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Veniamo da lontano

Ernesto Bassignano
Lingua: Italiano


Ernesto Bassignano

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Canzone squisitamente «piccista» del compagno Ernesto Bassignano.
Pubblicata originariamente in un EP* a cura della sezione stampa e propaganda del PCI (1971); poi nell'album Ma... (Ariston, 1973). Eseguita anche dal Canzoniere delle Lame di Bologna.

* Contenente Compagno dove vai, Tempo verrà, Veniamo da lontano, Compagni, compagni. [Un EP (Extended playing) era un vinile a 45 giri che aveva le dimensioni di un 33 giri]

Compagno Dove Vai
Veniamo da lontano andiam lontano
compagno Gramsci non sei morto invano
sia tu che gli altri che il fascismo uccise
vivete accanto a noi
nei nostri cuori voi
vivete in piazza e nelle nostre case

Andrem lontano per la nostra via
Togliatti avanti con l'antica idea
la via italiana al socialismo è nata
e la percorreremo
giorno per giorno uniti
Gramsci e Togliatti non vi abbiam scordati

Falce martello e stella alla riscossa
sta sventolando una bandiera rossa
la resistenza non è mai finita
e non sarà inquinata
e non sarà interrotta
la resistenza vive nella [nostra] lotta

Lotta di fatti e non di parole
lotta di molti nata sotto il sole
restando uniti andremo fino in fondo
provocatori fuori
infantilismi al bando
agli operai le leve di comando

Veniamo da lontano andiam lontano
compagno Gramsci non sei morto invano
sia tu che gli altri che il fascismo uccise
vivete accanto a noi
nei nostri cuori voi
vivete in piazza e nelle nostre case

inviata da L.L. - 31/3/2020 - 17:30


Il PCI? Mi minaccio’ e mi fece espellere dalla “grande” Cgil. Una mattina, all’ingresso del lavoro, mi si parano davanti quattro iscritti, i caporioni della locale cellula: “Ti riconosci nella linea del sindacato?... No?... E, allora, te ne devi andare!!!”.
Facevo parte del Collettivo politico lavoratori statali, una specie di Intergruppi, e uscivamo regolarmente con dei paginoni su Lotta Continua. Al congresso nazionale del 1977, o giù di lì, presentammo una mozione contro la linea dell’Eur, contro Luciano Lama e la sua politica dei sacrifici sulla pelle dei lavoratori. Contro la Santissima Trinità del neoliberismo: precarietà, mobilità, flessibilità. Che i piccisti cercavano di far passare nei posti di lavoro e nella testa della gente.
Quella mozione riscosse il 30% delle adesioni. Non venne mai messa agli atti, per espressa volontà del Partito stalinista italiano.
Fui espulso e la mia modesta persona riuscì a scomodare anche gli alti burocrati dell’organizzazione, che organizzarono assemblee contro l’”eretico”.

La Storia mi ha dato ragione ma, oramai, hanno vinto i padroni, non solo. Il Partito comunista italiano ha distrutto la Sinistra rivoluzionaria e si è suicidato, eticamente e politicamente, diventando liberale. Tutti i vecchi burocrati stalinisti, ad est come ad ovest, pur di non perdere la poltrona, si sono prontamente riciclati al dio libero mercato.
Se non fosse una tragedia, ci sarebbe soltanto da ridere. E chissà per quanto tempo ancora dovremo pagare l’abominio del marxismo-leninismo. Una ipotesi già ampiamente sconfitta nel 1968. Lo ripetei più volte a chi mi era accanto, ma nessuno mi volle ascoltare. E il ‘68 libertario e creativo venne spazzato via dallo tsunami dei gruppi. Cosa avvenne dopo, lo potete leggere nella testimonianza di Gianni De Martino. Non stimo affatto la mia generazione. Pentiti di lusso. «Chi non vive come pensa finirà col pensare come vive»: così Karl Marx.

«E nel periodo del cosiddetto ‘riflusso’ – come si disse con metafora mestruale azzeccata per una generazione già definita come ‘proletariato biologico’ – ho potuto osservare che i più furbi, gettato il colletto alla Mao alle ortiche, occuparono poi i migliori posti nelle Università, nelle televisioni e nelle amministrazioni pubbliche e private, e si comprarono la Bmw e la cocaina tipica dei ‘tossici integrati’ degli anni Ottanta, in attesa di collegarsi via Internet e gettarsi a capofitto nella superstrada dell’informazione, nel sogno di una supposta o suggerita comunicazione globale o liberazione tramite costose protesi elettroniche. Questo mentre i più stupidi fra quelli che volevano dare l’assalto al cielo finivano in cura dai guru per una buona terapia a prezzi popolari; e i più poveri finivano in cessi insanguinati, con l’ago nella pancia, in qualche angolo della metropoli rischiarato d’irrealtà. Non so se quella sessantottina sia la peggiore generazione di egoisti, di pentiti e di opportunisti e psicopompi che l’Italia abbia mai conosciuto. So però che volevano mandare al potere l’immaginazione, la loro immaginazione. E che molti han dovuto vedere le proprie buone intenzioni rovesciarsi in cattivi effetti. Che li consoli un po’ di buona letteratura. Kafka, per esempio: ‘Non ci fa tanto male ricordare le nostre malefatte passate, quanto rivedere i cattivi effetti delle azioni che credevamo buone’. […] E’ qui, a Milano trent’anni dopo, che inciampo ancora nel corpo del mio essere sociale, lo rivolto con la punta del piede e lo trovo splendidamente decomposto. Al punto giusto per ritornare verso le portinerie delle case dalle finestre munite di solide inferriate e lampeggianti segnali pronti a dare ancora l’allarme; e i videocitofoni e gli orologi e le telecamere agli angoli di certe strade del centro con le banche vigilate notte e giorno; e poi le scale e gli uffici delle amministrazioni e delle Ussl disinfettate all’alba, tutti i santi giorni, con impiegate in preda a sogni agitati ‘un attimino’ e burocrati, leghisti di mezza età o ex-compagni di un tempo sopravvissuti a tutti i cambiamenti, anche a Tangentopoli, seduti su poltroncine in pelle, anche umana, girevoli, che ti offrono un sigaro con un sorriso brillante come un getto di napalm…» così Gianni De Martino in «I capelloni», Castelvecchi (1997).

sergio falcone - 2/4/2020 - 07:38




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