Nesini söyleyim canım efendim
Gayrı düzen tutmaz telimiz bizim
Arzuhal eylesem deftere sığmaz
Omuzdan kesilmiş kolumuz bizim
Sefil ireçberin tebdili şaştı
Borç kemalin buldu boynundan aştı
İntikal parası binleri geçti
Dahi doğrulamaz belimiz bizim
Ehl-i fukaranın yüzü soğuktur
Yıl perhizi tutmuş içi kovuktur
İneği davarı iki tavuktur
Bundan gayrı yoktur malımız bizim
Çok dilek diledim kabul olmadı
Şu yalan dünyada yüzüm gülmedi
Hiç kimseye emniyetim kalmadı
Açılmadan soldu gülümüz bizim
Şu yalan dünyada hoş olamadım
Borçludan bir kere baş alamadım
Şu küçük öküze eş bulamadım
Söylemeden aciz dilimiz bizim
Zenginin sözüne beli diyorlar
Fukara söylerse deli diyorlar
Zamane şeyhine veli diyorlar
Gittikçe çoğalır delimiz bizim
Fukara halını kimse sormuyor
Ehl-i diyanetin yüzü gülmüyor
Padişah sikkesi selam vermiyor
Kefensiz kalacak ölümüz bizim
Evlat da babanın sözün tutmuyor
Açım diye çift sürmeye gitmiyor
Uşaklar çoğaldı ekmek yetmiyor
Başımıza bela dölümüz bizim
Reçberin sanatı bir arpa tahıl
Havasın bulmazsa bitmiyor pahıl
Tecelli olmazsa neylesin akıl
Hep yokuşa sarar yolumuz bizim
Sekiz ay kışımız dört ay yazımız
Açlığından telef oldu bazımız
Kasım demeden buz tutar özümüz
Mayısta çözülür gölümüz bizim
Tahsildarlar çıkmış köyleri gezer
Elinde kamçısı fakiri ezer
Döşeği yorganı mezatta gezer
Hasırdan serilir çulumuz bizim
Zenginin yediği baklava börek
Kahvaltıda eder keteli çörek
Fukaraya sordum size ne gerek?
Düğürcük çorbası balımız bizim
Bir aşka geldik de biz bunu dedik
Üç yüz üç senesi bir sille yedik
Her nereye varsan sahipsiz gedik
Kime arz olacak halımız bizim
Açlıktan benzimiz sarardı soldu
Ağlamaktan gözümüze kan doldu
Üç yüz üç senesi bir afet oldu
Dördü bir okkadır dolumuz bizim
Her daim doğrudur aşığın sözü
Kör olsun düşmanın görmesin gözü
Bir parça seyredi istibdat sözü
Geçer mi düşmandan kinimiz bizim
Açılmadı ikbâlimiz bahtımız
Şen olsun İstanbul pâyitahtımız
Tevellüt ellidir geçti vaktimiz
Nöbetin gözlüyor salımız bizim
Serdarî halimiz böyle n’olacak
Kısa çöp uzundan hakkın alacak
Mamurlar yıkılıp viran olacak
Akibet dağılır ilimiz bizim.
Gayrı düzen tutmaz telimiz bizim
Arzuhal eylesem deftere sığmaz
Omuzdan kesilmiş kolumuz bizim
Sefil ireçberin tebdili şaştı
Borç kemalin buldu boynundan aştı
İntikal parası binleri geçti
Dahi doğrulamaz belimiz bizim
Ehl-i fukaranın yüzü soğuktur
Yıl perhizi tutmuş içi kovuktur
İneği davarı iki tavuktur
Bundan gayrı yoktur malımız bizim
Çok dilek diledim kabul olmadı
Şu yalan dünyada yüzüm gülmedi
Hiç kimseye emniyetim kalmadı
Açılmadan soldu gülümüz bizim
Şu yalan dünyada hoş olamadım
Borçludan bir kere baş alamadım
Şu küçük öküze eş bulamadım
Söylemeden aciz dilimiz bizim
Zenginin sözüne beli diyorlar
Fukara söylerse deli diyorlar
Zamane şeyhine veli diyorlar
Gittikçe çoğalır delimiz bizim
Fukara halını kimse sormuyor
Ehl-i diyanetin yüzü gülmüyor
Padişah sikkesi selam vermiyor
Kefensiz kalacak ölümüz bizim
Evlat da babanın sözün tutmuyor
Açım diye çift sürmeye gitmiyor
Uşaklar çoğaldı ekmek yetmiyor
Başımıza bela dölümüz bizim
Reçberin sanatı bir arpa tahıl
Havasın bulmazsa bitmiyor pahıl
Tecelli olmazsa neylesin akıl
Hep yokuşa sarar yolumuz bizim
Sekiz ay kışımız dört ay yazımız
Açlığından telef oldu bazımız
Kasım demeden buz tutar özümüz
Mayısta çözülür gölümüz bizim
Tahsildarlar çıkmış köyleri gezer
Elinde kamçısı fakiri ezer
Döşeği yorganı mezatta gezer
Hasırdan serilir çulumuz bizim
Zenginin yediği baklava börek
Kahvaltıda eder keteli çörek
Fukaraya sordum size ne gerek?
Düğürcük çorbası balımız bizim
Bir aşka geldik de biz bunu dedik
Üç yüz üç senesi bir sille yedik
Her nereye varsan sahipsiz gedik
Kime arz olacak halımız bizim
Açlıktan benzimiz sarardı soldu
Ağlamaktan gözümüze kan doldu
Üç yüz üç senesi bir afet oldu
Dördü bir okkadır dolumuz bizim
Her daim doğrudur aşığın sözü
Kör olsun düşmanın görmesin gözü
Bir parça seyredi istibdat sözü
Geçer mi düşmandan kinimiz bizim
Açılmadı ikbâlimiz bahtımız
Şen olsun İstanbul pâyitahtımız
Tevellüt ellidir geçti vaktimiz
Nöbetin gözlüyor salımız bizim
Serdarî halimiz böyle n’olacak
Kısa çöp uzundan hakkın alacak
Mamurlar yıkılıp viran olacak
Akibet dağılır ilimiz bizim.
inviata da Riccardo Venturi - 18/3/2024 - 04:04
Lingua: Italiano
Traduzione italiana / Italian translation / Traduction italienne / Italiankielinen käännös:
Riccardo Venturi, 18-3-2024 04:18
Riccardo Venturi, 18-3-2024 04:18
Che cosa dovrei dirvi, mio caro signore?
Che cosa dovrei dirvi, mio caro signore?
La nostra è una strada che non è mai diritta.
Neanche un libro basterebbe per descrivere tutto,
Un braccio, il nostro, è stato tagliato dalla spalla.
La nostra miseria è andata fuori strada,
I debiti ci sono passati sul collo.
Il denaro per la pensione non arriva a mille lire,
La nostra vita non può raddirizzarsi.
Il volto della povera gente è freddo,
Digiuna da oltre un anno e le sue viscere sono vuote.
La sua mucca e il suo bestiame sono due galline,
Non abbiamo altro che questo.
Ho espresso tanti desideri ma non sono stati esauditi,
Non potevo sorridere in questo mondo falso.
Non ho più fiducia in nessuno,
La nostra rosa è appassita prima di sbocciare.
Non potrei essere felice in questo mondo falso,
Il debitore non mi ha aiutato nemmeno una volta.
Non ho potuto trovare una compagna a quel piccolo bue,
La nostra lingua non è in grado di parlare.
La parola del ricco è verità assoluta,
Se lo racconta il povero, lo chiamano pazzo.
Lo sceicco di turno ci fa da guardiano,
Ogni giorno che passa diventiamo sempre più folli.
Nessuno si interroga sulla situazione dei poveri,
Neppure ai religiosi gliene importa un fico.
