera juventud, América representa una "provincia dulce", "mundo de paz". Después, años más tarde, cuando viaja a Estados Unidos, conocerá otra América , muy hipócrita, que le desilusionará.
Dice Guccini: "Mi generación ha sido muy influenciada por América ... crecí en la postguerra, cuando preponderaba la cultura americana ... el cine y la música eran casi completamente americanos ; en la mente de los jóvenes existía el concepto del gran sueño americano, cultivado también al aproximarnos a la literatura angloamericana. Yo, para que me entienda, ya entonces en la escuela estudiaba inglés... y en el año 65 comencé a enseñar italiano en la Universidad Americana de Bolonia, un mes al año, septiembre, hasta el año 85 ". Pero, Guccini se fue desilusionando: "Al principio estaba lleno de entusiasmo. El ápice fue en el 69-70 pero luego, poco a poco, se fue manifestando el gap cultural que existe entre ellos y nosotros. No soportaba una cierta forma de ser, de comportarse. Incluso ahora, cuando voy a ver una película americana, no aguanto ciertos clichés".
A Guccini le molesta profundamente de los americanos "el modo de ser, el modo de comunicar, sus frases hechas, el arribismo, la gran fachada de hipocresía...".
Guccini dice "sí, me he alejado verdaderamente mucho... aunque es evidente, que no hay que generalizar nunca ... pero considero, que las cosas que me molestan de ellos son más relevantes que los aspectos positivos ".
(17) Preguntado Guccini sobre su opinión del "más allá" responde: "Racionalmente digo no, no hay nada pero mi inconsciente replica ¡ pero quién sabe!". Se debe volver de alguna manera, aunque no sea en forma humana, como por ejemplo, en forma de hoja, de agua o de viento.
Sobre este tema, dice Guccini en otra entrevista, que es ateo hasta que llega a Pàvana; una vez allí piensa que debe haber algún lugar en el más allá donde todos sus paisanos se vuelvan a reunir. Este mismo concepto se repite en las estrofas finales de la canción Van loon.
(2) En la imaginación del niño "Guccini", el braguero que llevaba su tío abuelo para reducir una hernia inguinal, se convertía en la funda de una pistola de algún vaquero de película.
(3) Enrico frecuentaba a Savigni Elivio, alias Livio, un zapatero, y Savigni Amedeo, que tenía una tienda. Se limitaban a jugar a las cartas, beber vino e intercambiarse "vagas ideas de socialismo". Esto bastaba para hacer de ellos y de otros pavaneses, peligrosos subversivos.
Refiere Guccini que en los últimos años de la vida de Merigo, cuando comenzó a tratarlo más profundamente, no se interesaba ya por la política y sus vagas ideas de socialismo se habían transformado en vagas ideas democristianas... "después de la guerra, o eras comunista o eras democristiano. Él, quién sabe porqué, escogió la segunda vía" .
(4) Le Havre, puerto de la costa atlántica de Francia, desde donde embarcó Merigo rumbo a Nueva York. El viaje duraba aproximadamente 30 días.
(5) GI Bill: En Junio de 1944, el 32° presidente americano, Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), firmó el acta, Servicemen´s Readjustmente Act, también conocida como Montgomery GI Bill-Active Duty (MGIB), que establecía una serie de medidas especiales para facilitar la transición de los veteranos de la Segunda Guerra Mundial a la vida civil. Estas medidas comprendieron básicamente, préstamos a muy bajo interés para la adquisición de una vivienda, asesoramiento en la búsqueda de empleo, subsidio de 20 dólares semanales durante un año y, becas de estudio.
(6) La Quinta Armada Americana (Fifth Army) desembarcó, bajo la dirección de teniente General Mark W. Clark, en las playas cercanas a Salerno, el 9 de Septiembre de 1943. Junto con la Octava Armada de la Commonwealth, que había desembarcado en Reggio Calabria el 3 de Septiembre de 1943, fueron de capital importancia para vencer a las fuerzas de ocupación nazi en Italia.
(7) "Life", revista americana que se publicó en forma de semanario entre 1936 y 1972; en las portadas de la revista, era frecuente ver rostros sonrientes con dentaduras perfectas.
(8) Pato Donald, personaje de ficción de la productora de Walt Disney, que apareció por primera vez en el año 1934 en el corto animado "The Wise Little Hen"(La Gallinita Sabia). En 1938 el Pato Donald empieza a salir en los periódicos como una tira en blanco y negro y, a partir de 1942, de la mano sobre todo de Carl Barks, tendrá una serie regular de historietas. Refiere Guccini que uno de sus mitos es el Pato Donald de Barks "tengo todo Barks, tanto en inglés como en italiano". Añade Francesco "Barks es un autor infravalorado ... habría que leerlo en inglés... su lenguaje es maravilloso..."
El Pato Donald de Barks es un personaje romántico y misterioso, que con frecuencia vive sus aventuras en enclaves míticos como El Dorado o la Atlántida.
(9) Gunga-Din, película dirigida en 1939 por George Stevens, ambientada en la India, cuando ésta era una colonia del imperio británico y basada en un poema de Rudyard Kipling.
(10) Ringo Kid es el actor John Wayne en la película de 1939 "La diligencia" (the stagecoach), dirigida por John Ford. Es en esta película precisamente donde comienza la carrera estelar de John Wayne, interpretando a un pistolero obsesionado con la idea de la venganza y redimido en el último momento por una exprostituta. Refiere Guccini que " en esta película está todo el género del western: el predicador, el borracho, la prostituta y los indios, ¡ no olvidemos a los pobres indios !".
(11) Casablanca, película americana de 1943, dirigida por Michael Curtiz y protagonizada por Humphrey Bogart, Ingrid Bergman y Paul Henreid.
(12) Fort Apache, película dirigida en 1948 por John Ford, en la que se describe la vida en un fuerte de la Caballería Americana, constantemente hostigado por los Apaches.
(13) Torrente próximo a Pàvana, afluente del río Reno
(14) Probablemente se refiere a Castello de Sambuca, localidad próxima a Pàvana.
(15) Decía un Amerigo anciano "pòra gioventù" ( ¡Pobre juventud! ), cuando con 70 años, él podía aún levantar un saco de un quintal, mientras que Guccini, mucho más joven, era incapaz.
(16) Las esperanzas que albergaba Merigo al partir hacia América, no se vieron colmadas y, al cabo de los años y de mucho trabajo, regresó a Italia "con cuatro duros y la juventud consumida". Este ciclo de esperanza-desilusión, es el mismo que ,años más tarde, sufrirá Guccini; así, en su infancia y primera juventud, América representa una "provincia dulce", "mundo de paz". Después, años más tarde, cuando viaja a Estados Unidos, conocerá otra América , muy hipócrita, que le desilusionará.
