[1991] Mediterraneo
Film / Movie /Elokuva : Gabriele Salvatores Mediterraneo
Musica / Music / Musique / Sävel:
Giancarlo Bigazzi, Marco Falagiani
La musica
Per la colonna sonora di Mediterraneo il duo Bigazzi-Falagiani ottenne il Globo d’oro nel 1991.
La colonna sonora integrale consta di 23 brani, di cui 21 sono raccolti in sequenza qui con l’indicazione dell’inizio temporale del brano.
I 23 brani si possono ascoltare singolarmente al link corrispondente:
L’intero film , ha una durata di 1 ora e mezzo.
Mediterraneo uscì nelle sale nel 1991 per la regia di Gabriele Salvatores. È una commedia amara che volle indicare il disorientamento dei giovani in quegli anni segnati dal crollo del Muro e dal distacco dalle ideologie. “Dedicato a tutti quelli che stanno scappando” riporta la didascalia finale. Per dare consistenza al messaggio lo sceneggiatore e il regista attualizzarono il disorientamento occorso qualche decennio prima, quello dei soldati italiani nella campagna di Grecia. Il film fu il risultato di una felice combinazione di elementi ad alto livello, regia, sceneggiatura, attori, musica. Non per nulla gli fu assegnato l’oscar per il migliore film straniero nel 1992.
Il film si ispirò al romanzo Sagapò di Renzo Biasion, una raccolta di racconti a carattere autobiografico, nati da un diario dell’autore, sottotenente sul fronte greco-albanese dal 1941 al ’43. Il tema centrale del libro non è la guerra ma i rapporti umani sullo sfondo della guerra. Fu pubblicato da Einaudi nell’ottobre 1952, in contemporaneità con il caso Renzi-Aristarco, di cui diremo avanti. Comunque sia, il film coprì in parte una lacuna della cinematografia italiana, restia a toccare certi argomenti e a mettere in discussione il mito autoassolutorio dell’”Italiano brava gente”. Un mito che, a dispetto di serie indagini storiografiche, non fu scalfitto dal film e rimane tuttora duro da ridimensionare.
Ciò che però ci preme descrivere non è tanto un’analisi del linguaggio e delle forme del film quanto le vicende sulla materia che ispirò il film, cioè i nessi dell’antefatto con la storia del nostro Paese. Ci riferiamo alla proposta di un film, L’armata sagapò, del cineasta Renzo Renzi nel 1952. Σ 'αγαπώ / S’agapo in greco vuol dire “ti amo”. “Sagapo army “era la locuzione attributiva coniata e propagandata dalla BBC Overseas Service, meglio nota come Radio Londra, che alludeva alle precipue inclinazioni delle truppe dell’esercito italiano in Grecia.
Per quanto lo sceneggiatore di Mediterraneo, Enzo Monteleone, non abbia voluto ammettere di essersi ricollegato al canovaccio di Renzi, sono parecchie le argomentazioni che fanno propendere per l’opposto. Le diede lo stesso Renzi nel suo saggio L’ombra di Fellini: quarant'anni di rapporti con il grande regista… . Alle quali ci permettiamo di contribuire aggiungendo una nostra considerazione, per quello che può valere. Nella prefazione al libro di Elio Vittorini si legge infatti: …Questo libro potrebbe anche portare per sottotitolo “Cronache della guerra di Grecia” …. In via diretta ci racconta invece di come accadeva ch’essi si procurassero, di là della realtà artificiosa imposta loro, quel minimo di realtà naturale che sempre un soldato (o chiunque si trovi in un analogo stato di coercizione) cerca di procurarsi per riuscire ad essere ancora un uomo, e ad amare e soffrire umanamente, e avere fierezza d’uomo, umiltà d’uomo, illusioni d’uomo. …Ma, mentre si svolge la campagna contro il sopruso di Peschiera, è anche col piacere di rifare un cenno di solidarietà ai due giornalisti arrestati che pubblichiamo un libro con un titolo e una materia di tal genere.