La moneta del sultano non apporta alcun bene,
La nostra morte non la piangerà nessuno.
Figlio, le parole di tuo padre non hanno valore,
Tuo padre ha fame e non può andare a arare.
Il numero dei servi è aumentato e il pane non basta più,
I problemi sono il nostro seme.
Un solo chicco d’orzo ci serve da ricetta,
Se non ti senti di farcela, sei finito.
La mente cosa può fare se non ragiona?
Il nostro cammino è sempre in salita.
Otto mesi d'inverno, quattro mesi d'estate
Alcuni di noi sono già morti di fame.
La nostra vita congela prima di novembre
Il nostro lago si scioglierà a maggio.
I collettori di tasse escono e visitano i villaggi,
Schiacciano i poveri con la frusta in mano.
I nostri materassi e i nostri letti sono all'asta,
Al nostro pagliericcio hanno tolto anche la paglia.
I ricchi mangiano börek e baklavà, [1]
Per colazione hanno panini ai semi di lino.
Ho chiesto al povero: Di che cosa hai bisogno?
Noialtri non mangiamo altro che brodaglia.
Ci siamo innamorati e lo abbiamo detto,
Abbiamo penato per trecentotré anni [2].
Ovunque tu vada, rimani sempre solo,
E chi si prenderà il nostro tappeto?
Siamo impalliditi dalla fame
I nostri occhi si riempirono di sangue dal pianto.
Per trecentotré anni è stato tutto un disastro,
Oramai ci restan quattro ocche [3] piene.
Le parole del saggio sono sempre vere,
Il nemico deve restare cieco e non vedere.
Per un bel pezzo ho visto solo dispotismo,
Il nostro rancore sarà riversato sul nemico?
Fortuna e sfortuna sono un capitolo chiuso.
Felice Istanbul, la nostra capitale!
Ormai ho cinquant’anni, il mio tempo è passato,
Batte l’orologio, la zattera del tempo.
Che ne sarà di Serdarî, in questo modo?
La canna corta avrà il dovuto da quella lunga. [4]
Gli edifici costruiti saranno distrutti e devastati,
La nostra città prima o poi cadrà a pezzi.
Che cosa dovrei dirvi, mio caro signore?
La nostra è una strada che non è mai diritta.
Neanche un libro basterebbe per descrivere tutto,
Un braccio, il nostro, è stato tagliato dalla spalla.
La nostra miseria è andata fuori strada,
I debiti ci sono passati sul collo.
Il denaro per la pensione non arriva a mille lire,
La nostra vita non può raddirizzarsi.
Il volto della povera gente è freddo,
Digiuna da oltre un anno e le sue viscere sono vuote.
La sua mucca e il suo bestiame sono due galline,
Non abbiamo altro che questo.
Ho espresso tanti desideri ma non sono stati esauditi,
Non potevo sorridere in questo mondo falso.
Non ho più fiducia in nessuno,
La nostra rosa è appassita prima di sbocciare.
Non potrei essere felice in questo mondo falso,
Il debitore non mi ha aiutato nemmeno una volta.
Non ho potuto trovare una compagna a quel piccolo bue,
La nostra lingua non è in grado di parlare.
La parola del ricco è verità assoluta,
Se lo racconta il povero, lo chiamano pazzo.
Lo sceicco di turno ci fa da guardiano,
Ogni giorno che passa diventiamo sempre più folli.
Nessuno si interroga sulla situazione dei poveri,
Neppure ai religiosi gliene importa un fico.
La moneta del sultano non apporta alcun bene,
La nostra morte non la piangerà nessuno.
Figlio, le parole di tuo padre non hanno valore,
Tuo padre ha fame e non può andare a arare.
Il numero dei servi è aumentato e il pane non basta più,
I problemi sono il nostro seme.
Un solo chicco d’orzo ci serve da ricetta,
Se non ti senti di farcela, sei finito.
La mente cosa può fare se non ragiona?
Il nostro cammino è sempre in salita.
Otto mesi d'inverno, quattro mesi d'estate
Alcuni di noi sono già morti di fame.
La nostra vita congela prima di novembre
Il nostro lago si scioglierà a maggio.
I collettori di tasse escono e visitano i villaggi,
Schiacciano i poveri con la frusta in mano.
I nostri materassi e i nostri letti sono all'asta,
Al nostro pagliericcio hanno tolto anche la paglia.
I ricchi mangiano börek e baklavà, [1]
Per colazione hanno panini ai semi di lino.
Ho chiesto al povero: Di che cosa hai bisogno?
Noialtri non mangiamo altro che brodaglia.
Ci siamo innamorati e lo abbiamo detto,
Abbiamo penato per trecentotré anni [2].
Ovunque tu vada, rimani sempre solo,
E chi si prenderà il nostro tappeto?
Siamo impalliditi dalla fame
I nostri occhi si riempirono di sangue dal pianto.
Per trecentotré anni è stato tutto un disastro,
Oramai ci restan quattro ocche [3] piene.
Le parole del saggio sono sempre vere,
Il nemico deve restare cieco e non vedere.
Per un bel pezzo ho visto solo dispotismo,
Il nostro rancore sarà riversato sul nemico?
Fortuna e sfortuna sono un capitolo chiuso.
Felice Istanbul, la nostra capitale!
Ormai ho cinquant’anni, il mio tempo è passato,
Batte l’orologio, la zattera del tempo.
Che ne sarà di Serdarî, in questo modo?
La canna corta avrà il dovuto da quella lunga. [4]
Gli edifici costruiti saranno distrutti e devastati,
La nostra città prima o poi cadrà a pezzi.
[1] Il börek è la popolarissima torta salata arrotolata, diffusa in tutti i Balcani e ripiena perlopiù di formaggio. Il baklava è invece l’altrettanto popolare (e dolcissimo) dessert a base di zucchero, miele e frutta secca.
[2] Modo di dire turco: “da 303 anni” significa “da tempo immemorabile”.
[3] L’occa (in turco: okka, in greco: οκά era una misura di capacità per liquidi e aridi, corrispondente circa a 1,250 litri (ma la sua esatta misura variava nelle diverse zone sottoposte all’Impero Ottomano).
[4] Cioè: “La pagheranno cara”.
[2] Modo di dire turco: “da 303 anni” significa “da tempo immemorabile”.
[3] L’occa (in turco: okka, in greco: οκά era una misura di capacità per liquidi e aridi, corrispondente circa a 1,250 litri (ma la sua esatta misura variava nelle diverse zone sottoposte all’Impero Ottomano).
[4] Cioè: “La pagheranno cara”.
Lingua: Francese
Version française - QUE VOUS DIRE, CHER MONSIEUR ? – Marco Valdo M.I. - 2024
d’après la version italienne - Che cosa dovrei dirvi, mio caro signore? - de Riccardo Venturi - 2024
d’une chanson turque - Nesini söyleyim canim efendim - Âşık Serdarî – 1893
Et voici, pourrait-on dire, l'ancêtre des Protest Songs en langue turque. Écrit au tournant des XIXe et XXe siècles par Âşık Serdarî (1833-1918) ; en effet, puisque dans le texte le poète dit qu'il a la cinquantaine, il devrait dater des environs de 1893. Il s'agit d'une chanson de protestation qui est à la fois un compte rendu et un bilan de sa propre vie misérable, une dénonciation de la condition des pauvres dans l'Empire ottoman en ruine de l'époque et une prédiction de malheurs et de bouleversements pour la Turquie. Ce n'est pas rien, n'est-ce pas ? Mais qui était au juste Âşık Serdarî ? [R.V.]
d’après la version italienne - Che cosa dovrei dirvi, mio caro signore? - de Riccardo Venturi - 2024
d’une chanson turque - Nesini söyleyim canim efendim - Âşık Serdarî – 1893
Et voici, pourrait-on dire, l'ancêtre des Protest Songs en langue turque. Écrit au tournant des XIXe et XXe siècles par Âşık Serdarî (1833-1918) ; en effet, puisque dans le texte le poète dit qu'il a la cinquantaine, il devrait dater des environs de 1893. Il s'agit d'une chanson de protestation qui est à la fois un compte rendu et un bilan de sa propre vie misérable, une dénonciation de la condition des pauvres dans l'Empire ottoman en ruine de l'époque et une prédiction de malheurs et de bouleversements pour la Turquie. Ce n'est pas rien, n'est-ce pas ? Mais qui était au juste Âşık Serdarî ? [R.V.]
