Rosa Elena Durgel: Silvia
Lucy Gallardo: Lucia
Enrique Garcia Alvarez: Roc
Ofelia Guilmaín: Juana
Nadia Haro Oliva: Ana
Tito Junco: Raúl
Xavier Loya: Francisco
Xavier Masse: Eduardo
Ofelia Montesco: Beatriz
Patricia Román: Rita
Patricia de Morelos: Blanca
Bertha Moss: Leonora
Enrique Rambal: nobile
Pancio Cordova
Angel Merino: Lucas
Luis Lomeli
Guillermo A. Bianchi: Pablo
Elodia Hernandez
Florencio Castello
Chel Lopez
David H. Cohen
Messico, 1962. Dopo un'elegante serata a teatro, una famiglia dell'alta borghesia invita nel proprio palazzo alcuni ospiti di rango per una cena. Cominciano ad accadere cose insolite: a parte il maggiordomo, tutta la servitù se ne va. Inizia la cena, e il maggiordomo inciampa rovinosamente con la prima portata; tutti pensano ad uno scherzo, quando un portacenere, inspiegabilmente e senza nessun motivo, viene lanciato contro una finestra. Nel palazzo passeggiano indisturbati un orso e un gregge di pecore; dalla borsetta di una signora spuntano due zampe di gallina. La cena finisce, e tutti gli ospiti si riuniscono in sala per conversare ed ascoltare la musica suonata al pianoforte da un'invitata. Si fanno le quattro del mattino, ma nessuno sembra volersi congedare e, senza che nessuno abbia il coraggio di parlarne, gli ospiti trascorrono la notte in sala.
Arriva mattina e, quando finalmente gli invitati si decidono a andarsene, si rendono conto che non riescono a attraversare la porta, sebbene sia aperta. Qualcosa di indefinito li trattiene; aumentano il nervosismo e la tensione. Uno degli ospiti muore, e il suo cadavere viene nascosto in un armadio. Nel frattempo, qualcuno ha dato l'allarme per risolvere la surreale situazione; ma, all'esterno della casa, i tentativi per entrare falliscono uno dopo l'altro. All'interno, la situazione degenera: gli eleganti e ricchi ospiti cedono a bisogni primari, come la fame e la sete, e cominciano a sentirsi addosso il peso dei giorni e della frustrazione. Cominciano quindi a farsi la guerra, litigando aspramente e lanciandosi accuse reciproche in un autentico “tutti contro tutti”: l' “educazione” e ogni tipo di convenzione sociale scompaiono in un crescendo talmente animalesco che, quando un gregge di pecore attraversa la sala, non solo nessuno ci trova niente di anormale, ma anche lo spettatore si chiede chi siano i veri animali là dentro.
E' Letitia (interpretata dalla grande Silvia Pinal) che trova finalmente la soluzione; e si tratta di una soluzione che intende ristabilire un ordine convenzionale. Fa rimettere tutti gli ospiti nella stessa posizione in cui si trovavano all'inizio della serata; ripristinato l'ordine, quasi a voler tornare indietro nel tempo, prima del passaggio dell' “Angelo Sterminatore”, tutti riescono finalmente ad uscire. Decidono quindi di riunirsi tutti in chiesa, per ringraziare il Signore per lo scampato pericolo; ma, quando fanno per uscire dalla chiesa, non ci riescono. Nella chiesa entra un altro gregge di pecore; all'esterno, in quel preciso momento, la polizia disperde brutalmente una folla di manifestanti.
Italia, 2020. Anzi: Mondo, 2020. Tutti o quasi prigionieri nelle proprie case (sempre, naturalmente, a condizione di avercela, una casa). La porta è aperta, ma non si può uscire: l'angelo sterminatore ha, adesso, la forma di una pallina con tante piccole antenne dalla sommità rossa. Sta dentro di noi; e torna a mente il vecchio film messicano di Luis Buñuel. Mi ricordo di quando l'ho visto la prima volta, a notte quand'ero ancora ragazzo, durante un ciclo che la RAI aveva dedicato a Buñuel trasmettendo però i film a ore impossibili. Da solo nel “salotto” di casa, quando abitavo ancora coi genitori; una stanza cupa e arredata proprio “da salotto”, con la carta da parati, i mobiloni classici, la tovaglia di pizzo sul tavolo e una miriade di piccole cose di pessimo gusto. La ho sempre e profondamente odiata quella stanza; la chiamavo “il museo degli orrori”. Ma la televisione era lì, e mi rivedo mentre guardo il film a volume bassissimo, per non svegliare i genitori e la nonna. Mi ricordo soprattutto il senso di sottile ma tremendo terrore che avevo; è da allora che definisco “L'angelo sterminatore” un film del terrore (tempo dopo, avrei provato la stessa sensazione leggendo un racconto di Oliver Onions, La bella adescatrice; un racconto dove, peraltro, non succede assolutamente niente). Forse Buñuel non andrebbe guardato a diciassette anni; ma ero fatto così, e non me ne perdevo uno infilandomi all'occorrenza in improbabili cineforum e cinema d'essai, come il vecchio “Spazio Uno” che si trovava in un'antichissima stradina buia dietro Piazza Santa Maria Novella la quale, per ironia e contrappasso della sorte, si chiama Via del Sole. Compravo interi libroni di sceneggiature, come quello curato da Goffredo Fofi; e quel terrore, poi, mai andato via di fronte a quelle scene di prigionia e di naufragio (Buñuel voleva, come forse è noto, intitolare il film “I naufraghi della Calle Providencia”).