Dice Guccini: "Mi generación ha sido muy influenciada por América ... crecí en la postguerra, cuando preponderaba la cultura americana ... el cine y la música eran casi completamente americanos ; en la mente de los jóvenes existía el concepto del gran sueño americano, cultivado también al aproximarnos a la literatura angloamericana. Yo, para que me entienda, ya entonces en la escuela estudiaba inglés... y en el año 65 comencé a enseñar italiano en la Universidad Americana de Bolonia, un mes al año, septiembre, hasta el año 85 ". Pero, Guccini se fue desilusionando: "Al principio estaba lleno de entusiasmo. El ápice fue en el 69-70 pero luego, poco a poco, se fue manifestando el gap cultural que existe entre ellos y nosotros. No soportaba una cierta forma de ser, de comportarse. Incluso ahora, cuando voy a ver una película americana, no aguanto ciertos clichés".
A Guccini le molesta profundamente de los americanos "el modo de ser, el modo de comunicar, sus frases hechas, el arribismo, la gran fachada de hipocresía...".
Guccini dice "sí, me he alejado verdaderamente mucho... aunque es evidente, que no hay que generalizar nunca ... pero considero, que las cosas que me molestan de ellos son más relevantes que los aspectos positivos ".
(17) Preguntado Guccini sobre su opinión del "más allá" responde: "Racionalmente digo no, no hay nada pero mi inconsciente replica ¡ pero quién sabe!". Se debe volver de alguna manera, aunque no sea en forma humana, como por ejemplo, en forma de hoja, de agua o de viento.
Sobre este tema, dice Guccini en otra entrevista, que es ateo hasta que llega a Pàvana; una vez allí piensa que debe haber algún lugar en el más allá donde todos sus paisanos se vuelvan a reunir. Este mismo concepto se repite en las estrofas finales de la canción Van loon.
Lingua: Tedesco
Deutsche Übersetzung von Riccardo Venturi
Traduzione tedesca di Riccardo Venturi
4. Februar 2009 / 4 febbraio 2009
Traduzione tedesca di Riccardo Venturi
4. Februar 2009 / 4 febbraio 2009
AMERIGO
Wahrscheinlich ging er hinaus und schloss hinter sich die grüne Tür
Jemand war aufgestanden um ihm in Eile einen Gerstenkoffee zu machen.
Ich weiss nicht, ob er umwandte. Er war kein Mensch, der sich verliert
in Heimweh, wie die Reichen, und ohne Mühe ging er seinen Weg.
Als ich ihn kennengelernt habe, in meiner Erinnerung war er schon alt,
oder schien mir alt zu sein, ich aber ging noch nicht zu Schule;
Mich beeindruckte sein Kahlschlag, und ein seltsames, absonderliches Gerät,
ein Bruchband der ganz einer Pistolentasche nachschlug,
Aber an jenem Morgen hatte er das faltenlose Gesicht eines Zwanzigjährigen
und Ärger, und Abenteuer, und noch unbestimmte Ideen von Sozialismus.
Harte Worte seinem Vater, und Hunger und Fluchten im Hintergrund
und für seine Arbeit, was bricht und tötet, Fatalismus
Aber an jenem Morgen fühlte er etwas neues für Heim und Mutter,
und um dies zu vertreiben hatte er den ersten Wein aus einem Keller gesoffen,
und schon fühlte er ins Gesicht den Geruch nach Öl und Meer von Le Havre,
und schon fühlte er in den Mund den Geruch nach Minenpulver.
Amerika war da für mich Roosevelts G.I. Men, die fünfte Armee,
Amerika war Atlantis, Amerika war das Herz, war die Schicksal;
Amerika war Life, Lächeln und weisse Zähne auf Glanzpapier,
Amerika war die träumerische, geheimnisvolle welt von Onkel Donald.
Amerika war da für mich eine süsse Welt, ein Friedenshafen,
verlorenes Paradies, unmerklicher Sehnsucht, langsame Neurose
und Gunga-Din und Ringo, die Helden von Casablanca und Fort Apache,
ein Traum längs des unablässigen, zwanghaften Stromgeräusches des Limentra.
Ich weiss nicht, was er dachte als ihm New York in Augensicht kam,
ein Wolkenkratzerwald, Stadt von Scheiss und Strassen, Schreie, Schloss!
Und Pàvana, nur eine Erinnerung hinterlassen in den Kastanienwäldern der Apenninen,
das Englische läutete so unheimlich und verletzte ihm das Herz wie ein Messer
Und es war Arbeit und Blut, es war die gleiche Mühe Morgen bis Abend,
Jahre und Jahre wie in Gefängnis, und Bier und Huren und schwere Tage
mit Negern und Iren, Polen und Italienern im gleichen Bergwerk,
und Schweiss nach Anthrazit in Pennsylvania, Arkansas, Tex, Missouri.
Heim kehrte er wie so viele, ein paar Groschen und sein Jugend ganz aus.
Amerika war eine Weltecke, Amerika war ein Schatten, dünner Nebel;
Amerika war ein Bruch, ein Streich wie die manche, die Leben spielt,
und boss für Hauptmann zu sagen, und ton für Tonne, rifle für Gewehr.
Als ich kennengelernt habe, in meiner Erinnerung war er schon alt;
verächtlich, wie die Jungen, mied ich ihn und könnte ihn nicht verstehen
und ich verstand nicht, der Mann dort sei mein Gesicht, sei mein Spiegel
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe,
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe,
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe,
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe.
Wahrscheinlich ging er hinaus und schloss hinter sich die grüne Tür
Jemand war aufgestanden um ihm in Eile einen Gerstenkoffee zu machen.
Ich weiss nicht, ob er umwandte. Er war kein Mensch, der sich verliert
in Heimweh, wie die Reichen, und ohne Mühe ging er seinen Weg.
Als ich ihn kennengelernt habe, in meiner Erinnerung war er schon alt,
oder schien mir alt zu sein, ich aber ging noch nicht zu Schule;
Mich beeindruckte sein Kahlschlag, und ein seltsames, absonderliches Gerät,
ein Bruchband der ganz einer Pistolentasche nachschlug,
Aber an jenem Morgen hatte er das faltenlose Gesicht eines Zwanzigjährigen
und Ärger, und Abenteuer, und noch unbestimmte Ideen von Sozialismus.