QUE VOUS DIRE, CHER MONSIEUR ?
Que vous dire, cher monsieur ?
Nos routes ne vont pas tout droit ;
Pour tout dire, un livre n’y suffirait pas ;
Au coude, mon bras est coupé en deux.
Notre misère est un bateau ivre ;
Les dettes sont devenues un fardeau ;
Notre retraite n'atteint pas mille livres ;
Notre vie ne peut tenir la tête hors de l’eau.
Le visage du pauvre est froid,
Depuis plus d'un an, jeûne et ventre creux.
Du troupeau, il reste deux
Poules. C'est tout ce qu’on a.
Tant de volontés, jamais exaucées ;
En ce monde faux, je n’ai jamais souri.
Ma confiance à jamais s’en est allée,
Rose fanée avant d’avoir fleuri.
En ce faux monde, je ne pouvais être heureux.
Le débiteur, pas une seule fois ne m'a aidé ;
Sans compagne, mon petit veau est malheureux.
Notre langue n'est pas capable de parler.
La parole du riche est absolue vérité,
Celle du pauvre ne vaut pas un clou.
Le cheikh aujourd’hui est l’Autorité,
Chaque jour, la folie s’étend en nous.
Le sort des pauvres n’intéresse personne,
Les religieux ne s'en préoccupent pas.
La monnaie du sultan ne nous sauve pas,
Notre mort ne sera pleurée par personne.
Pour le fils, les paroles du père ne tiennent plus.
La faim d’aller labourer le retient
Et les nouveaux régisseurs et le pain ne suffit plus,
Que sera la semence demain ?
Un seul grain d'orge sert de plat,
Pas le faire, c'est la descente.
Que peut l'esprit, s'il ne raisonne pas ?
Notre chemin est toujours en pente.
Huit mois d'hiver, quatre mois d'été :
La faim a tué déjà.
Avant novembre, notre sol est gelé ;
En mai, notre lac dégèlera.
Les exacteurs ratissent les villages,
Écrasent les pauvres, le fouet à la main ;
Vendent nos paillasses et nos couchages,
Prennent toute la paille avec le grain.
Les riches mangent des baklavas et des pâtisseries
Au petit-déjeuner, des beignets aux graines de lin.
J'ai demandé aux pauvres : "De quoi avez-vous besoin ? »
Ils ont dit : « Nous, on n’aime que la bouillie. »
Nous étions amoureux et nous l'avons dit,
Depuis trois cent trois ans, on languit.
Où que tu ailles, seul toujours tu seras,
Et qui donc de notre tapis héritera ?
De faim, notre peau a pâli
De sang, nos yeux se sont remplis.
Depuis trois cent trois ans, tout est décrépi,
Il ne nous reste plus que quatre épis.
Les mots du sage ont été dits :
Aveugle doit rester l'ennemi.
Depuis longtemps, le despotisme règne ici,
Notre rancœur pourra-t-elle étouffer l'ennemi ?
Le destin n’a pas été libéré ;
Qu’heureuse soit Istanbul, notre capitale !
J'ai cinquante ans, mon temps est passé,
L'horloge bat l’heure fatale.
Monsieur, que deviendrons-nous ainsi ?
Le roseau court prendra du roseau long.
Tout le bâti sera dévasté et détruit,
En ruines, nos maisons, notre ville tomberont.
Que vous dire, cher monsieur ?
Nos routes ne vont pas tout droit ;
Pour tout dire, un livre n’y suffirait pas ;
Au coude, mon bras est coupé en deux.
Notre misère est un bateau ivre ;
Les dettes sont devenues un fardeau ;
Notre retraite n'atteint pas mille livres ;
Notre vie ne peut tenir la tête hors de l’eau.
Le visage du pauvre est froid,
Depuis plus d'un an, jeûne et ventre creux.
Du troupeau, il reste deux
Poules. C'est tout ce qu’on a.
Tant de volontés, jamais exaucées ;
En ce monde faux, je n’ai jamais souri.
Ma confiance à jamais s’en est allée,
Rose fanée avant d’avoir fleuri.
En ce faux monde, je ne pouvais être heureux.
Le débiteur, pas une seule fois ne m'a aidé ;
Sans compagne, mon petit veau est malheureux.
Notre langue n'est pas capable de parler.
La parole du riche est absolue vérité,
Celle du pauvre ne vaut pas un clou.
Le cheikh aujourd’hui est l’Autorité,
Chaque jour, la folie s’étend en nous.
Le sort des pauvres n’intéresse personne,
Les religieux ne s'en préoccupent pas.
La monnaie du sultan ne nous sauve pas,
Notre mort ne sera pleurée par personne.
Pour le fils, les paroles du père ne tiennent plus.
La faim d’aller labourer le retient
Et les nouveaux régisseurs et le pain ne suffit plus,
Que sera la semence demain ?
Un seul grain d'orge sert de plat,
Pas le faire, c'est la descente.
Que peut l'esprit, s'il ne raisonne pas ?
Notre chemin est toujours en pente.
Huit mois d'hiver, quatre mois d'été :
La faim a tué déjà.
Avant novembre, notre sol est gelé ;
En mai, notre lac dégèlera.
Les exacteurs ratissent les villages,
Écrasent les pauvres, le fouet à la main ;
Vendent nos paillasses et nos couchages,
Prennent toute la paille avec le grain.
Les riches mangent des baklavas et des pâtisseries
Au petit-déjeuner, des beignets aux graines de lin.
J'ai demandé aux pauvres : "De quoi avez-vous besoin ? »
Ils ont dit : « Nous, on n’aime que la bouillie. »
Nous étions amoureux et nous l'avons dit,
Depuis trois cent trois ans, on languit.
Où que tu ailles, seul toujours tu seras,
Et qui donc de notre tapis héritera ?
De faim, notre peau a pâli
De sang, nos yeux se sont remplis.
Depuis trois cent trois ans, tout est décrépi,
Il ne nous reste plus que quatre épis.
Les mots du sage ont été dits :
Aveugle doit rester l'ennemi.
Depuis longtemps, le despotisme règne ici,
Notre rancœur pourra-t-elle étouffer l'ennemi ?
Le destin n’a pas été libéré ;
Qu’heureuse soit Istanbul, notre capitale !
J'ai cinquante ans, mon temps est passé,
L'horloge bat l’heure fatale.
Monsieur, que deviendrons-nous ainsi ?
Le roseau court prendra du roseau long.
Tout le bâti sera dévasté et détruit,
En ruines, nos maisons, notre ville tomberont.
inviata da Marco Valdo M.I. - 18/3/2024 - 15:58
Lingua: Turco
La versione interpretata da Fuat Saka
Version performed by Fuat Saka
Version exécutée par Fuat Saka
Fuat Sakan laulava versio
Fuat Saka - Turan Vurgun (kanun)
In tutte queste cose turche, ecco finalmente la versione (abbreviata e modificata) cantata da Fuat Saka (nel video sopra in un’ancor più suggestiva interpretazione, accompagnato al kanun -e parzialmente anche al canto- da un altro “mostro sacro”, Turan Vurgun). E’ da questa versione che alcune strofe sono “migrate” in Κόκκινη βροχή.
