Elegia I, 10: Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Albio Tibullo / Albius TibullusLanguage: Latin
Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
Tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra
Vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
Faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
Securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
Arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
Haesura in nostro tela gerit latere.
Sed patrii servate Lares: aluistis et idem,
Cursarem vestros cum tener ante pedes.
Neu pudeat prisco vos esse e stipite factos:
Sic veteris sedes incoluistis avi.
Tunc melius tenuere fidem, cum paupere cultu
Stabat in exigua ligneus aede deus.
Hic placatus erat, seu quis libaverat uvam
Seu dederat sanctae spicea serta comae:
Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat
Postque comes purum filia parva favum.
At nobis aerata, Lares, depellite tela,
Hostiaque e plena rustica porcus hara.
Hanc pura cum veste sequar myrtoque canistra
Vincta geram, myrto vinctus et ispe caput.
Sic placeam vobis: alius sit fortis in armis,
Sternat et adversos Marte favente duces,
Ut mihi potanti possit sua dicere facta
Miles et in mensa pingere castra mero.
Quis furor est atram bellis accersere Mortem?
Imminet et tacito clam venit illa pede.
Non seges est infra, non vinea culta, sed audax
Cerberus et Stygiae navita turpis aquae:
Illic peresisque genis ustoque capillo
Errat ad obscuros pallida turba lacus.
Quin potius laudandus hic est quem prole parata
Occupat in parva pigra senecta casa!
Ipse suas sectatur oves, at filius agnos,
Et calidam fesso comparat uxor aquam.
Sic ego sim, liceatque caput candescere canis
Temporis et prisci facta referre senem.
Interea Pax arva colat. Pax candida primum
Duxit araturos sub iuga curva boves:
Pax aluit vites et sucos condidit uvae,
Funderet ut nato testa paterna merum:
Pace bidens vomerque nitent, at tristia duri
Militis in tenebris occupat arma situs.
At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto,
Profluat et promis candidus ante sinus.
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
Tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra
Vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
Faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
Securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
Arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
Haesura in nostro tela gerit latere.
Sed patrii servate Lares: aluistis et idem,
Cursarem vestros cum tener ante pedes.
Neu pudeat prisco vos esse e stipite factos:
Sic veteris sedes incoluistis avi.
Tunc melius tenuere fidem, cum paupere cultu
Stabat in exigua ligneus aede deus.
Hic placatus erat, seu quis libaverat uvam
Seu dederat sanctae spicea serta comae:
Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat
Postque comes purum filia parva favum.
At nobis aerata, Lares, depellite tela,
Hostiaque e plena rustica porcus hara.
Hanc pura cum veste sequar myrtoque canistra
Vincta geram, myrto vinctus et ispe caput.
Sic placeam vobis: alius sit fortis in armis,
Sternat et adversos Marte favente duces,
Ut mihi potanti possit sua dicere facta
Miles et in mensa pingere castra mero.
Quis furor est atram bellis accersere Mortem?
Imminet et tacito clam venit illa pede.
Non seges est infra, non vinea culta, sed audax
Cerberus et Stygiae navita turpis aquae:
Illic peresisque genis ustoque capillo
Errat ad obscuros pallida turba lacus.
Quin potius laudandus hic est quem prole parata
Occupat in parva pigra senecta casa!
Ipse suas sectatur oves, at filius agnos,
Et calidam fesso comparat uxor aquam.
Sic ego sim, liceatque caput candescere canis
Temporis et prisci facta referre senem.
Interea Pax arva colat. Pax candida primum
Duxit araturos sub iuga curva boves:
Pax aluit vites et sucos condidit uvae,
Funderet ut nato testa paterna merum:
Pace bidens vomerque nitent, at tristia duri
Militis in tenebris occupat arma situs.
At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto,
Profluat et promis candidus ante sinus.
Contributed by Riccardo Venturi - 2021/10/1 - 15:48
Language: Italian
Traduzione italiana / Italian translation / Traduction italienne / Italiankielinen käännös:
Aladin : Pensiero e rappresentazioni
Aladin : Pensiero e rappresentazioni
Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Quanto malvagio e feroce quello fu!
Allora nacquero le stragi a danno del genere umano,
Allora sorsero le guerre,
Allora venne aperta una via più breve alla terribile morte.
Eppure quell’infelice non ebbe alcuna colpa,
Noi abbiamo volto a nostro danno
Quello che egli ci aveva dato contro le bestie feroci.
Questo è colpa del ricco oro, e non vi furono guerre
Finché una tazza di legno di faggio era posta davanti ai banchetti.
Non vi erano fortezze, non bastioni,
E il pastore si addormentava senza preoccupazione tra pecore di vari colori.