Harte Worte seinem Vater, und Hunger und Fluchten im Hintergrund
und für seine Arbeit, was bricht und tötet, Fatalismus
Aber an jenem Morgen fühlte er etwas neues für Heim und Mutter,
und um dies zu vertreiben hatte er den ersten Wein aus einem Keller gesoffen,
und schon fühlte er ins Gesicht den Geruch nach Öl und Meer von Le Havre,
und schon fühlte er in den Mund den Geruch nach Minenpulver.
Amerika war da für mich Roosevelts G.I. Men, die fünfte Armee,
Amerika war Atlantis, Amerika war das Herz, war die Schicksal;
Amerika war Life, Lächeln und weisse Zähne auf Glanzpapier,
Amerika war die träumerische, geheimnisvolle welt von Onkel Donald.
Amerika war da für mich eine süsse Welt, ein Friedenshafen,
verlorenes Paradies, unmerklicher Sehnsucht, langsame Neurose
und Gunga-Din und Ringo, die Helden von Casablanca und Fort Apache,
ein Traum längs des unablässigen, zwanghaften Stromgeräusches des Limentra.
Ich weiss nicht, was er dachte als ihm New York in Augensicht kam,
ein Wolkenkratzerwald, Stadt von Scheiss und Strassen, Schreie, Schloss!
Und Pàvana, nur eine Erinnerung hinterlassen in den Kastanienwäldern der Apenninen,
das Englische läutete so unheimlich und verletzte ihm das Herz wie ein Messer
Und es war Arbeit und Blut, es war die gleiche Mühe Morgen bis Abend,
Jahre und Jahre wie in Gefängnis, und Bier und Huren und schwere Tage
mit Negern und Iren, Polen und Italienern im gleichen Bergwerk,
und Schweiss nach Anthrazit in Pennsylvania, Arkansas, Tex, Missouri.
Heim kehrte er wie so viele, ein paar Groschen und sein Jugend ganz aus.
Amerika war eine Weltecke, Amerika war ein Schatten, dünner Nebel;
Amerika war ein Bruch, ein Streich wie die manche, die Leben spielt,
und boss für Hauptmann zu sagen, und ton für Tonne, rifle für Gewehr.
Als ich kennengelernt habe, in meiner Erinnerung war er schon alt;
verächtlich, wie die Jungen, mied ich ihn und könnte ihn nicht verstehen
und ich verstand nicht, der Mann dort sei mein Gesicht, sei mein Spiegel
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe,
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe,
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe,
bis die Zeit endlich kommt, dass ich ihn in jedermanns Gesicht wiedersehe.
LA PORTA VERDE
di Riccardo Venturi
Probabilmente uscirono, e la porta che si chiusero alle spalle ha parecchie probabilità d'essere stata verde.
Perché di porte pitturate di verde, porte di case e di magazzini, di persiane e di tuguri, a Marina di Campo ce n'erano. Fino alla memoria mia. La memoria di un vecchio glicine, e d'un magazzino dove si tenevano anche le botti del vino. Quell'odore dei vecchi magazzini. L'interruttore con la levetta, e i fili scoperti, intrecciati. La lampadina piena di ragnatele fino all'inverosimile. Aveva, quel magazzino, la porta verde.
Uscirono, Dini Dino e Dini Sebastiana, marito e moglie neppure parenti alla lontana malgrado l'identico cognome, e fecero il cammino di tutti gli emigranti: prima Genova, e poi l'Argentina. L'anno era il 1935.
Sebastiana era sorella minore di mia nonna; Dino veniva da San Piero ed era stato, perlomeno fino al matrimonio, di quella specie di poveri latin-lover di paese, di campagna. Era un bell'uomo, comunque. C'era da andarsene. La storia di tutti.
Mi chiedo a volte dove si sia inceppato, Guccini. Credo che sia stato quando ha smesso di raccontarci la nostra storia attraverso la sua. Amerigo, come Van Loon, è una di quelle canzoni che ce la dicono, questa nostra storia; ma sono canzoni oramai vecchie. Amerigo, in stereocassetta, me la portò un pomeriggio Vincenzo, in regalo, nella mia vecchia cantina che mi faceva da stanza. Era il 1978. La misi su, e dopo poche note della canzone mi misi a pensare a Dino e Sebastiana. Già da allora. Oggi pago un debito. Una cosa che avevo cominciato a scrivere non so quante decine di volte. Troppa identità, forse.
Arrivavano lettere da posti dai nomi fantasmagorici, rutilanti. Mendoza, dove prima si erano stabiliti, lei a servizio di una signora pure italiana, lui a fare il sarto a domicilio. Poi, dopo Mendoza, Rosario. In Argentina non c'era la guerra. Fu là che li raggiunse la notizia della morte in mare di mio zio Mamiliano, ovvero di uno dei fratelli di Sebastiana e di mia nonna. Capo Matapan, 1941. Nave Alvise Cadamosto. Silurata. Il caduto, pure quello. Il suo nome è sul solito monumento. La piazza si chiama della Vittoria, ma si è sempre perso.
In piazza di Pavana c'è anche un Guccini, sul monumento ai caduti.
Poi il grande salto. Prima a Mar del Plata, dove restarono poco perché la casa dove stavano andò bruciata, nel 1948. Aveva preso fuoco una cosa che da noi non esisteva. La televisione. Ce l'avevano. Mia zia Clara mi parla di quelle lettere, che conosce quasi a memoria. Due soldi e giovinezza, e nessun figlio. Non ne ebbero. Non ne vennero.
E poi, infine, a Buenos Aires. Da Buenos Aires arrivò una fotografia. Se l'erano andata a fare in un vero "atelier", mettendosi i vestiti buoni, disponendosi in posa. E' l'unica immagine che ho, nella memoria, di Sebastiana e Dino in Argentina. E' strano, o forse no, come i luoghi cambino l'aspetto delle persone; avevo di fronte le facce elbane della mia famiglia, facce che sapevano di muri a secco, di zuppe di verdura, di comari nel portico e di granito, e nella foto c'era una coppia di argentini, oramai maturi. Lui coi baffi, naturalmente. Il vestito scuro, la cravatta e quell'espressione ispanica che riconduceva non più a un Dini, ma a un Mendizábal, a un Arroyo, a un Ortiz. Lei, ancora di più. Una doña già pingue, in un paese dove si mangiava. La foto è del 1954. Nella lettera allegata, il panegirico di Perón, e, soprattutto di Evita. Un anno dopo, il colpo di stato. Erano diventati peronisti, i miei zii. Due zii peronisti mica ce li hanno tutti. O forse sì, chissà.
Si mise male. Lavori persi a ripetizione. Niente più foto negli atelier. Si diradarono anche le lettere. Finché, nel 1965, trent'anni dopo la partenza, decisero di tornare all'Isola d'Elba. Non ce la facevano più, ma non per nostalgia (da ricchi o da poveri, fa lo stesso). Non ce la facevano più a campare. Percorso inverso. Rividero Genova, dove tutta la famiglia era andata a prenderli. Io avevo due anni.