Non è probabilmente affatto un caso che il canto di Serdarî sia stato “adottato” da Fuat Saka. Nativo di Trebisonda (Trabzon), dove è nato nel 1952, è un cantante, folklorista e polistrumentista di grande spessore e di altrettanto grande impegno. Impegno che lo ha portato in esilio dal suo paese dopo il colpo di stato militare del 1980; è tornato in Turchia solo nel 1998. E’ stato fondatore e animatore del Fuat Saka International Group, composto da musicisti tedeschi, americani, georgiani e azeri (da parte di madre, è di discendenza georgiana). A partire dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso ha collaborato spesso con artisti greci; tra di essi, Maria Farandouri e Dionysios Savvopoulos.
Version performed by Fuat Saka
Version exécutée par Fuat Saka
Fuat Sakan laulava versio
Fuat Saka - Turan Vurgun (kanun)
In tutte queste cose turche, ecco finalmente la versione (abbreviata e modificata) cantata da Fuat Saka (nel video sopra in un’ancor più suggestiva interpretazione, accompagnato al kanun -e parzialmente anche al canto- da un altro “mostro sacro”, Turan Vurgun). E’ da questa versione che alcune strofe sono “migrate” in Κόκκινη βροχή.
Non è probabilmente affatto un caso che il canto di Serdarî sia stato “adottato” da Fuat Saka. Nativo di Trebisonda (Trabzon), dove è nato nel 1952, è un cantante, folklorista e polistrumentista di grande spessore e di altrettanto grande impegno. Impegno che lo ha portato in esilio dal suo paese dopo il colpo di stato militare del 1980; è tornato in Turchia solo nel 1998. E’ stato fondatore e animatore del Fuat Saka International Group, composto da musicisti tedeschi, americani, georgiani e azeri (da parte di madre, è di discendenza georgiana). A partire dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso ha collaborato spesso con artisti greci; tra di essi, Maria Farandouri e Dionysios Savvopoulos.
Nesini söyleyim
Nesini söyleyim canım efendim
Nesini söyleyim canım efendim
Gayrı düzen tutmaz telimiz bizim,
O, telimiz bizim.
Arzuhal eylesem, ey dost, deftere sığmaz
Omuzdan kesilmiş kolumuz bizim
Arzuhal eylesem, ey dost, deftere sığmaz
Omuzdan kesilmiş kolumuz bizim .
Benim bu gidişe aklım ermiyor
Benim bu gidişe aklım ermiyor
Fukara halinden kimse birmiyor,
O, kimse sormuyor.
Devletim sikkesi, ey dost, kelam vermiyor
Kefensiz kalacak ölümüz bizim
Devletim sikkesi, ey dost, kelam vermiyor
Kefensiz kalacak ölümüz bizim .
Serdarî halimiz böyle n’olacak
Serdarî halimiz böyle n’olacak
Kısa çöp uzundan hakkın alacak ,
O, hakkın alacak.
Mamurlar yıkılıp, ey dost, viran olacak
Akibet dağılır ilimiz bizim
Mamurlar yıkılıp, ey dost, viran olacak
Akibet dağılır ilimiz bizim.
Nesini söyleyim canım efendim
Nesini söyleyim canım efendim
Gayrı düzen tutmaz telimiz bizim,
O, telimiz bizim.
Arzuhal eylesem, ey dost, deftere sığmaz
Omuzdan kesilmiş kolumuz bizim
Arzuhal eylesem, ey dost, deftere sığmaz
Omuzdan kesilmiş kolumuz bizim .
Benim bu gidişe aklım ermiyor
Benim bu gidişe aklım ermiyor
Fukara halinden kimse birmiyor,
O, kimse sormuyor.
Devletim sikkesi, ey dost, kelam vermiyor
Kefensiz kalacak ölümüz bizim
Devletim sikkesi, ey dost, kelam vermiyor
Kefensiz kalacak ölümüz bizim .
Serdarî halimiz böyle n’olacak
Serdarî halimiz böyle n’olacak
Kısa çöp uzundan hakkın alacak ,
O, hakkın alacak.
Mamurlar yıkılıp, ey dost, viran olacak
Akibet dağılır ilimiz bizim
Mamurlar yıkılıp, ey dost, viran olacak
Akibet dağılır ilimiz bizim.
inviata da Riccardo Venturi - 18/3/2024 - 20:08
Lingua: Italiano
Traduzione italiana della versione cantata da Fuat Saka
Italian translation of the version sung by Fuat Saka
Traduction italienne de la version chantée par Fuat Saka
Fuat Sakan laulavan version italiankielinen käännös:
Riccardo Venturi, 18-3-2024 20:45
Italian translation of the version sung by Fuat Saka
Traduction italienne de la version chantée par Fuat Saka
Fuat Sakan laulavan version italiankielinen käännös:
Riccardo Venturi, 18-3-2024 20:45
Che cosa posso dirvi?
Che cosa posso dirvi, mio caro signore?
Che cosa posso dirvi, mio caro signore?
La nostra strada non mena mai a diritto,
Oh, mai a diritto.
Non basterebbe un libro intero per parlarne,
Ci abbiamo un braccio amputato dalla spalla
Non basterebbe un libro intero per parlarne,
Ci abbiamo un braccio amputato dalla spalla.
Non riesco a capire questa situazione
Non riesco a capire questa situazione
Nessuno sa davvero quanto è povero
E neppure se lo chiede.
La moneta di stato, amico, non promette nulla di buono,
Nessuno piangerà la nostra morte
La moneta di stato, amico, non promette nulla di buono,
Nessuno piangerà la nostra morte.
Che mai ne sarà di Serdarî, a questo modo?
Che mai ne sarà di Serdarî, a questo modo?
La canna corta avrà quanto merita da quella lunga,
Quanto merita da quella lunga.
Gli edifici, amico, saranno distrutti e devastati,
La nostra città cadrà in pezzi e andrà in rovina
Gli edifici, amico, saranno distrutti e devastati,
La nostra città cadrà in pezzi e andrà in rovina.
Che cosa posso dirvi, mio caro signore?
Che cosa posso dirvi, mio caro signore?
La nostra strada non mena mai a diritto,
Oh, mai a diritto.
Non basterebbe un libro intero per parlarne,
Ci abbiamo un braccio amputato dalla spalla
Non basterebbe un libro intero per parlarne,
Ci abbiamo un braccio amputato dalla spalla.
Non riesco a capire questa situazione
Non riesco a capire questa situazione
Nessuno sa davvero quanto è povero
E neppure se lo chiede.
La moneta di stato, amico, non promette nulla di buono,
Nessuno piangerà la nostra morte
La moneta di stato, amico, non promette nulla di buono,
Nessuno piangerà la nostra morte.
Che mai ne sarà di Serdarî, a questo modo?
Che mai ne sarà di Serdarî, a questo modo?
La canna corta avrà quanto merita da quella lunga,
Quanto merita da quella lunga.
Gli edifici, amico, saranno distrutti e devastati,
La nostra città cadrà in pezzi e andrà in rovina
Gli edifici, amico, saranno distrutti e devastati,
La nostra città cadrà in pezzi e andrà in rovina.
Lingua: Francese
Version française - QUE VOUS DIRE, CHER MONSIEUR ? – Marco Valdo M.I. - 2024
d’après la version italienne - Che cosa dovrei dirvi ? - de Riccardo Venturi - 2024
d’une chanson turque - Nesini söyleyim canim efendim - Âşık Serdarî – 1893
Le vrai nom du poète était Âşık Hacı. Il est né en 1833, dans une famille très pauvre du district de Kayalıyokuş de Şarkışla au centre de l’Anatolie en Turquie. Dans son très jeune âge, il tombe d'un âne, se casse le bras et, la blessure ne cicatrisant pas, il fut amputé d’un bras en raison de gangrène. Pour cette raison, on l'a appelé Çolak Hacı, c'est-à-dire "Hacı sans bras". Son "nom de scène", Serdarî, signifie "fils d'un chef militaire ou d'un général" ; on ne sait pas pourquoi il l'a choisi ni pourquoi il lui fut attribué. Il a eu une vie mouvementée, malgré une pauvreté constante ; pour vivre, il fut ouvrier agricole, mais il était aussi un grand chasseur et aimait beaucoup les femmes. Tombé amoureux de la fille du juge de Şarkışla, une fille d'une condition sociale très différente de la sienne, il entendit l'épouser, mais il se heurta à un refus catégorique de son père à elle. Donc, il l’a enlevée, mais peu après, il fut capturé et emprisonné.