Dunque Monteleone, lettore notoriamente attento, non poté certo ignorare la prefazione di Vittorini né il nesso tra la campagna italiana in Grecia e le implicazioni del caso Renzi-Aristarco. Probabilmente ragioni di marketing e di opportunità sconsigliarono di dare al film il titolo di quella che era nata molti anni addietro come una proposta che diede luogo ad un acceso dibattito politico e finì con il mettere in rilievo a distanza di tempo aspetti di una storia di eversioni.
Se abbiamo indugiato su certi aspetti della sceneggiatura non è per acribia cronachistica ma perché l’antefatto è non soltanto un episodio importante della storia del dopoguerra che ebbe ricadute politiche, giuridiche e sociali rilevanti ma un caso paradigmatico. Il paradigma di un Paese retto da un sistema parlamentare a democrazia limitata e da apparati accomunati da una costante pervicace inclinazione eversiva dietro la facciata. Gli stessi che mentre si spolmonavano in ossequi alla libertà e alla democrazia ne soffocavano invece lo sviluppo con piani subdoli e condotte criminogene dietro l’alibi del pericolo comunista. Nelle righe che seguono accenneremo ai fatti ed ai nessi.
Prima di andare oltre è opportuno riportare l’articolo di Renzo Renzi nella sua versione integrale; il corsivo è dell’autore. Reperirlo non è agevole.
1953 L'armata s'agapo' di Renzo Renzi da “Cinema nuovo, II ,n. 4, del 1° febbraio 1953
Carica eroica, l'ultimo film di Francesco De Robertis dedicato alla fine della cavalleria italiana nelle steppe di Russia, parte da un episodio che si prestava magnificamente per un grande film il quale mostrasse la scomparsa grottesca di un'Arma, finita in un sacrificio inutile per una guerra sbagliata, nata e concepita secondo i miti retorici, le aberrazioni nazionalistiche della peggiore tradizione italiana. Un simile film poteva anche non colpire il sacrificio dei singoli, ma prestarsi alla ricostruzione di un quadro storico, criticamente impostato e umanamente risolto. Esso finisce invece per confermare il mito dell'eroismo militare, inteso in maniera anonima, come un'azione buona in qualunque caso al servizio di qualunque idea, anche della tirannide imperialista.
Di film e documentari a carattere militare se n'e cominciati a produrre di nuovo, come ai bei tempi: Penne nere, Fiamme verdi, II caimano del Piave, II Piave mormorò, ecc. Naturalmente, per i produttori di questa roba, l'esercito è intoccabile, l'eroismo militare una cosa sacra in ogni modo. Tutto ciò, oltre a servire alla propaganda di una particolare politica, nasce dal concetto che la guerra è sacra perché fatale e inevitabile nella storia degli uomini; e quello che le appartiene non va in ogni caso discusso, perché consacrato dal sangue dei morti: anche se la discussione potrebbe servire ad evitare nuovo sangue e nuovi morti. È una mostruosità che vuole perpetuarsi, appagandosi di sé stessa. In Italia, a nostra memoria, gli unici che hanno osato colpire in qualche modo un ambiente militare sono stati Castellani di È primavera... e il Zampa di Anni difficili. Altrimenti le guerre del ventennio sono ignorate oppure ricordate col tono del cronista che vuole soltanto esporre, ma che in realtà tace il giudizio perché sarebbe positivo: e non è ancora il caso.
II sottoscritto, che ama I ‘accademia e ha tempo da perdere, in un simile clima, tenendo conto che l'Italia è un paese libero e democratico, ha pensato a un film proibito, ben certo che un articolo glielo avrebbero lasciato scrivere. Il film dedicato alla nostra occupazione in Grecia, potrebbe essere un esame di coscienza, una condanna alla guerra e insieme un atto di fratellanza verso un popolo come quello greco, nei confronti del quale abbiamo molti debiti. Il titolo: L'armata s'agapo’ (s'agapo' in greco significa "ti amo"); la definizione felicissima per la sua verità, veniva usata dalla propaganda inglese nei confronti delle nostre truppe di occupazione, tutte intente a sedurre le donne del luogo, prese per fame.