Quand'io li ho conosciuti, o inizio a ricordarli, erano già vecchi.
Lui era dell'11, lei del '13. Erano andati a stare al Vapelo, in una vecchia casa sulla salita del Salandro che mena a Galenzana, con il gabinetto esterno sporgente puntellato al muro con due sbarre di ferro. E me la ricordo, quella casa, piccola, piena di odori, la radio, e loro lì dentro.
Ci andavo spesso perché mi piaceva sentirli parlare. Soprattutto lei aveva preso quella parlata mezza spagnola, e una lingua non è soltanto parole. E' accento. E' musica. E' una diversa tensione. Così avevano preso a chiamarla la Titta, per via dei frequenti diminutivi spagnoli in "-tita" o "-ita" che usava, una preguntita, una cosita. Lui, col tempo, era rimasto paralizzato alle gambe. Se ne stava tutto il giorno a sedere al tavolino, a becchettarsi con lei che doveva far tutto, lavare, preparare da mangiare, fare la spesa, metterlo a letto.
Credo che avessero cominciato a odiarsi quietamente, come spesso accade tra marito e moglie di lunghissima data. A lui erano rimaste solo le mani, che aveva forti come un toro; una volta, mi ricordo, mentre lui "faceva le forze" con me, lei gli urlò: te le friggi le tu' mani, sciancato. Così. Lui aveva biascicato qualcosa. Poi era rimasto zitto.
Beveva, lui, quantità industriali di Nesquik.
E' morto nell'ottantacinque. Lei, il giorno di Pasqua del novanta. Da due anni le avevano fatto lasciare quella casa, al primo piano, con una rampa di scale troppo ripida. La avevano messa a San Piero in un bilocale comunale. Si usciva e si vedeva un panorama da troncare il fiato, il golfo di Campo, persino Montecristo e la Corsica nelle giornate più limpide.
Quand'è morta, si è scoperto che aveva dei quaderni. A matita, mezzi in spagnolo sgrammaticato e mezzi in italiano più sgrammaticato ancora. Ci scriveva le sue cose. Vecchie canzoni che si ricordava di quand'era bambina o ragazzina; ce n'è persino una sull'affondamento dello Sgarallino, il piroscafo silurato nel '43 da un sommergibile inglese davanti a Nisportino. Trecentotrenta morti.
Non aveva smesso di scriverci per tutti i trent'anni passati in Argentina. Li tiene mio cugino, che sta pure a San Piero. Bisognerebbe che li leggessi tutti. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa e quanto ci possa essere dentro. Magari, chissà, ci sono anch'io. E in ogni caso ci sarei, anche se di me non fosse fatta nemmeno mezza parola.
Anche quella casa sulla salita del Salandro aveva la porta verde. Le pitturavano con quella vernice spessa, da legno, che a un certo punto si staccava a pezzi enormi. Ogni tanto toccava riverniciare tutto daccapo. Probabilmente vi uscirono, e un giorno vi rientrarono. Così, sembra, sempre va.
di Riccardo Venturi
Probabilmente uscirono, e la porta che si chiusero alle spalle ha parecchie probabilità d'essere stata verde.
Perché di porte pitturate di verde, porte di case e di magazzini, di persiane e di tuguri, a Marina di Campo ce n'erano. Fino alla memoria mia. La memoria di un vecchio glicine, e d'un magazzino dove si tenevano anche le botti del vino. Quell'odore dei vecchi magazzini. L'interruttore con la levetta, e i fili scoperti, intrecciati. La lampadina piena di ragnatele fino all'inverosimile. Aveva, quel magazzino, la porta verde.
Uscirono, Dini Dino e Dini Sebastiana, marito e moglie neppure parenti alla lontana malgrado l'identico cognome, e fecero il cammino di tutti gli emigranti: prima Genova, e poi l'Argentina. L'anno era il 1935.
Sebastiana era sorella minore di mia nonna; Dino veniva da San Piero ed era stato, perlomeno fino al matrimonio, di quella specie di poveri latin-lover di paese, di campagna. Era un bell'uomo, comunque. C'era da andarsene. La storia di tutti.
Mi chiedo a volte dove si sia inceppato, Guccini. Credo che sia stato quando ha smesso di raccontarci la nostra storia attraverso la sua. Amerigo, come Van Loon, è una di quelle canzoni che ce la dicono, questa nostra storia; ma sono canzoni oramai vecchie. Amerigo, in stereocassetta, me la portò un pomeriggio Vincenzo, in regalo, nella mia vecchia cantina che mi faceva da stanza. Era il 1978. La misi su, e dopo poche note della canzone mi misi a pensare a Dino e Sebastiana. Già da allora. Oggi pago un debito. Una cosa che avevo cominciato a scrivere non so quante decine di volte. Troppa identità, forse.
Arrivavano lettere da posti dai nomi fantasmagorici, rutilanti. Mendoza, dove prima si erano stabiliti, lei a servizio di una signora pure italiana, lui a fare il sarto a domicilio. Poi, dopo Mendoza, Rosario. In Argentina non c'era la guerra. Fu là che li raggiunse la notizia della morte in mare di mio zio Mamiliano, ovvero di uno dei fratelli di Sebastiana e di mia nonna. Capo Matapan, 1941. Nave Alvise Cadamosto. Silurata. Il caduto, pure quello. Il suo nome è sul solito monumento. La piazza si chiama della Vittoria, ma si è sempre perso.
In piazza di Pavana c'è anche un Guccini, sul monumento ai caduti.
Poi il grande salto. Prima a Mar del Plata, dove restarono poco perché la casa dove stavano andò bruciata, nel 1948. Aveva preso fuoco una cosa che da noi non esisteva. La televisione. Ce l'avevano. Mia zia Clara mi parla di quelle lettere, che conosce quasi a memoria. Due soldi e giovinezza, e nessun figlio. Non ne ebbero. Non ne vennero.
Si mise male. Lavori persi a ripetizione. Niente più foto negli atelier. Si diradarono anche le lettere. Finché, nel 1965, trent'anni dopo la partenza, decisero di tornare all'Isola d'Elba. Non ce la facevano più, ma non per nostalgia (da ricchi o da poveri, fa lo stesso). Non ce la facevano più a campare. Percorso inverso. Rividero Genova, dove tutta la famiglia era andata a prenderli. Io avevo due anni.
Quand'io li ho conosciuti, o inizio a ricordarli, erano già vecchi.