Tratto da un soggetto di José Bergamín, che affermava di essersi ispirato direttamente all'Apocalisse di Giovanni, “L'angelo sterminatore” è effettivamente un film apocalittico, ma nel senso proprio della parola: un film di rivelazione (αποκαλύψις). Rivela, soprattutto, il vuoto pneumatico delle convenzioni, della religione, delle forme; rivela quella che, ad un certo punto, viene inviata, o auspicata, come punizione. Certamente, va tenuto presente che è comunque un film di Luis Buñuel, con tutte le sue tematiche sociologiche espresse in maniera onirica e surreale e dirette principalmente contro le letali assurdità della classe borghese reazionaria, aristocratica e clericale; ma il film è anche una descrizione della perdizione dell'intero genere umano, bloccato e paralizzato nell'anima, prigioniero soprattutto delle sue stesse istituzioni, del suo “ordine costituito”. E' quindi il naufragio psicologico e sociale non solo di una classe, ma dell'umanità intera.
Ce n'è, a mio parere, abbastanza per trarne le conclusioni, magari riportandole anche alla più stretta attualità. Alla fine, al naufragio generalizzato ci siamo arrivati; ben ci sta. Da rimarcare il fatto che, per il cast del film, il regista, esule dalla Spagna dopo la guerra civile, aveva scelto moltissimi attori pure di origine spagnola e fuggiti dopo la vittoria franchista. Per finire, una dedica: a Raffaele, anarchico napoletano, bevitore impenitente, morto pochi giorni fa. Ciao Raffaele, Ni Dieu, Ni Maître! [RV]
Rosa Elena Durgel: Silvia
Lucy Gallardo: Lucia
Enrique Garcia Alvarez: Roc
Ofelia Guilmaín: Juana
Nadia Haro Oliva: Ana
Tito Junco: Raúl
Xavier Loya: Francisco
Xavier Masse: Eduardo
Ofelia Montesco: Beatriz
Patricia Román: Rita
Patricia de Morelos: Blanca
Bertha Moss: Leonora
Enrique Rambal: nobile
Pancio Cordova
Angel Merino: Lucas
Luis Lomeli
Guillermo A. Bianchi: Pablo
Elodia Hernandez
Florencio Castello
Chel Lopez
David H. Cohen
Messico, 1962. Dopo un'elegante serata a teatro, una famiglia dell'alta borghesia invita nel proprio palazzo alcuni ospiti di rango per una cena. Cominciano ad accadere cose insolite: a parte il maggiordomo, tutta la servitù se ne va. Inizia la cena, e il maggiordomo inciampa rovinosamente con la prima portata; tutti pensano ad uno scherzo, quando un portacenere, inspiegabilmente e senza nessun motivo, viene lanciato contro una finestra. Nel palazzo passeggiano indisturbati un orso e un gregge di pecore; dalla borsetta di una signora spuntano due zampe di gallina. La cena finisce, e tutti gli ospiti si riuniscono in sala per conversare ed ascoltare la musica suonata al pianoforte da un'invitata. Si fanno le quattro del mattino, ma nessuno sembra volersi congedare e, senza che nessuno abbia il coraggio di parlarne, gli ospiti trascorrono la notte in sala.
Arriva mattina e, quando finalmente gli invitati si decidono a andarsene, si rendono conto che non riescono a attraversare la porta, sebbene sia aperta. Qualcosa di indefinito li trattiene; aumentano il nervosismo e la tensione. Uno degli ospiti muore, e il suo cadavere viene nascosto in un armadio. Nel frattempo, qualcuno ha dato l'allarme per risolvere la surreale situazione; ma, all'esterno della casa, i tentativi per entrare falliscono uno dopo l'altro. All'interno, la situazione degenera: gli eleganti e ricchi ospiti cedono a bisogni primari, come la fame e la sete, e cominciano a sentirsi addosso il peso dei giorni e della frustrazione. Cominciano quindi a farsi la guerra, litigando aspramente e lanciandosi accuse reciproche in un autentico “tutti contro tutti”: l' “educazione” e ogni tipo di convenzione sociale scompaiono in un crescendo talmente animalesco che, quando un gregge di pecore attraversa la sala, non solo nessuno ci trova niente di anormale, ma anche lo spettatore si chiede chi siano i veri animali là dentro.