Durant son enfance et son adolescence, Âşık Hacı Serdarî a perdu ses deux parents et se retrouva à l’orphelinat. La pauvreté et le chagrin l'ont mûri très tôt, et ses poèmes ne sont pas le fruit de l'imagination ou de l'inspiration lyrique. Bien que complètement analphabète, il composait ses poèmes de mémoire et les récitait, exprimant avec talent les événements de son époque. Il mourut en 1922 dans la pauvreté totale, comme il avait toujours vécu, après une longue vie de souffrances.
Étant totalement analphabète, Âşık Serdarî n'a jamais pu rassembler ses poèmes dans un livre. Il les récitait souvent en improvisant, comme le font les poètes populaires de tous les lieux et de toutes les époques (pensez à nos Ottavisti toscans in rima...), et beaucoup ont été oubliés en même temps que lui. Bien des années plus tard, dans des conditions très difficiles, Kadri Özyalçın et Kemal Gürpınar en ont compilé quelques-uns dans un petit livre intitulé Şarkışlalı Serdarî. Il a fallu attendre 1979 pour qu'une deuxième collection plus importante, celle d'Ahmet Özdemir, soit publiée par l'association Şarkışlalılar Solidarité et Solidarité ŞAR DER. La compilation a été élargie en 1997 et publiée sous le titre "Şarkışlalı Aşık Serdarî et les poètes folkloriques locaux".
Les poèmes d'Aşık Serdarî sont de tradition orale et sont composés en turc populaire avec une base entièrement turque, bien loin du "turc ottoman" (Osmanlı) officiel et de cour, un méli-mélo raffiné et inextricable de turc, d'arabe et de persan, totalement incompréhensible pour les non-initiés. C'est précisément sur la base du turc populaire qu'avec la chute de l'Empire ottoman et la révolution de Kemal Atatürk (et avec le travail décisif de philologues et de littéraires comme Ziya Gök Alp), la langue turque a été entièrement réformée et restructurée - entre autres, avec l'introduction obligatoire de l'alphabet latin. Les poèmes d'Aşık Serdarî ne sont pas seulement parfaits d'un point de vue formel, ils sont aussi - intrinsèquement - faits pour être chantés, presque toujours sur des mélodies d'origine inconnue. C'est ainsi que Nesini söyleyim reçut bientôt sa mélodie extraordinairement belle, celle par laquelle il est encore connu aujourd'hui.
Nesini söyleyim est d'abord la plus classique des lamentations du malheureux, une véritable complainte ; mais évidemment, il ne s'agit pas d'une sorte d'"exercice littéraire". Ce qui est raconté ici, c'est la vie d'épreuves de quelqu'un qui l'a vraiment vécue et qui continue à la vivre sans espoir. Ce qui distingue la poésie chantée d'Âşık Hacı Serdarî, c'est qu'elle n'en fait pas une composition exclusivement personnaliste et limitée à elle-même. Tout au contraire : elle est aussi et surtout une exposition et une dénonciation des problèmes sociaux qui tenaillaient les classes populaires dans la dernière période de l'Empire ottoman agonisant. Elle a un caractère général et collectif, pleinement conscient et abordant une situation générale terrible sur un ton résigné. Pour ce motif, je l'ai appelée la première chanson de protestation en turc, bien que ce ne soit probablement pas vrai et que des compositions de ce genre et de ce ton étaient déjà présentes dans les chansons populaires turques. Tout y est : les paysans dans la misère accablés par les impôts, la faim, les puis-je "religieux" à qui rien de tout ça importe, les énormes inégalités sociales, le despotisme et, en fin de compte, la prévision d'un monde en ruine.
Ainsi, sans doute, parmi les compositions d'Âşık Serdarî, celle-ci est devenue la plus célèbre, probablement avec l'apport de sa mélodie d'origine inconnue. Elle est devenue une chanson populaire à part entière, dont le souvenir de l'auteur se serait perdu si quelqu'un n'en avait pas transcrit les paroles. Ainsi, comme c'est toujours le cas, elle a subi le traitement de toute chanson populaire : tout d'abord, elle a été raccourcie, à tel point qu’actuellement seules quelques strophes sont chantées, de surcroît avec différentes variantes textuelles. Dans le texte abrégé, le récit apparaît résolument édulcoré; c'est le cas, précisément, de la version de Fuat Saka, qui a également été utilisée entrecoupée de vers en grec dans Κόκκινη βροχή. Mais d'autres artistes la chantent aussi régulièrement dans des versions abrégées.
En guise de conclusion, en bouclant la boucle et en revenant par le même chemin que les chansons à la chanson grecque, avec la traduction (en plusieurs endroits assez "libre") que j'ai faite - une traduction, pourrait-on dire, qui a duré quatorze ans parce que j'ai d'abord dû apprendre suffisamment le turc...-, on a aussi vu pourquoi Farandouri a décidé de chanter la chanson en duo avec Fuat Saka. A première vue, il semblerait que, mélodie mise à part, le texte grec écrit par Magda Papadaki n'ait rien à voir avec le texte turc. Mais lisez-le bien : il s'agit d'un remake, d'une réécriture en somme, clairement inspirée du texte de la chanson originale. Elle part d'un point A, passe par un point B, qui est alors, en réalité, le point zéro, et revient au point A. Les chemins des chansons sont souvent circulaires. Ils sont comme certains amours qui font de longs détours et qui reviennent (pardonnez-moi de citer Antonello Venditti, mais je n'ai pas pu résister). [RV].
Ce n'est sans doute pas un hasard si le chant de Serdarî a été "adopté" par Fuat Saka. Originaire de Trebizond (Trabzon), où il est né en 1952, c’est un chanteur, folkloriste et multi-instrumentiste d'une grande profondeur et d'un engagement tout aussi important. Un engagement qui l'a conduit à s'exiler de son pays après le coup d'État militaire de 1980 ; il n'est revenu en Turquie qu'en 1998. Il est le fondateur et l'animateur du Fuat Saka International Group, composé de musiciens allemands, américains, géorgiens et azéris (du côté de sa mère, il est d'origine géorgienne). Depuis le milieu des années 80 du siècle dernier, il a souvent collaboré avec des artistes grecs, dont Maria Farandouri et Dionysios Savvopoulos.
d’après la version italienne - Che cosa dovrei dirvi ? - de Riccardo Venturi - 2024
d’une chanson turque - Nesini söyleyim canim efendim - Âşık Serdarî – 1893
Le vrai nom du poète était Âşık Hacı. Il est né en 1833, dans une famille très pauvre du district de Kayalıyokuş de Şarkışla au centre de l’Anatolie en Turquie. Dans son très jeune âge, il tombe d'un âne, se casse le bras et, la blessure ne cicatrisant pas, il fut amputé d’un bras en raison de gangrène. Pour cette raison, on l'a appelé Çolak Hacı, c'est-à-dire "Hacı sans bras". Son "nom de scène", Serdarî, signifie "fils d'un chef militaire ou d'un général" ; on ne sait pas pourquoi il l'a choisi ni pourquoi il lui fut attribué. Il a eu une vie mouvementée, malgré une pauvreté constante ; pour vivre, il fut ouvrier agricole, mais il était aussi un grand chasseur et aimait beaucoup les femmes. Tombé amoureux de la fille du juge de Şarkışla, une fille d'une condition sociale très différente de la sienne, il entendit l'épouser, mais il se heurta à un refus catégorique de son père à elle. Donc, il l’a enlevée, mais peu après, il fut capturé et emprisonné.