Lui era dell'11, lei del '13. Erano andati a stare al Vapelo, in una vecchia casa sulla salita del Salandro che mena a Galenzana, con il gabinetto esterno sporgente puntellato al muro con due sbarre di ferro. E me la ricordo, quella casa, piccola, piena di odori, la radio, e loro lì dentro.
Ci andavo spesso perché mi piaceva sentirli parlare. Soprattutto lei aveva preso quella parlata mezza spagnola, e una lingua non è soltanto parole. E' accento. E' musica. E' una diversa tensione. Così avevano preso a chiamarla la Titta, per via dei frequenti diminutivi spagnoli in "-tita" o "-ita" che usava, una preguntita, una cosita. Lui, col tempo, era rimasto paralizzato alle gambe. Se ne stava tutto il giorno a sedere al tavolino, a becchettarsi con lei che doveva far tutto, lavare, preparare da mangiare, fare la spesa, metterlo a letto.
Beveva, lui, quantità industriali di Nesquik.
E' morto nell'ottantacinque. Lei, il giorno di Pasqua del novanta. Da due anni le avevano fatto lasciare quella casa, al primo piano, con una rampa di scale troppo ripida. La avevano messa a San Piero in un bilocale comunale. Si usciva e si vedeva un panorama da troncare il fiato, il golfo di Campo, persino Montecristo e la Corsica nelle giornate più limpide.
Quand'è morta, si è scoperto che aveva dei quaderni. A matita, mezzi in spagnolo sgrammaticato e mezzi in italiano più sgrammaticato ancora. Ci scriveva le sue cose. Vecchie canzoni che si ricordava di quand'era bambina o ragazzina; ce n'è persino una sull'affondamento dello Sgarallino, il piroscafo silurato nel '43 da un sommergibile inglese davanti a Nisportino. Trecentotrenta morti.
Non aveva smesso di scriverci per tutti i trent'anni passati in Argentina. Li tiene mio cugino, che sta pure a San Piero. Bisognerebbe che li leggessi tutti. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa e quanto ci possa essere dentro. Magari, chissà, ci sono anch'io. E in ogni caso ci sarei, anche se di me non fosse fatta nemmeno mezza parola.
Anche quella casa sulla salita del Salandro aveva la porta verde. Le pitturavano con quella vernice spessa, da legno, che a un certo punto si staccava a pezzi enormi. Ogni tanto toccava riverniciare tutto daccapo. Probabilmente vi uscirono, e un giorno vi rientrarono. Così, sembra, sempre va.
Le très beau texte, un peu nostalgique, un peu songeur de Riccardo Venturi qui venait en commentaire à Amerigo, m'avait dès l'abord paru en soi "una canzone" et donc nécessiter une traduction. Il ne me manquait que le temps de la faire : la voici. - MVMI
LA PORTE VERTE
de Riccardo Venturi
Il est probable qu'ils sortirent et que la porte qui se ferma dans leur dos a bien des chances d'avoir été verte.
Car des portes peintes en vert, des portes de maisons et de magasins, des persiennes et de masures à Marina du Campo, il y en avait. Jusque dans ma mémoire. La mémoire d'une vieille glycine et d'un magasin où il y avait aussi les barriques de vins. Cette odeur des vieux magasins. L'interrupteur avec la patte, et leurs fils découverts, emmêlés. La lampe incroyablement remplie de toiles d'araignée. Il avait, ce magasin, une porte verte.
Ils sortirent : Dino Dini et Sebastiana Dini , mari et femme sans aucune parenté même éloignée malgré la similitude de leurs noms et ils prirent le chemin de tous les émigrants : d'abord, Gênes et puis l'Argentine. C'était en 1935.
Sebastiana était la sœur cadette de ma grand-mère ; Dino venait de San Piero et avait été, au moins jusqu'au mariage, de cette espèce de latin-lover pauvre de village, de campagne. De fait, c'était un bel homme. Il fallait s'en aller. L'histoire de tous.
Je me demande où il s'est fourvoyé, Guccini. Je crois que c'est quand il a cessé de nous raconter notre histoire à travers la sienne. Amerigo, comme Van Loon, est une de ces chansons qui nous la disent, notre histoire; mais ce sont à présent des chansons anciennes. Amerigo, en cassette-stéréo, Vincenzo me l'avait apportée un après-midi, en cadeau, dans ma vieille cave qui me servait de séjour. C'était en 1978. Je la mis et après quelques notes, je me mis à penser à Dino et Sebastiana. Déjà dès ce moment. Aujourd'hui, je paie une dette. Une chose que j'avais commencée à écrire je ne sais combien de dizaines de fois. Trop proche, peut-être.
Arrivaient des lettres de lieux aux noms fantasmagoriques, rutilants : Mendoza, où ils s'étaient d'abord établis, elle au service d'une dame italienne, lui faisait le tailleur à domicile. Puis, après Mendoza, Rosario. En Argentine, il n'y avait pas la guerre. Ce fut là que leur parvint la mort en mer de mon oncle Mamiliano, un des frères de Sebastiana et de ma grand-mère. Cap Matapan, 1941. Navire Alvise Cadamosto. Torpillé. Le mort, celui-là précisément. Son nom est sur l'habituel monument. La place s'appelle la place de la Victoire, mais on a toujours perdu.
Sur la place de Pavana, il y a aussi un Guccini, sur le monuments aux morts.
Puis le grand saut. D'abord à Mar del Plata, où ils restèrent peu car la maison où ils étaient brûla, en 1948. Avait pris feu une chose qui n'existait pas chez nous : la télévision. Ma tante Clara me parlait de ces lettres, qu'elle connaît presque par cœur. Deux sous et une jeunesse, et aucun enfant. Ils n'en eurent pas. Ils ne vinrent pas.
Puis, finalement à Buenos-Aires. De Buenos-Aires arriva une photographie. Ils avaient été la faire dans un vrai « studio », en mettant de beaux vêtements, en posant. C'est l'unique image que j'ai, dans ma mémoire, de Sebastiana et de Dino en Argentine. C'est étrange, ou peut-être non, comme les lieux changent l'aspect des personnes; de face, ils avaient les traits elbois de ma vieille famille, des visages qui en savaient sur les murs à sec, sur les soupes de légumes, sur les commères dans les portiques et sur le granit, et sur la photo, c'était un couple d'Argentins, désormais mûrs. Lui avec des moustaches, naturellement. Le costume sombre, la cravate et cette expression espagnole qui renvoyait non plus à un Dini, mais à un Mendizábal, à un Arroyo, à un Ortiz. Elle, encore plus. Une doña déjà dodue, dans un pays où on mangeait. La photo est de 1954. Dans la lettre qui l'accompagnait, un panégyrique de Perón et, surtout, d'Evita. Un an après, le coup d'État. Ils étaient devenus péronistes, mes oncles. Deux oncles péronistes, espérons qu'on n'en a pas tous. Ou peut-être si, qui sait .