Dolce sarebbe stata allora per me la vita, Valgio, e non avrei conosciuto
Le funeste armi, né avrei udito la tromba con il cuore palpitante.
Ora sono trascinato a forza a combattere,
E già forse qualche nemico produce dei dardi
Destinati a configgersi nel mio corpo.
Ma, patri Lari, proteggetemi e salvatemi: voi stessi mi avete allevato,
Quando ancora bambino correvo qua e là.
E non abbiate vergogna di essere fatti di antico legno:
Così voi abitaste le sedi dell’antico avo.
Allora, con più sincerità, gli uomini
Mantenevano la parola data, quando con scarso ornamento
Il dio stava in una modesta nicchietta.
Questo era soddisfatto, sia che qualcuno avesse fatto libagioni con uva,
Sia che qualcuno avesse offerto una corona di spighe alla santa chioma:
E colui che è padrone di qualcosa offriva delle focacce,
Dietro di lui come compagna la piccola figlia offriva un favo intatto.
Tenete lontano da noi, Lari, i dardi di bronzo
E avrete come rustica vittima una scrofa del mio porcile pieno.
Io stesso col capo cinto di mirto accompagni questa
Con una veste disadorna, e porti canestri ornati di mirto.
Così io possa piacere a voi: sia pure un altro valoroso nelle armi,
E atterri col favore di Marte i comandanti avversari,
In modo che, mentre sto bevendo,
Un soldato possa raccontarmi le sue imprese
E disegnare col vino gli accampamenti sulla mensa.
Che pazzia è mai quella di chiamare a sé con la guerra la nera morte?
La morte ci sta sopra e segretamente arriva con passo silenzioso.
Non campo coltivato v’è nel mondo sotterraneo, non vigna,
Ma l’audace Cerbero e il turpe nocchiero delle acque dello Stige:
Ivi una pallida turba con le gote dilaniate e i capelli arsi
Erra presso le nere paludi.
In quanto è più da lodarsi colui che coglie la sua tarda vecchiaia
Nella sua umile capanna in mezzo ai suoi figli!
Egli stesso conduce al pascolo le pecore, il figlio invece gli agnelli,
E la moglie prepara l’acqua calda al marito stanco.
Possa anch’io esser così, e mi sia concesso
Veder sul capo divenir bianchi i miei capelli
E vecchio raccontare i fatti della giovinezza.
Frattanto la Pace coltivi i canti. La Pace ha insegnato
a condurre sotto i gioghi ricurvi i buoi per arare:
la Pace ha sostentato le viti e ripose il succo d’uva,
perché l’anfora di terracotta del padre versasse il vino puro:
durante la pace brillano il bidente e il vomere, la ruggine
ricopre le funeste armi dell’insensibile soldato nei nascondigli.
Orsù vieni a noi, benefica Pace, e terrai una spiga.
Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Quanto malvagio e feroce quello fu!
Allora nacquero le stragi a danno del genere umano,
Allora sorsero le guerre,
Allora venne aperta una via più breve alla terribile morte.
Eppure quell’infelice non ebbe alcuna colpa,
Noi abbiamo volto a nostro danno
Quello che egli ci aveva dato contro le bestie feroci.
Questo è colpa del ricco oro, e non vi furono guerre
Finché una tazza di legno di faggio era posta davanti ai banchetti.
Non vi erano fortezze, non bastioni,
E il pastore si addormentava senza preoccupazione tra pecore di vari colori.
Dolce sarebbe stata allora per me la vita, Valgio, e non avrei conosciuto
Le funeste armi, né avrei udito la tromba con il cuore palpitante.
Ora sono trascinato a forza a combattere,
E già forse qualche nemico produce dei dardi
Destinati a configgersi nel mio corpo.
Ma, patri Lari, proteggetemi e salvatemi: voi stessi mi avete allevato,
Quando ancora bambino correvo qua e là.
E non abbiate vergogna di essere fatti di antico legno:
Così voi abitaste le sedi dell’antico avo.
Allora, con più sincerità, gli uomini
Mantenevano la parola data, quando con scarso ornamento
Il dio stava in una modesta nicchietta.
Questo era soddisfatto, sia che qualcuno avesse fatto libagioni con uva,
Sia che qualcuno avesse offerto una corona di spighe alla santa chioma:
E colui che è padrone di qualcosa offriva delle focacce,
Dietro di lui come compagna la piccola figlia offriva un favo intatto.
Tenete lontano da noi, Lari, i dardi di bronzo
E avrete come rustica vittima una scrofa del mio porcile pieno.
Io stesso col capo cinto di mirto accompagni questa
Con una veste disadorna, e porti canestri ornati di mirto.