Durant son enfance et son adolescence, Âşık Hacı Serdarî a perdu ses deux parents et se retrouva à l’orphelinat. La pauvreté et le chagrin l'ont mûri très tôt, et ses poèmes ne sont pas le fruit de l'imagination ou de l'inspiration lyrique. Bien que complètement analphabète, il composait ses poèmes de mémoire et les récitait, exprimant avec talent les événements de son époque. Il mourut en 1922 dans la pauvreté totale, comme il avait toujours vécu, après une longue vie de souffrances.
Étant totalement analphabète, Âşık Serdarî n'a jamais pu rassembler ses poèmes dans un livre. Il les récitait souvent en improvisant, comme le font les poètes populaires de tous les lieux et de toutes les époques (pensez à nos Ottavisti toscans in rima...), et beaucoup ont été oubliés en même temps que lui. Bien des années plus tard, dans des conditions très difficiles, Kadri Özyalçın et Kemal Gürpınar en ont compilé quelques-uns dans un petit livre intitulé Şarkışlalı Serdarî. Il a fallu attendre 1979 pour qu'une deuxième collection plus importante, celle d'Ahmet Özdemir, soit publiée par l'association Şarkışlalılar Solidarité et Solidarité ŞAR DER. La compilation a été élargie en 1997 et publiée sous le titre "Şarkışlalı Aşık Serdarî et les poètes folkloriques locaux".
Les poèmes d'Aşık Serdarî sont de tradition orale et sont composés en turc populaire avec une base entièrement turque, bien loin du "turc ottoman" (Osmanlı) officiel et de cour, un méli-mélo raffiné et inextricable de turc, d'arabe et de persan, totalement incompréhensible pour les non-initiés. C'est précisément sur la base du turc populaire qu'avec la chute de l'Empire ottoman et la révolution de Kemal Atatürk (et avec le travail décisif de philologues et de littéraires comme Ziya Gök Alp), la langue turque a été entièrement réformée et restructurée - entre autres, avec l'introduction obligatoire de l'alphabet latin. Les poèmes d'Aşık Serdarî ne sont pas seulement parfaits d'un point de vue formel, ils sont aussi - intrinsèquement - faits pour être chantés, presque toujours sur des mélodies d'origine inconnue. C'est ainsi que Nesini söyleyim reçut bientôt sa mélodie extraordinairement belle, celle par laquelle il est encore connu aujourd'hui.
Nesini söyleyim est d'abord la plus classique des lamentations du malheureux, une véritable complainte ; mais évidemment, il ne s'agit pas d'une sorte d'"exercice littéraire". Ce qui est raconté ici, c'est la vie d'épreuves de quelqu'un qui l'a vraiment vécue et qui continue à la vivre sans espoir. Ce qui distingue la poésie chantée d'Âşık Hacı Serdarî, c'est qu'elle n'en fait pas une composition exclusivement personnaliste et limitée à elle-même. Tout au contraire : elle est aussi et surtout une exposition et une dénonciation des problèmes sociaux qui tenaillaient les classes populaires dans la dernière période de l'Empire ottoman agonisant. Elle a un caractère général et collectif, pleinement conscient et abordant une situation générale terrible sur un ton résigné. Pour ce motif, je l'ai appelée la première chanson de protestation en turc, bien que ce ne soit probablement pas vrai et que des compositions de ce genre et de ce ton étaient déjà présentes dans les chansons populaires turques. Tout y est : les paysans dans la misère accablés par les impôts, la faim, les puis-je "religieux" à qui rien de tout ça importe, les énormes inégalités sociales, le despotisme et, en fin de compte, la prévision d'un monde en ruine.
Ainsi, sans doute, parmi les compositions d'Âşık Serdarî, celle-ci est devenue la plus célèbre, probablement avec l'apport de sa mélodie d'origine inconnue. Elle est devenue une chanson populaire à part entière, dont le souvenir de l'auteur se serait perdu si quelqu'un n'en avait pas transcrit les paroles. Ainsi, comme c'est toujours le cas, elle a subi le traitement de toute chanson populaire : tout d'abord, elle a été raccourcie, à tel point qu’actuellement seules quelques strophes sont chantées, de surcroît avec différentes variantes textuelles. Dans le texte abrégé, le récit apparaît résolument édulcoré; c'est le cas, précisément, de la version de Fuat Saka, qui a également été utilisée entrecoupée de vers en grec dans Κόκκινη βροχή. Mais d'autres artistes la chantent aussi régulièrement dans des versions abrégées.
En guise de conclusion, en bouclant la boucle et en revenant par le même chemin que les chansons à la chanson grecque, avec la traduction (en plusieurs endroits assez "libre") que j'ai faite - une traduction, pourrait-on dire, qui a duré quatorze ans parce que j'ai d'abord dû apprendre suffisamment le turc...-, on a aussi vu pourquoi Farandouri a décidé de chanter la chanson en duo avec Fuat Saka. A première vue, il semblerait que, mélodie mise à part, le texte grec écrit par Magda Papadaki n'ait rien à voir avec le texte turc. Mais lisez-le bien : il s'agit d'un remake, d'une réécriture en somme, clairement inspirée du texte de la chanson originale. Elle part d'un point A, passe par un point B, qui est alors, en réalité, le point zéro, et revient au point A. Les chemins des chansons sont souvent circulaires. Ils sont comme certains amours qui font de longs détours et qui reviennent (pardonnez-moi de citer Antonello Venditti, mais je n'ai pas pu résister). [RV].
Ce n'est sans doute pas un hasard si le chant de Serdarî a été "adopté" par Fuat Saka. Originaire de Trebizond (Trabzon), où il est né en 1952, c’est un chanteur, folkloriste et multi-instrumentiste d'une grande profondeur et d'un engagement tout aussi important. Un engagement qui l'a conduit à s'exiler de son pays après le coup d'État militaire de 1980 ; il n'est revenu en Turquie qu'en 1998. Il est le fondateur et l'animateur du Fuat Saka International Group, composé de musiciens allemands, américains, géorgiens et azéris (du côté de sa mère, il est d'origine géorgienne). Depuis le milieu des années 80 du siècle dernier, il a souvent collaboré avec des artistes grecs, dont Maria Farandouri et Dionysios Savvopoulos.
Petit Dialogue maïeutique
D’une version à l’autre, Lucien l’âne mon ami, les mots changent, se mêlent et se démêlent. Pourtant, l’histoire, le récit, en gros, reste le même.
Oui, dit Lucien l’âne. Je vois ça tout le temps ; du moins, chaque fois que l’on parle ici d’une version française. Je vois aussi les versions qui conduisent à la version ; un vrai kaléidoscope. Le sens des mots d’une autre langue n’est jamais certain ; le sens des mots de notre langue lui-même n’est jamais certain. Le mot ne sait pas vraiment ce qu’il signifie et celui qui en use non plus.
C’est bien ça, Lucien l’âne mon ami, les mots sont insaisissables et d’autres mots, tout aussi insaisissables, incertains, indécis peuvent prendre leur place. Et pour ainsi dire, je ne sais pas comment font les autres, mais pour nous, la méthode est celle des trouvères, troubadours, aèdes, conteurs, poètes, chanteurs, etc. Ils entendaient un récit, ou parler d’un récit, ou évoquer un récit, proche ou lointain, et ils s’en allaient nourrir de ça leur répertoire. Mais comme on le sait, d’écho en écho, de copie en copie, le son se distort, l’image se brouille et un autre son, une autre image transparaissent.