Les choses tournèrent mal. Boulots perdus à répétition. Plus de photos dans les studios. Les lettres aussi s'espacèrent. Jusqu'à ce qu'en 1965, trente ans après leur départ, ils décidèrent de revenir à l'île d'Elbe. Ça n'allait plus, mais pas par nostalgie (riches ou pauvres, c'est le même). Ils n'arrivaient plus à vivre. Parcours inverse. Ils revirent Gênes, où toute la famille était allée les chercher. J'avais deux ans.
Quand je les ai connus, ou que je me les rappelle, ils étaient déjà vieux.
Lui était de 11, elle de 13. Ils étaient allés s'installer à Vapelo, dans une vieille maison dans la montée du Salandro qui mène à Galenzana, avec le cabinet extérieur accroché au mur avec deux barres de fer. Et je me la rappelle, cette maison, petite, pleine d'odeurs, la radio, et eux en dedans.
J'y allais tout le temps car j'aimais les entendre parler. Surtout elle qui avait prit ce parler moitié espagnol, une langue ce n'est pas seulement des mots. Il y a l'accent. Il y a la musique. Il y a une tension différente. On l'appelait ainsi Titta en raison des fréquents diminutifs espagnols en tita ou en ita dont elle usait, « una preguntita, una cosita ». Lui, avec le temps, fut paralysé des jambes. Il restait toute la journée assis devant la table, à se prendre le bec avec elle qui devait tout faire, laver, préparer à manger, faire les courses, le mettre au lit.
Je crois bien qu'ils avaient commencé à se détester tranquillement, comme souvent il arrive entre mari et femme de longue date. Il lui était resté seulement les mains, qu'il avait fortes « comme un taureau »; une fois, je m'en souviens, tandis qu'il faisait un bras de fer avec moi, elle lui hurla : je vais te les frire tes mains, estropié. Ainsi. Lui avait grommelé quelque chose. Puis, il était resté silencieux.
Il buvait, lui, des quantités industrielles de Nesquick.
Il est mort en quatre-vingt cinq. Elle, le jour de Pâques de nonante. Deux ans auparavant, on lui avait fait quitter cette maison, au premier étage, avec une rampe d'escalier trop raide. On l'avait mise à San Piero dans un deux pièces communal. On sortait et on voyait un panorama à couper le souffle, le golfe de Campo, jusque Montecristo et la Corse dans les jours les plus limpides.
Quand elle est morte, on a découvert ses cahiers. Au crayon, moitié en un espagnol avec des fautes et moitié en un italien pire encore. Elle écrivait ses choses. De vieilles chansons qu'elle se rappelait de quand elle était enfant ou petite fille; il y en a même sur le naufrage du Sgarallino, le paquebot torpillé en 1943 par un sous-marin anglais devant Nisportino. Trois cents morts.
Elle n'avait pas cessé d'écrire durant les trente années passées en Argentine. Mon cousin qui est toujours à San Piero le possède. Il faudrait les lire tous. Je ne peux même pas imaginer tout ce qui peut y avoir dedans. Peut-être, qui sait, j'y suis moi aussi. Et dans tous les cas, j'y serais, même s'il n'y a pas même un mot à mon sujet.
Même cette maison-là sur la montée du Salandro avait une porte verte. On les peignait, ces portes-là, d'une peinture à bois très épaisse, qui à un certain point se détachait en gros morceaux. De temps en temps, il fallait les repeindre, tout derechef. Il est probable qu'ils en sortirent et qu'un jour, ils y rentrèrent. Ainsi, dirait-on, cela va-t-il toujours.
LA PORTE VERTE
de Riccardo Venturi
Il est probable qu'ils sortirent et que la porte qui se ferma dans leur dos a bien des chances d'avoir été verte.
Car des portes peintes en vert, des portes de maisons et de magasins, des persiennes et de masures à Marina du Campo, il y en avait. Jusque dans ma mémoire. La mémoire d'une vieille glycine et d'un magasin où il y avait aussi les barriques de vins. Cette odeur des vieux magasins. L'interrupteur avec la patte, et leurs fils découverts, emmêlés. La lampe incroyablement remplie de toiles d'araignée. Il avait, ce magasin, une porte verte.
Ils sortirent : Dino Dini et Sebastiana Dini , mari et femme sans aucune parenté même éloignée malgré la similitude de leurs noms et ils prirent le chemin de tous les émigrants : d'abord, Gênes et puis l'Argentine. C'était en 1935.
Sebastiana était la sœur cadette de ma grand-mère ; Dino venait de San Piero et avait été, au moins jusqu'au mariage, de cette espèce de latin-lover pauvre de village, de campagne. De fait, c'était un bel homme. Il fallait s'en aller. L'histoire de tous.
Je me demande où il s'est fourvoyé, Guccini. Je crois que c'est quand il a cessé de nous raconter notre histoire à travers la sienne. Amerigo, comme Van Loon, est une de ces chansons qui nous la disent, notre histoire; mais ce sont à présent des chansons anciennes. Amerigo, en cassette-stéréo, Vincenzo me l'avait apportée un après-midi, en cadeau, dans ma vieille cave qui me servait de séjour. C'était en 1978. Je la mis et après quelques notes, je me mis à penser à Dino et Sebastiana. Déjà dès ce moment. Aujourd'hui, je paie une dette. Une chose que j'avais commencée à écrire je ne sais combien de dizaines de fois. Trop proche, peut-être.
Arrivaient des lettres de lieux aux noms fantasmagoriques, rutilants : Mendoza, où ils s'étaient d'abord établis, elle au service d'une dame italienne, lui faisait le tailleur à domicile. Puis, après Mendoza, Rosario. En Argentine, il n'y avait pas la guerre. Ce fut là que leur parvint la mort en mer de mon oncle Mamiliano, un des frères de Sebastiana et de ma grand-mère. Cap Matapan, 1941. Navire Alvise Cadamosto. Torpillé. Le mort, celui-là précisément. Son nom est sur l'habituel monument. La place s'appelle la place de la Victoire, mais on a toujours perdu.
Sur la place de Pavana, il y a aussi un Guccini, sur le monuments aux morts.
Puis le grand saut. D'abord à Mar del Plata, où ils restèrent peu car la maison où ils étaient brûla, en 1948. Avait pris feu une chose qui n'existait pas chez nous : la télévision. Ma tante Clara me parlait de ces lettres, qu'elle connaît presque par cœur. Deux sous et une jeunesse, et aucun enfant. Ils n'en eurent pas. Ils ne vinrent pas.