L'azione dovrebbe cominciare sui monti di Albania. Il nostro esercito, con gravi perdite, non riesce a battere l'eroica resistenza del piccolo popolo aggredito. Il duce in persona va a dirigere le operazioni, credendo nel proprio mito. Ma non si passa. È storia conosciuta. Alla fine i tedeschi irrompono alle spalle dello schieramento avversario e noi ci troviamo a recitare la parte dei vincitori, senza avere vinto. La Grecia, in uno stato pauroso di fame, si appresta a subire il regime di occupazione. Dalla tragedia dei monti di Albania, al grottesco della nostra situazione di falsi vincitori, dall'operetta, alla farsa. Ciò che avvenne. Tutto il film, condotto in chiave di commedia (che ha un inizio e una inevitabile conclusione tragica) dovrebbe descrivere la nostra occupazione, per caratterizzarla, al fine di estrarne un'interpretazione storica.
Accadde, infatti, che gli alti comandi, depositari dell'iniziativa di guerra (per cominciare l'operetta basterebbe musicare il dialogo sulla preparazione della campagna riportata nell'opuscolo Il bastone e la carota, attribuendo all'autore, Mussolini, la parte del tenore) cercassero di mantenere in piedi un'impalcatura imperiale che aveva una base concreta soltanto nel prestigio militare degli alleati tedeschi e nei loro metodi terroristici. I soldati italiani non rispondevano; né capivano l'Impero, la loro parte di conquistatori. Molti giovani ufficiali, dal canto loro, allevati dal fascismo, assistendo allo spettacolo operettistico, incapaci di rovesciare il giudizio nel senso di una condanna alla guerra e alle sue delittuose ragioni storiche, attribuivano alle truppe la responsabilità di non essere all'altezza della "missione imperiale". Insomma, accade che il fante, l'artigliere, giustamente incapaci di comprendere una guerra assurda, dettero sfogo a un caratteristico istinto nazionale: il "gallismo".
Gli episodi che racconteremo serviranno soltanto a documentare un poco il discorso. A Naupilia, ad esempio, presso le città murate di Argo e Tirinto, partecipai a un corso per ufficiali, dove si insegnava il comportamento imperiale nei riguardi della popolazione: camminare in mezzo alla strada, non cedere mai il passo, non fraternizzare, avere sempre ragione. Intanto ufficiali e soldati andavano giorno e notte, in maniera clamorosa, con le donne greche, per conquistare le quali bastava una pagnotta (era la tariffa). Logicamente la percentuale degli affetti da malattie veneree era assi alta. Essi venivano accolti in luoghi separati, ma scappavano continuamente, di notte, per continuare i loro esercizi.
Il problema primo di ogni comando di presidio era, dunque, la casa di tolleranza. Tuttavia l'amore italiano, portato sul piano imperiale, non si arrestava. Ci furono anche matrimoni col rito greco ortodosso, andati a monte alla fine della guerra. La passione amorosa toccava gli stessi alti comandi. Quando uno di essi si spostò dal Peloponneso all'Epiro, la casa di tolleranza lo seguì al completo perché tutti sapevano che la direttrice era l'amante del comandante. La scena fu alquanto ridicola. La colonna, con le "signorine" al seguito, non era ancora scomparsa, che già i tedeschi, subentrando, sgombravano l'edificio del piacere gettando i letti dalle finestre. Altrove, un mio diretto superiore faceva l'amore con una madre. Perciò si trattava di sorvegliare il figlio di pochi mesi, durante l'operazione. Allora partiva in avanscoperta l'attendente del capitano, il quale si trasformava in balia asciutta, prendendo in consegna il piccolo. La madre, rassicurata, si toglieva le scarpe, usciva in punta di piedi a raggiungere il capitano tra i fichidindia. (Ho sempre pensato che un episodio simile potrebbe essere commentato dall'aria di Nemorino de L'elisir d'amore: "Io so solo - io so solo sospirar!").