Oui, dit Lucien l’âne, je sais cela et j’ai eu l’occasion de voir ces évolutions, ces distorsions depuis le temps que je t’entends et même avant. Et puis, il faut compter avec l’imagination, la distraction et avec l’œil et l’oreille de l’auteur de la version ; sans compter qu’il veut souvent y mettre du sien et que tout compte fait, il a bien le droit de le faire.
C’est à peu ça, Lucien l’âne mon ami. Il ne reste plus ici qu’à lire cette version en tenant compte de ces ajustements nécessaires. Et puis, toute nouvelle version est une nouvelle œuvre et elle veut être elle-même et qui pourrait lui reprocher de le vouloir ? Évidemment, la traduction, c’est autre chose ; en principe du moins, elle est transposition exacte, le miroir en quelque sorte, de l’original. D’expérience, je peux te garantir qu’il n’en est rien. Rien que pour se faire une idée, il suffit de choisir une chanson ici, dans les Chansons contre la Guerre, prendre l’originelle, la faire traduire par un traducteur automatique et comparer avec les versions présentes sur le site. Elles seront à coup sûr toutes différentes. Dans le fond, la traduction comme la version ont comme seule ambition de donner une idée de ce qui est dit par ailleurs.
Oh, dit Lucien l’âne, finalement, ça n’a pas grande importance, car à l’impossible, nul n’est tenu. Surtout si on admet qu’une version est une version et une traduction, une approximation aussi fidèle que possible. Brisons là et tissons le linceul de ce vieux monde imprécis, polyglotte, indistinct, embrouillé, indéfinissable et cacochyme.
Heureusement !
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
D’une version à l’autre, Lucien l’âne mon ami, les mots changent, se mêlent et se démêlent. Pourtant, l’histoire, le récit, en gros, reste le même.
Oui, dit Lucien l’âne. Je vois ça tout le temps ; du moins, chaque fois que l’on parle ici d’une version française. Je vois aussi les versions qui conduisent à la version ; un vrai kaléidoscope. Le sens des mots d’une autre langue n’est jamais certain ; le sens des mots de notre langue lui-même n’est jamais certain. Le mot ne sait pas vraiment ce qu’il signifie et celui qui en use non plus.
C’est bien ça, Lucien l’âne mon ami, les mots sont insaisissables et d’autres mots, tout aussi insaisissables, incertains, indécis peuvent prendre leur place. Et pour ainsi dire, je ne sais pas comment font les autres, mais pour nous, la méthode est celle des trouvères, troubadours, aèdes, conteurs, poètes, chanteurs, etc. Ils entendaient un récit, ou parler d’un récit, ou évoquer un récit, proche ou lointain, et ils s’en allaient nourrir de ça leur répertoire. Mais comme on le sait, d’écho en écho, de copie en copie, le son se distort, l’image se brouille et un autre son, une autre image transparaissent.
Oui, dit Lucien l’âne, je sais cela et j’ai eu l’occasion de voir ces évolutions, ces distorsions depuis le temps que je t’entends et même avant. Et puis, il faut compter avec l’imagination, la distraction et avec l’œil et l’oreille de l’auteur de la version ; sans compter qu’il veut souvent y mettre du sien et que tout compte fait, il a bien le droit de le faire.
C’est à peu ça, Lucien l’âne mon ami. Il ne reste plus ici qu’à lire cette version en tenant compte de ces ajustements nécessaires. Et puis, toute nouvelle version est une nouvelle œuvre et elle veut être elle-même et qui pourrait lui reprocher de le vouloir ? Évidemment, la traduction, c’est autre chose ; en principe du moins, elle est transposition exacte, le miroir en quelque sorte, de l’original. D’expérience, je peux te garantir qu’il n’en est rien. Rien que pour se faire une idée, il suffit de choisir une chanson ici, dans les Chansons contre la Guerre, prendre l’originelle, la faire traduire par un traducteur automatique et comparer avec les versions présentes sur le site. Elles seront à coup sûr toutes différentes. Dans le fond, la traduction comme la version ont comme seule ambition de donner une idée de ce qui est dit par ailleurs.
Oh, dit Lucien l’âne, finalement, ça n’a pas grande importance, car à l’impossible, nul n’est tenu. Surtout si on admet qu’une version est une version et une traduction, une approximation aussi fidèle que possible. Brisons là et tissons le linceul de ce vieux monde imprécis, polyglotte, indistinct, embrouillé, indéfinissable et cacochyme.
Heureusement !
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
QUE VOUS DIRE, CHER MONSIEUR ?
(VERSION INTERPRÉTÉE PAR FUAT SAKA)
Que vous dire, cher monsieur ?
Que vous dire, cher monsieur ?
Notre route n'est jamais droite,
Oh, non, jamais droite.
Pour en parler, un livre ne suffit pas,
Il nous manque un bras.
Pour en parler, un livre ne suffit pas,
Il nous manque un bras.
Je ne comprends pas,
Je ne comprends pas,
Le pauvre n’intéresse pas,
Personne ne se soucie de ça.
Ami, la parole de l’État ne vaut rien ;
Nos morts resteront sans linceul.
Ami, la parole de l’État ne vaut rien ;
Nos morts resteront sans linceul.
Serdarî, qu’adviendra-t-il de nous ?
Serdarî, qu’adviendra-t-il de nous ?
Le court au long prendra,
On nous prendra nos droits.
Ami, nos maisons ravagées, la ville ruinée,
Notre région finira par pourrir.
Ami, nos maisons ravagées, la ville ruinée,
Notre région finira par mourir.
(VERSION INTERPRÉTÉE PAR FUAT SAKA)
Que vous dire, cher monsieur ?
Que vous dire, cher monsieur ?
Notre route n'est jamais droite,
Oh, non, jamais droite.
Pour en parler, un livre ne suffit pas,
Il nous manque un bras.
Pour en parler, un livre ne suffit pas,
Il nous manque un bras.
Je ne comprends pas,
Je ne comprends pas,
Le pauvre n’intéresse pas,
Personne ne se soucie de ça.
Ami, la parole de l’État ne vaut rien ;
Nos morts resteront sans linceul.
Ami, la parole de l’État ne vaut rien ;
Nos morts resteront sans linceul.
Serdarî, qu’adviendra-t-il de nous ?
Serdarî, qu’adviendra-t-il de nous ?
Le court au long prendra,
On nous prendra nos droits.
Ami, nos maisons ravagées, la ville ruinée,
Notre région finira par pourrir.
Ami, nos maisons ravagées, la ville ruinée,
Notre région finira par mourir.
inviata da Marco Valdo M.I. - 19/3/2024 - 16:28
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Versi / Lyrics / Verses / Sanat: Âşık Serdarî
Musica / Music / Musique / Sävel: ?
Ancora per esemplificare le oramai celebri “Vie dei canti”, ecco una pagina che è un autentico “spin-off”. I frequentatori assidui e annuali di questo sito, infatti, si saranno senz’altro accorti che contiene un canto in realtà già presente nel sito, e fin dal 2010:Nesini söyleyim canim efendim. Perché riproporlo qui, in una pagina separata?
Il canto in questione, in lingua turca, era stato inserito a corredo di una canzone greca, Κόκκινη βροχή (che qui sotto rimetto a mo' di promemoria). Interpretata dalla grande Maria Farandouri sui versi in greco della poetessa Magda Papadaki, la canzone è assai notevole per almeno tre cose: la bellezza dei versi in sé, la musica da far venire i bordoni ed il fatto che, almeno nella versione ripresa dall’album Mosaic (2004) della Farandouri, viene cantata in duetto con un altro grande artista turco, Fuat Saka, che canta dei versi in turco inframezzati a quelli in greco.