Così io possa piacere a voi: sia pure un altro valoroso nelle armi,
E atterri col favore di Marte i comandanti avversari,
In modo che, mentre sto bevendo,
Un soldato possa raccontarmi le sue imprese
E disegnare col vino gli accampamenti sulla mensa.
Che pazzia è mai quella di chiamare a sé con la guerra la nera morte?
La morte ci sta sopra e segretamente arriva con passo silenzioso.
Non campo coltivato v’è nel mondo sotterraneo, non vigna,
Ma l’audace Cerbero e il turpe nocchiero delle acque dello Stige:
Ivi una pallida turba con le gote dilaniate e i capelli arsi
Erra presso le nere paludi.
In quanto è più da lodarsi colui che coglie la sua tarda vecchiaia
Nella sua umile capanna in mezzo ai suoi figli!
Egli stesso conduce al pascolo le pecore, il figlio invece gli agnelli,
E la moglie prepara l’acqua calda al marito stanco.
Possa anch’io esser così, e mi sia concesso
Veder sul capo divenir bianchi i miei capelli
E vecchio raccontare i fatti della giovinezza.
Frattanto la Pace coltivi i canti. La Pace ha insegnato
a condurre sotto i gioghi ricurvi i buoi per arare:
la Pace ha sostentato le viti e ripose il succo d’uva,
perché l’anfora di terracotta del padre versasse il vino puro:
durante la pace brillano il bidente e il vomere, la ruggine
ricopre le funeste armi dell’insensibile soldato nei nascondigli.
Orsù vieni a noi, benefica Pace, e terrai una spiga.
Contributed by Riccardo Venturi - 2021/10/1 - 16:16
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Prima d'esser presi da facili entusiasmi per questi antichi e bei versi pacifisti latini, sarà bene situarli ammodo, seppur brevemente, nel loro tempo. Albio Tibullo, la cui parabola si svolse tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., fu contemporaneo di Virgilio e visse, quindi, in piena epoca Augustea. Operò, esattamente come Virgilio, nel circolo di un potentissimo patrono (Mecenate per Virgilio, Messalla Corvino per Tibullo; quale liceale non si ricorda dell'incipit Ìbitis Aegaeàs sine mè Messàlla per ùndas...?); fu il “principe” del distico elegiaco. “Epoca Augustea” significa principalmente Pax Romana, la “chiusura del tempio di Giano” del 27 a.C., l'inizio di una nuova epoca di pace -al prezzo, ovviamente, della soppressione totale di tutte le libertà repubblicane, già iniziata e realizzata da Giulio Cesare-, lo stabilirsi dell' imperium, che a lungo altro non fu che un termine militare indicante il comando supremo. Non è certo raro che i poeti cortigiani dell'epoca, come Tibullo, fossero strenui cantori della pace, e che si scagliassero contro la guerra in quella ritrovata e forzata concordia sotto il ferreo bastone del supremo e divino comandante. Fu così tutto un fiorire di versi che esaltavano la pace, che maledicevano la funesta guerra -ovviamente quella nei dintorni di Roma e in Italia; altrove la guerra di conquista si faceva eccome, a volte prendendo anche delle scoppole disastrose-, che esaltavano il ritorno all'operoso e bucolico mondo contadino con la sostituzione dell'aratro alla spada (senza però mai sentire il parere d'un bracciante), e quant'altro. Il quale “quant'altro” comprende anche il categorico rifiuto del vile denaro, la “povertà rigeneratrice” e tutte queste bellissime cose, espresse in circoli di super-privilegiati che rigurgitavano di ricchezze. Con tutto ciò, non intendo certo mettere in discussione il sincero desiderio di pace e di tranquillità che promana da versi come questi, nonché il disgusto per la guerra che esprimono: non occorre comunque scordarsi il terribile periodo storico che Roma aveva vissuto nelle immediate precedenze, tra guerre civili, guerre sociali, guerre di ogni genere. Alla fine, poi, il pacificatore si trova sempre, dà inizio alla consueta “nuova era” finché, non molto tempo dopo, ad esempio un Cornelio Tacito si accorge di come sono davvero andate le cose e mette in bocca ad un generale calèdone (cioè, scozzese), Calgaco, le parole Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (quella resa poi, molto liberamente, con “hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”). Insomma, d'accordo: leggiamo pure con animo ben disposto e mossi dall'orrore contro la guerra questi elegiaci versi del grande Tibullo (perché grande poeta lo fu, senz'altro), a condizione che siano ben sistemati nel loro posto. Da notare che il loro incipit somiglia in modo tremendo a quello della canzone fiorentina seicentesca di Piero Salvetti: che quest'ultimo conoscesse Tibullo...? [RV]