I greci sfruttavano, a loro volta, la situazione. E se avevano bisogno di un permesso, mandavano le mogli o le sorelle a far sorrisi. Perché il nostro punto debole era assai popolare. Nei treni affollatissimi, dove si svolgeva clamorosamente il mercato nero, lo scompartimento degli ufficiali italiani era sempre completato da donne greche le quali, concedendosi frettolosamente, facevano passare valige di olio e sapone. E lo spionaggio avversario aveva trovato in un intero popolo di donne le sue mille Mata Hari: al punto che gli inglesi conoscevano, di noi, persino le potenzialità più segrete.
Amore a parte, l'atmosfera dei presidi era assai divertente. Per assicurare i viveri alla truppa si era diffusa l'usanza di coltivare orti e organizzare allevamenti di conigli, anche allo scopo di dimostrare che noi eravamo un popolo "rurale". I colonnelli, i comandanti di presidio si era quindi trasformati in fattori di campagna, la cui maggior preoccupazione era la staccionata di un orto (che ordinavano in termini perentori) oppure la morte improvvisa di un coniglio. Intanto le fortificazioni, costruite con pietre pericolanti e terriccio, sarebbero crollate in testa ai soldati, in caso di sbarco avversario. Così come le divise erano a pezzi, inadatte al clima, creando spesso autentici plotoni di straccioni.
Tutto intorno, il paesaggio greco. Quello che più impressiona nella Grecia d'oggi è l'impiego dei caratteri dell'alfabeto che fu di Omero, di Eschilo, di Erodoto, per propagandare le gomme Dunlop o la benzina Shell; oppure per servire all'insegna di un bar. Il paesaggio greco è più piccolo dell'immagine che ci se ne fa leggendo i classici. Ma Pilos mantiene una sua grandiosità. Da Pilos partivano i convogli per l'Africa. Spesso la scorta di cacciatorpediniere tornava dopo poche ore perché i convogli erano stati regolarmente affondati, ai tempi di El Alamein. Tutto ciò sapevamo noi, preoccupati di amare le greche, ma non sapeva la nostra opinione pubblica.
L'operetta sarebbe stata facile e anche allegra, se non avesse nascosto la sopraffazione e i molti dolori della guerra. Il fenomeno partigiano greco tardò un poco a manifestarsi. In principio la nazione era prostrata dalla fame a dalla sconfitta. Poi cominciarono a riaversi. Le formazioni partigiane, gli "andartes", appartenevano ad una miriade di raggruppamenti politici. Nel Peloponneso, contrariamente ad altre zone di maggior importanza strategica, non dettero mai molto fastidio. Tuttavia contribuivano a creare un'atmosfera fantastica di guerriglia, inducendo le nostre truppe a spostamenti notturni, ad allarmi, dietro segnalazione di razzi misteriosi, il lancio di paracadutisti, le operazioni segrete di sottomarini avversari che sbarcavano armi ed emissari sulle coste. Quegli spostamenti, in lunghe colonne, ci portavano dal Golfo di Arcadia alle montagne del Taigeto, a Corinto, a Calamata, a Sparta, in mezzo a paesi sperduti di pastori. Nelle povere case c'erano sempre le fotografie dei greci emigrati in America, che si erano ricordati delle famiglie: un poco gangsterizzati negli abiti, un poco con quell'aria che hanno gli italiani di Cristo tra i muratori : il volto solido, mosso da una sventura affrontata tenacemente, di tutti gli emigranti. Noi portavamo via soprattutto le riserve casalinghe di olio.