E' Letitia (interpretata dalla grande Silvia Pinal) che trova finalmente la soluzione; e si tratta di una soluzione che intende ristabilire un ordine convenzionale. Fa rimettere tutti gli ospiti nella stessa posizione in cui si trovavano all'inizio della serata; ripristinato l'ordine, quasi a voler tornare indietro nel tempo, prima del passaggio dell' “Angelo Sterminatore”, tutti riescono finalmente ad uscire. Decidono quindi di riunirsi tutti in chiesa, per ringraziare il Signore per lo scampato pericolo; ma, quando fanno per uscire dalla chiesa, non ci riescono. Nella chiesa entra un altro gregge di pecore; all'esterno, in quel preciso momento, la polizia disperde brutalmente una folla di manifestanti.
Italia, 2020. Anzi: Mondo, 2020. Tutti o quasi prigionieri nelle proprie case (sempre, naturalmente, a condizione di avercela, una casa). La porta è aperta, ma non si può uscire: l'angelo sterminatore ha, adesso, la forma di una pallina con tante piccole antenne dalla sommità rossa. Sta dentro di noi; e torna a mente il vecchio film messicano di Luis Buñuel. Mi ricordo di quando l'ho visto la prima volta, a notte quand'ero ancora ragazzo, durante un ciclo che la RAI aveva dedicato a Buñuel trasmettendo però i film a ore impossibili. Da solo nel “salotto” di casa, quando abitavo ancora coi genitori; una stanza cupa e arredata proprio “da salotto”, con la carta da parati, i mobiloni classici, la tovaglia di pizzo sul tavolo e una miriade di piccole cose di pessimo gusto. La ho sempre e profondamente odiata quella stanza; la chiamavo “il museo degli orrori”. Ma la televisione era lì, e mi rivedo mentre guardo il film a volume bassissimo, per non svegliare i genitori e la nonna. Mi ricordo soprattutto il senso di sottile ma tremendo terrore che avevo; è da allora che definisco “L'angelo sterminatore” un film del terrore (tempo dopo, avrei provato la stessa sensazione leggendo un racconto di Oliver Onions, La bella adescatrice; un racconto dove, peraltro, non succede assolutamente niente). Forse Buñuel non andrebbe guardato a diciassette anni; ma ero fatto così, e non me ne perdevo uno infilandomi all'occorrenza in improbabili cineforum e cinema d'essai, come il vecchio “Spazio Uno” che si trovava in un'antichissima stradina buia dietro Piazza Santa Maria Novella la quale, per ironia e contrappasso della sorte, si chiama Via del Sole. Compravo interi libroni di sceneggiature, come quello curato da Goffredo Fofi; e quel terrore, poi, mai andato via di fronte a quelle scene di prigionia e di naufragio (Buñuel voleva, come forse è noto, intitolare il film “I naufraghi della Calle Providencia”).
Tratto da un soggetto di José Bergamín, che affermava di essersi ispirato direttamente all'Apocalisse di Giovanni, “L'angelo sterminatore” è effettivamente un film apocalittico, ma nel senso proprio della parola: un film di rivelazione (αποκαλύψις). Rivela, soprattutto, il vuoto pneumatico delle convenzioni, della religione, delle forme; rivela quella che, ad un certo punto, viene inviata, o auspicata, come punizione. Certamente, va tenuto presente che è comunque un film di Luis Buñuel, con tutte le sue tematiche sociologiche espresse in maniera onirica e surreale e dirette principalmente contro le letali assurdità della classe borghese reazionaria, aristocratica e clericale; ma il film è anche una descrizione della perdizione dell'intero genere umano, bloccato e paralizzato nell'anima, prigioniero soprattutto delle sue stesse istituzioni, del suo “ordine costituito”. E' quindi il naufragio psicologico e sociale non solo di una classe, ma dell'umanità intera.
Ce n'è, a mio parere, abbastanza per trarne le conclusioni, magari riportandole anche alla più stretta attualità. Alla fine, al naufragio generalizzato ci siamo arrivati; ben ci sta. Da rimarcare il fatto che, per il cast del film, il regista, esule dalla Spagna dopo la guerra civile, aveva scelto moltissimi attori pure di origine spagnola e fuggiti dopo la vittoria franchista. Per finire, una dedica: a Raffaele, anarchico napoletano, bevitore impenitente, morto pochi giorni fa. Ciao Raffaele, Ni Dieu, Ni Maître! [RV]