Les choses tournèrent mal. Boulots perdus à répétition. Plus de photos dans les studios. Les lettres aussi s'espacèrent. Jusqu'à ce qu'en 1965, trente ans après leur départ, ils décidèrent de revenir à l'île d'Elbe. Ça n'allait plus, mais pas par nostalgie (riches ou pauvres, c'est le même). Ils n'arrivaient plus à vivre. Parcours inverse. Ils revirent Gênes, où toute la famille était allée les chercher. J'avais deux ans.
Quand je les ai connus, ou que je me les rappelle, ils étaient déjà vieux.
Lui était de 11, elle de 13. Ils étaient allés s'installer à Vapelo, dans une vieille maison dans la montée du Salandro qui mène à Galenzana, avec le cabinet extérieur accroché au mur avec deux barres de fer. Et je me la rappelle, cette maison, petite, pleine d'odeurs, la radio, et eux en dedans.
J'y allais tout le temps car j'aimais les entendre parler. Surtout elle qui avait prit ce parler moitié espagnol, une langue ce n'est pas seulement des mots. Il y a l'accent. Il y a la musique. Il y a une tension différente. On l'appelait ainsi Titta en raison des fréquents diminutifs espagnols en tita ou en ita dont elle usait, « una preguntita, una cosita ». Lui, avec le temps, fut paralysé des jambes. Il restait toute la journée assis devant la table, à se prendre le bec avec elle qui devait tout faire, laver, préparer à manger, faire les courses, le mettre au lit.
Il buvait, lui, des quantités industrielles de Nesquick.
Il est mort en quatre-vingt cinq. Elle, le jour de Pâques de nonante. Deux ans auparavant, on lui avait fait quitter cette maison, au premier étage, avec une rampe d'escalier trop raide. On l'avait mise à San Piero dans un deux pièces communal. On sortait et on voyait un panorama à couper le souffle, le golfe de Campo, jusque Montecristo et la Corse dans les jours les plus limpides.
Quand elle est morte, on a découvert ses cahiers. Au crayon, moitié en un espagnol avec des fautes et moitié en un italien pire encore. Elle écrivait ses choses. De vieilles chansons qu'elle se rappelait de quand elle était enfant ou petite fille; il y en a même sur le naufrage du Sgarallino, le paquebot torpillé en 1943 par un sous-marin anglais devant Nisportino. Trois cents morts.
Elle n'avait pas cessé d'écrire durant les trente années passées en Argentine. Mon cousin qui est toujours à San Piero le possède. Il faudrait les lire tous. Je ne peux même pas imaginer tout ce qui peut y avoir dedans. Peut-être, qui sait, j'y suis moi aussi. Et dans tous les cas, j'y serais, même s'il n'y a pas même un mot à mon sujet.
Même cette maison-là sur la montée du Salandro avait une porte verte. On les peignait, ces portes-là, d'une peinture à bois très épaisse, qui à un certain point se détachait en gros morceaux. De temps en temps, il fallait les repeindre, tout derechef. Il est probable qu'ils en sortirent et qu'un jour, ils y rentrèrent. Ainsi, dirait-on, cela va-t-il toujours.
Marco Valdo M.I. - 3/2/2009 - 18:29
Un très grand merci, Marco Valdo, pour avoir traduit si bien ce que j'ai écrit sur l'histoire de mes oncles. Je crois bien que c'est le plus beau cadeau que tu puisses faire non seulement à moi, mais aussi à leur vie et à l'histoire de tant de personnes qui ont dû abandonner leurs hameaux pour aller s'installer loin, trop loin, en hommage à madame la Pauvreté.
Et si je dis que c'est un très beau cadeau, je le dis parce que je sais bien ce que c'est traduire. En plus, mon "italien" n'est point facile, plein à craquer de dialectismes et de tournures très particulières.
Moi aussi, alors, je vais te faire un petit cadeau. J'ai été à l'île d'Elbe en décembre. J'aime bien y aller dans la morte saison, car en hiver ça redevient vraiment une île, mon île, un morceau de terre en proie aux quatre vents et à la solitude. J'aime bien allumer la poêle à bois, faire un brin de causette avec ma mère et ma tante et aller me coucher dans ma vieille chambre, où il fait tellement froid qu'il faut me submerger sous une montagne de couvertes.
J'ai pris des photos. T'en voici deux, très étroitement liées à ce que j'ai écrit. La première, c'est ce qu'on voit du deux pièces communal de San Piero où ma tante est morte; l'île qu'on aperçoit très faiblement en haut à droite, c'est Montecristo, l'île d'Edmond Dantès. Marina di Campo, hélas, est devenue une ville; mais San Piero n'a presque rien changé, ce vieux village de tailleurs de pierre et d'anarchistes. Suis le lien, mon ami, si tu veux vraiment bien comprendre d'où je viens.
La deuxième, c'est la maison où ma tante habitait avec son mari. Merci encore, mon ami et camarade.
Et si je dis que c'est un très beau cadeau, je le dis parce que je sais bien ce que c'est traduire. En plus, mon "italien" n'est point facile, plein à craquer de dialectismes et de tournures très particulières.
Moi aussi, alors, je vais te faire un petit cadeau. J'ai été à l'île d'Elbe en décembre. J'aime bien y aller dans la morte saison, car en hiver ça redevient vraiment une île, mon île, un morceau de terre en proie aux quatre vents et à la solitude. J'aime bien allumer la poêle à bois, faire un brin de causette avec ma mère et ma tante et aller me coucher dans ma vieille chambre, où il fait tellement froid qu'il faut me submerger sous une montagne de couvertes.
J'ai pris des photos. T'en voici deux, très étroitement liées à ce que j'ai écrit. La première, c'est ce qu'on voit du deux pièces communal de San Piero où ma tante est morte; l'île qu'on aperçoit très faiblement en haut à droite, c'est Montecristo, l'île d'Edmond Dantès. Marina di Campo, hélas, est devenue une ville; mais San Piero n'a presque rien changé, ce vieux village de tailleurs de pierre et d'anarchistes. Suis le lien, mon ami, si tu veux vraiment bien comprendre d'où je viens.
La deuxième, c'est la maison où ma tante habitait avec son mari. Merci encore, mon ami et camarade.
Riccardo Venturi - 4/2/2009 - 03:06
Grazie per il link e per aver scelto una mia fotografia; come avrai percepito :) il Guccio è una grande passione...