Benché non abbiamo mai seguito l'esempio barbaricamente terroristico dei tedeschi, ogni tanto si fucilava qualche ostaggio, per rappresaglia ad attentati contro di noi da parte degli andartes. Ricordo due fucilazioni. Una volta era il turno di un ragazzetto: tanto umile e dimesso che il comandante del plotone d'esecuzione non si era nemmeno accorto di averlo tra i piedi. Prima della scarica il ragazzetto, messo contro il muro, guardò con gli occhi tristi il comandante del plotone e gli rivolse, con la mano, un timido cenno di saluto. Un'altra volta si dovevano fucilare due giovani ostaggi, Gliaco e Giorgio. Gliaco era tranquillo, mentre Giorgio tremava dalla paura. Era notte in aperta campagna. I due stavano seduti sopra una panca illuminata dai fari incrociati delle autocarrette. Per calmare un poco Giorgio il prete greco gli offerse un bicchiere di vino: ma Giorgio non voleva bere. Allora Gliaco intervenne e gli disse queste parole socratiche: Pine, Ghiorghio, pame sto calò ("Bevi, Giorgio, andiamo verso il bello"). Poi morirono. I greci sapevano morire; lo dicevano tutti.
I nostri soldati, dal canto loro, per mancanza di una sufficiente organizzazione, non andavano in licenza: moltissimi fin dai tempi della campagna di Francia. Avevano rischiato la morte in Francia, poi in Albania, senza vedere, per anni, le loro famiglie, i loro figli. Così cominciarono a verificarsi casi di suicidio. Nella mia zona, in pochi mesi si contarono otto suicidi. I soldati, nonostante gli amori, erano esasperati. Nella mia compagnia spararono due volte contro gli ufficiali. Naturalmente i Tribunali militari li condannavano a morte e sarebbero, forse, stati fucilati se la guerra non fosse finita all'improvviso, con una conclusione logica. L'8 settembre il reggimento del quale facevo parte fu catturato, senza combattere, da una compagnia di tedeschi, proprio mentre a Cefalonia accadeva l'unico episodio dignitoso ed eroico di quelle giornate.
Un mio collega riuscì a fuggire sui monti, aiutato dalla padrona della locale casa di tolleranza (vedete che questo è un tema importante). Un altro si sbarazzò della divisa per mettere quella di un domatore, che aveva pescato chissà dove. Con la sua gran giubba rossa girava impettito tra cumuli d'armi deposte, inseguito da una turba di bimbi greci. Quando si trattò di eseguire l'ammainabandiera, formammo un picchetto di ufficiali; ma, poiché non ci eravamo messi d'accordo, alcuni salutarono con la mano alla bustina, altri rimasero semplicemente sull'attenti: in tal modo riuscì stonata anche quell'ultima cerimonia. Poi coloro che non aderirono ai tedeschi, furono caricati su lunghi treni, attraversarono i Balcani e andarono a purgarsi nei campi di concentramento di Polonia e di Germania, tra fame e stenti. Molti morirono. La nostra generazione deve parlare di queste cose.
Inizieremo dagli sviluppi più recenti e poi andremo a ritroso per rendere più agevole l’evidenza dei nessi tra presente e passato.
1996 Gli armadi della Repubblica
Nel 1996 il giudice Guido Salvini riapre le indagini su Piazza Fontana. Dà mandato al prof. Aldo Giannuli, consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, di effettuare la ricognizione di documenti probatori a fronte di quanto stava emergendo dalle deposizioni e dalle ammissioni di elementi di estrema destra. Giannuli, incrociando vari documenti e fonti, scopre il 4 ottobre un archivio “dimenticato” in un deposito di pertinenza del Ministero dell’Interno, in via della Circonvallazione Appia n.132 a Roma. In quei 200 faldoni, 150.000 fascicoli non protocollati, emergono le prove della condotta illegale e anticostituzionale dei servizi segreti, informazioni essenziali per la lettura delle trame dietro la strategia della tensione, anche se poche direttamente riferibili a Piazza Fontana. Emergono anche numerosi risvolti sulle attività investigative sottratte all’Autorità giudiziaria, distorsioni, il dossieraggio e il controllo continuo dei vertici istituzionali, di magistrati. C’è perfino la parte di un ordigno usato per un attentato su un treno del 1969, pochi mesi prima di piazza Fontana. Una svolta singolare per leggere gli eventi di due decenni e per rivedere la storiografia della Repubblica del dopoguerra.