I versi in turco provengono, appunto, da Nesini söyleyim. In realtà, Fuat Saka (e tanti altri artisti turchi, come ad esempio İlkay Akkaya), hanno interpretato la canzone interamente in turco, ma in una versione abbreviata. Giocoforza; l’originale è sterminatamente lungo. Ma che cos’è, in definitiva, questo canto? Da dove proviene e chi lo ha composto? Vaghe notizie ne avevo, ma nel 2010 non ero purtroppo in grado di andare troppo oltre. Come avevo specificato nella pagina greca, all’epoca non me la cavavo troppo bene col turco. In tutti questi anni, diciamo, ho un pochino ampliato la conoscenza di quella meravigliosa lingua, almeno abbastanza da permettermi di squarciare un po’ il velame de li versi strani. Ed ecco ciò che è apparso, tanto da meritare -credo- una pagina apposita.
Ne appare, si potrebbe dire, la capostipite delle Protest Songs in lingua turca. Scritta a cavallo tra il XIX e il XX secolo da Âşık Serdarî (1833-1922) ; anzi, poiché nel testo il poeta dice di avere cinquant’anni, dovrebbe risalire a circa il 1893. Una canzone di protesta che è, al tempo stesso, un resoconto e un bilancio della propria grama vita, una denuncia delle condizioni dei poveri nel cadente Impero Ottomano del tempo e una previsione di disgrazie e di rivolgimenti per la Turchia. Non poco, vero? Ma chi era esattamente Âşık Serdarî?
Il vero nome del poeta era Âşık Hacı. Era nato nel 1833, anno 1250 dell’Egira, da una famiglia poverissima del quartiere Kayalıyokuş della cittadina di Şarkışla. In giovanissima età cadde da un asino, si ruppe un braccio e, poiché la ferita non si rimarginava, gli venne amputato un braccio per pericolo di cancrena. Per questo motivo venne chiamato Çolak Hacı, cioè “ Hacı senza-un-braccio”. Il suo “nome d’arte”, Serdarî, significa “figlio di un capo militare, o generale”; non si sa perché lo scelse o gli venne affibbiato. Ebbe una vita movimentata, nonostante la povertà costante; per vivere faceva il contadino, ma era anche un gran cacciatore e gli piacevano parecchio le donne. Innamoratosi della figlia del giudice di Şarkışla, cioè una ragazza di condizione sociale ben diversa dalla sua, intendeva sposarla; ma ricevette un ovvio rifiuto da parte del padre di lei. Quindi la rapì, ma poco dopo fu catturato e imprigionato.
Durante l’infanzia e l’adolescenza, Âşık Hacı Serdarî aveva perso entrambi i genitori e si ritrovò quindi in orfanotrofio. La povertà e il dolore lo maturarono anzitempo, e le sue poesie non sono frutto di immaginazione o di ispirazione lirica. Pur essendo completamente analfabeta, componeva le sue poesie a memoria e le recitava, esprimendo con grande maestria gli avvenimenti del suo tempo. Morì nel 1922 in totale povertà com’era sempre vissuto, dopo una vita lunga e sofferente.
Essendo, come detto, totalmente analfabeta, Âşık Serdarî non poté mai raccogliere le sue poesie in un libro. Le recitava spesso improvvisando, come nella tradizione dei poeti popolari di ogni luogo e di ogni tempo (si pensi ai nostri Ottavisti in rima toscani…), e molte furono dimenticate assieme a lui. Molti anni dopo, in condizioni molto difficili, Kadri Özyalçın e Kemal Gürpınar ne compilarono alcune raccogliendole in un piccolo libro intitolato Şarkışlalı Serdarî. Occorse attendere il 1979 per una seconda e più ampia raccolta, quella di Ahmet Özdemir, pubblicata da Şarkışlalılar Solidarity and Solidarity Association ŞAR DER. La raccolta fu ulteriormente ampliata nel 1997 e pubblicata con il titolo di "Şarkışlalı Aşık Serdarî e i poeti popolari locali".
Le poesie di Aşık Serdarî sono di tradizione orale e sono composte nel turco popolare a base interamente turca, lontanissimo dal “Turco Ottomano” (Osmanlı) ufficiale e di corte, raffinatissimo e inestricabile guazzabuglio di turco, arabo e persiano del tutto incomprensibile ai non iniziati. Fu proprio basandosi sul turco popolare che, con la caduta dell’Impero Ottomano e la rivoluzione di Kemal Atatürk (e con il decisivo lavoro di filologi e letterati come Ziya Gök Alp), la lingua turca fu interamente riformata e ristrutturata -tra le altre cose, con l’introduzione obbligatoria dell’alfabeto latino). Le poesie di Aşık Serdarî sono non soltanto perfette dal punto di vista formale, ma sono anche -intrinsecamente- fatte per il canto, quasi sempre su melodie di origine ignota. Fu così che anche Nesini söyleyim dovette ricevere ben presto la sua straordinariamente bella melodia, quella con cui è conosciuta ancora oggi.
Nesini söyleyim è, in primo luogo, il più classico lamento del disgraziato, una complainte in piena regola; ma, ovviamente, non si tratta di una sorta di “esercizio letterario”. Quel che vi viene raccontato è la vita di stenti di chi la ha veramente vissuta e continua a viverla senza speranza. Quel che contraddistingue però la poesia cantata di Âşık Hacı Serdarî è di non farne un componimento esclusivamente personalistico e limitato a se stesso. Tutt’altro: è anche e soprattutto un’esposizione e una denuncia dei problemi sociali che attanagliavano le classi popolari nell’ultimo periodo del morente Impero Ottomano. Ha carattere generale e collettivo, pienamente cosciente e rivolto ad una terribile situazione generale con tono rassegnato. Per questo motivo l’ho definita la prima Protest Song in turco, sebbene probabilmente non sia vero e componimenti di questo genere e di questo tono siano stati già presenti nei canti popolari turchi. C’è di tutto: i contadini in miseria oberati dalle tasse, la fame, i “religiosi” ai quali non importa nulla di tutto questo, le tremende diseguaglianze sociali, il dispotismo e, in definitiva, la previsione di un mondo in rovina.
Così, senz’altro, tra i componimenti di Âşık Serdarî, questo è divenuto il più celebre, verosimilmente con il contributo della sua melodia di origine sconosciuta. E’ diventato un canto popolare in piena regola, la memoria del cui autore si sarebbe persa se qualcuno non avesse trascritto il suo testo. Ed è così che, come sempre avviene, ha subito il trattamento di ogni canto popolare: in primo luogo è stato abbreviato, tanto che attualmente se ne cantano soltanto alcune strofe, perdipiù con diverse varianti testuali. Dal testo ridotto, la narrazione appare decisamente sfumata; è il caso, appunto, della versione di Fuat Saka che è stata utilizzata anche inframezzata ai versi in greco in Κόκκινη βροχή. Ma anche altri artisti la cantano regolarmente in versioni ridotte.
A mo’ di conclusione, chiudendo il cerchio e tornando per la stessa via dei canti alla canzone greca, con la traduzione (in diversi punti abbastanza “libera”) che ho fatto -una traduzione, si può dire, durata quattordici anni perché ho dovuto prima imparare il turco a sufficienza…-, è apparso anche perché la Farandouri abbia deciso di cantare la canzone in duetto con Fuat Saka. A prima vista sembrerebbe che, melodia a parte, il testo greco scritto da Magda Papadaki non c’entri niente con quello turco. Invece lo si legga bene, adesso: è come un rifacimento, una riscrittura in breve ispirata palesemente al testo del canto originale. Si parte da un punto A, si passa per un punto B che poi è, in realtà, il Punto Zero, e si torna al punto A. Le vie dei canti sono, spesso, circolari. Sono come certi amori che fanno lunghi giri e poi ritornano (mi si perdoni la citazione da Antonello Venditti, ma non ho resistito). [RV]