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C'è l'ulivo e il sole

Ivan Della Mea
Lingua: Italiano


Ivan Della Mea

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[1966]
Da / From "Mangia el carbon e tira l'ultim fiaa"
Testo e musica / Lyrics and music / Paroles et musique / Sanat ja sävel: Ivan Della Mea
Album / Albumi: Io so che un giorno

giubek“Rividi mamma nel 1966, primi mesi di gennaio, ancora a Lucca, ancora in ospedale, ancora da lei inconosciuto. Cirrosi la diagnosi. Gisella ci raccontò che aveva fatto Natale a Torre dalla sorella Adele sposata Arrighi. Con occhi lustri di gioia ci disse di una mangiata di fritti misti 'che come li fa la moglie di mio nipote Duino non ce n'è.' La gioia negli occhi. La gioia nella voce. 'Conigliolo disossato e fritto in pastella, salvia e cuori di carciofo , finocchio prima lessato e poi fritto e sì che mi sono cavata la voglia, fritta la salvia, ma poi sono andata in congestione ed eccomi qui.' Aveva la morte negli occhi stanchi, nella pelle gialla e tirata fino alla trasparenza nel naso affilato con le narici dilatate a caccia di aria. Ma parlava con Luciano, soltanto con Luciano e Luciano le carezzava la mano bianca sul bianco del lenzuolo. Si diede il sangue per la mamma. Ci tornai dalla Gisella due mesi dopo. La vidi morta. Nel volto la tristezza rassegnata di sempre. La bocca appena socchiusa. In ordine, composta, ben pettinata. Pensa te, mi disse Luciano serio, indovina un po' qual è l'ultima parola che ha detto prima di morire. Non potevo saperlo. Tacqui. Ghigo, ha detto, Ghigo mio. Mia madre fu una grande fumatrice. Avevo rimediato due stecche di Giubek, o Giubec con filtro. Le posai nella bara e dissi ciao Gisella. Poi ci fu il funerale. Un funerale da poco.
Poi il cimitero di Torre in una splendida giornata di sole pulito sopra gli ulivi e i cipressi e i lecci.” - Ivan Della Mea: “Se la vita ti dà uno schiaffo”, pagina 102.

Per molti questa non è neppure una canzone, ma una parte di una canzone; più precisamente Mangia el carbon e tira l'ultim fiaa, dall'album “Io so che un giorno” del 1966. In pratica, è una canzone a sé stante e come tale Ivan Della Mea, a volte, la interpretava. Personalmente gliela ho sentita cantare una sola volta, ma la mia conoscenza personale di Ivan Della Mea non è antica; un'altra, quando Ivan era già bell'e morto, l'ho sentita cantata da Silvia Malagugini, la bellissima e filiforme Silvia che farebbe venire i bordoni anche se cantasse "44 gatti", figurarsi questa canzone. Qualunque cosa sia, questa cosa fu scritta da un Ivan Della Mea ventiseienne di fronte ai funerali di sua madre, nel paese di Torrealta di Ponte del Giglio (Lucca); la “Gisella” è sua madre, perché lui la chiamava per nome. E le portava le sigarette, quelle poche volte che ancora la vedeva dopo essersene andato da bambino a diventare milanese di ossa e di cuore. Eppure, rimase anche un toscano, un maledettissimo toscano ma di quella parte della Toscana anomala, la Lucchesia, di chiesa e di sagrestia, e dove la religione è trattata comunque con estremo rispetto. Tanto da scrivere un autentico, bellissimo, straziante, solenne, ecclesiastico canto funebre per una madre con le sigarette nella bara. C'era Luciano, Luciano Della Mea, il fratello maggiore partigiano, scrittore e giornalista, che ora riposa anche lui nel cimitero di Torrealta accanto alla madre. E c'era la vita grama del giovane Ivan, emigrato, operaio, millemestieri, poeta, comunista e povero. C'era una madre che, anche in punto di morte, aveva invocato il nome del marito, quel “Ghigo” nominato da Ivan Della Mea, il padre fascista e violento, autentico aguzzino di sua moglie, cui Ivan ha restituito i massacri che somministrava in famiglia. Ma in punto di morte, la moglie lo chiamava. Ghigo mio. Si tratta di misteri che non sarebbe corretto liquidare in due parole e tre banalità. Cosa che non farò. Così, dopo il funerale della madre in quel giorno di sole a Torrealta di Ponte del Giglio, Lucca, Ivan Della Mea se ne tornò a Milano a cantare la libertà, cosa che ha fatto più che egregiamente fino alla fine dei suoi giorni. [RV]
C’è l’ulivo e il sole,
ride dietro il poggio
dove il marmo
si fa più bianco.
Cosa mai
può dire un prete
più che un requiem frusto e stanco?

Certo, questa è la vita
e io canto la fine.

C’è l’ulivo e il sole,
scema dietro il poggio
nel saluto
ognuno va.
E anch’io torno a Milano
a cantare
la libertà.

Certo, questa è la vita
e io canto la fine.

C’è l’ulivo e il sole,
muore dietro il poggio
con la tua
serenità.
Questo è il canto della morte
che non chiede
la pietà.

Certo questa è la vita
e io canto la fine.

inviata da Riccardo Venturi - 11/10/2022 - 20:47




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