Alfonso
http://www.alfonso76.com
Alfonso
http://www.alfonso76.com
Alfonso76 - 16/7/2009 - 23:41
Nerico-Merigo non andò in America per effettivo bisogno. (…)
Lui, figlio giovane, non sposato, un po’ socialista, un po’ insofferente, che non mandava giù il fatto di non poter adoperare il calessino del padre. Il calessino, non il brozzo o il carro, come un’auto sportiva: lite al coltello, con minaccia di diseredare, e invito a portarseli dietro al camposanto, il calessino e i soldi e le macine e il fiume e tutto. E via in America. (…)
Tracce d’America rimasero fino alla sua morte; non solo nella forza del tronco, acquisita in mina a spicconate, che avevano trasformato il ragazzino della prima foto in un uomo che alzava a due mani un sacco da un quintale di grano, ed era già verso i settanta (“pòra gioventù!”, disse a me che non ero capace).
Tracce leggere di un rasoio di sicurezza Gillette, scatole da sigari vuote, l’abitudine, smessa, di appoggiare i piedi sul tavolo dopo mangiato, la birra che si concedeva una volta l’anno, per Santa Filomena, quando andava in paese (io ce l’ho visto due volte). O frasi lapidarie, emissioni di giudizi, che dovevano ritornare per ragioni sconosciute ogni tanto, se me le ricordo: “A Pitsburg t’va’ fóra con al solĩ ch’le bianco, e t’atorni a ca’ ch’le nero” oppure: “Al Misisippi l’è n’fiumme tanto grando ch’an s’védde cl’altra parte”.
A volte uscivano fuori nomi certamente magici, Ilinoi, Tex, Senlui (a volte Sanluigi), mina, raif; a volte erano storie di birra, o di Tornados. Uno in particolare, una visione fissata come su lastra, di una strage di uccellini morti sotto ad un albero gigantesco, dopo un uragano, ma lui, lui indenne. Con un barilotto di birra, si era scavata una buca sotto la baracca, e lì, bevendo (e in pace, si pensa) era rimasto ad aspettare la fine dell’uragano. Tanto, si sa, i venti sono due, tramontana e vento ( a volte scirocco) e tanto danno non possono poi fare. E poi la birra era una birra speciale: “Da noi non la fanno. È birra fresca, apena fatta, come il vino che deve ancora riboglire, rossa, di colore, e quand’è fresca ne beresti, di quella birra!”
(Croniche Epafàniche – Francesco Guccini – Feltrinelli - 1989)
Lui, figlio giovane, non sposato, un po’ socialista, un po’ insofferente, che non mandava giù il fatto di non poter adoperare il calessino del padre. Il calessino, non il brozzo o il carro, come un’auto sportiva: lite al coltello, con minaccia di diseredare, e invito a portarseli dietro al camposanto, il calessino e i soldi e le macine e il fiume e tutto. E via in America. (…)
Tracce d’America rimasero fino alla sua morte; non solo nella forza del tronco, acquisita in mina a spicconate, che avevano trasformato il ragazzino della prima foto in un uomo che alzava a due mani un sacco da un quintale di grano, ed era già verso i settanta (“pòra gioventù!”, disse a me che non ero capace).
Tracce leggere di un rasoio di sicurezza Gillette, scatole da sigari vuote, l’abitudine, smessa, di appoggiare i piedi sul tavolo dopo mangiato, la birra che si concedeva una volta l’anno, per Santa Filomena, quando andava in paese (io ce l’ho visto due volte). O frasi lapidarie, emissioni di giudizi, che dovevano ritornare per ragioni sconosciute ogni tanto, se me le ricordo: “A Pitsburg t’va’ fóra con al solĩ ch’le bianco, e t’atorni a ca’ ch’le nero” oppure: “Al Misisippi l’è n’fiumme tanto grando ch’an s’védde cl’altra parte”.
A volte uscivano fuori nomi certamente magici, Ilinoi, Tex, Senlui (a volte Sanluigi), mina, raif; a volte erano storie di birra, o di Tornados. Uno in particolare, una visione fissata come su lastra, di una strage di uccellini morti sotto ad un albero gigantesco, dopo un uragano, ma lui, lui indenne. Con un barilotto di birra, si era scavata una buca sotto la baracca, e lì, bevendo (e in pace, si pensa) era rimasto ad aspettare la fine dell’uragano. Tanto, si sa, i venti sono due, tramontana e vento ( a volte scirocco) e tanto danno non possono poi fare. E poi la birra era una birra speciale: “Da noi non la fanno. È birra fresca, apena fatta, come il vino che deve ancora riboglire, rossa, di colore, e quand’è fresca ne beresti, di quella birra!”
(Croniche Epafàniche – Francesco Guccini – Feltrinelli - 1989)
E fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale mattina e sera...
Il Lago di Suviana, formato dal torrente Limentra Inferiore, sul quale si trova la centrale idroelettrica ENEL dove è avvenuta oggi (9 aprile 2024) l'esplosione, è collegato al Bacino di Pavana ed è quello ricordato e nominato da Francesco Guccini più volte nelle sue opere musicali e letterarie.
La diretta. Esplosione alla centrale elettrica Enel del bacino di Suviana: quattro morti, cinque feriti gravi e tre dispersi. Oggi era il giorno del collaudo di uno dei due gruppi di produzione
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Riccardo Venturi - 9/4/2024 - 20:47
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[1978]
Album: "Amerigo"
Testo di Francesco Guccini
Musica di Francesco Guccini e Juan Carlos "Flaco" Biondini
Lyrics by Francesco Guccini
Music by Francesco Guccini and Juan Carlos "Flaco" Biondini
Rimediamo con il consueto, abissale ritardo.
Sulla canzone c'è poco da dire, talmente è nota; sfidiamo tutte le frequentatrici e tutti i frequentatori del sito a dire se, almeno una volta nella loro vita, a partire dal 1978, non abbiano cantato, berciato, intonato, stonato o sussurrato ...la poRRRta veRRRRde con accento più o meno marcatamente gucciniano.
Diciamo soltanto che il sig. Amerigo Guccini, da Pàvana (PT), era davvero un parente di Guccini e la canzone racconta la sua storia, vera, e quella di migliaia di amerighi di ogni paese. Curiosamente, Amerigo aveva lo stesso nome dell'America; ma non era Amerigo Vespucci, non andava a esplorare nulla. Andava a lavorare in miniera, tra "negri, irlandesi, polacchi ed italiani". Una canzone che è una storia, una storia che Guccini ha raccontato anche nelle sue Croniche Epafàniche; una canzone che è sempre bene riproporre, specialmente pensando a quante Pàvane sono lasciate ora tra gli alberi di chissà quali montagne africane o asiatiche, a quanti Limentra vengono ricordati coi loro suoni continui ed ossessivi. [CCG/AWS Staff]