L’anno successivo è la volta del giudice Carlo Mastelloni titolare dell’inchiesta sul disastro dell’aereo Argo 16, un Douglas C-47 dell’Aeronautica Militare nella disponibilità dei servizi segreti, precipitato nel 1973 a Marghera in condizioni rimaste non chiarite (ancora oggi gli atti sono coperti dal segreto di stato). I vertici dei nostri servizi dichiararono più volte che l’aereo fu sabotato dal Mossad per ritorsione contro la liberazione di cinque terroristi palestinesi, e, più in generale come mezzo di dissuasione contro la politica filo-araba del governo italiano. Dopo una serie di reticenze, incriminazioni, deduzioni, Mastelloni mette sotto sequestro il registro delle fonti dell’Ufficio Affari Riservati e acquisisce una parte dei fascicoli recuperati nel deposito della Circonvallazione Appia.
Tra gli allegati all’istruttoria di Mastelloni emergono anche dei documenti sul caso Renzi- Aristarco, tema centrale di queste righe.
Il quadro storico-culturale dei primi anni ‘50
Il cinema aveva una posizione di rilievo negli anni antecedenti l’inizio della diffusione dei programmi televisivi. Sono gli anni del neorealismo, di De Sica, Rossellini, De Santis, Visconti, Zavattini. Il cinema neorealista passa dalla descrizione realista dell’ambiente alla denuncia sociale in un Paese che stentava a trovare una via per attenuare le disuguaglianze economiche. La preoccupazione viva della classe dirigente democristiana era quella di impedire alle sinistre di trarre vantaggio dalla diffusione di un certo tipo di film. Il clima è idoneo. Nasce infatti nel 1949 la censura preventiva, il cui ideatore fu G. Andreotti: per ottenere un finanziamento pubblico la sceneggiatura doveva superare il vaglio di un’apposita commissione. Inoltre per ottenere la licenza di esportazione occorreva che non si riscontrassero elementi di diffamazione dell’Italia. Come non bastasse, il potente ministro degli Interni, Scelba, bolla senza esitazioni il cinema attento alle problematiche sociali come “culturame”. Sull’Italia di stretta osservanza atlantica vigila l’onnipotente e onnipresente ambasciatrice degli Stati Uniti, Clare Boothe Luce con posizioni oltranziste, pronta a vedere ovunque sotterfugi comunisti per la presa del potere. D’altronde oltreoceano quelli sono gli anni del maccartismo imperante.
Per quanto riguarda invece l’apparato della Polizia in tema di prevenzione e repressione la situazione è la seguente. Sino alla fine degli anni ‘50 l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni coordinava gli uffici politici delle Questure e il Casellario politico centrale. Il Casellario è stato attivo sino al 1970. …Raccolse investigazioni politiche condotte non solo nei confronti di esponenti del mondo politico e sindacale ma anche nei confronti di insegnanti, pubblici funzionari o dipendenti di agenzie internazionali, di giornalisti e industriali considerati di sinistra e perfino di iscritti ai corsi di lingua russa. Da questo punto di vista è evidente la continuità con l'archivio dell'ex Divisione polizia politica, creata durante il fascismo e soppressa nel 1944 Archivio di Stato.
Erano anche attive delle squadre informative a livello centrale che riferivano direttamente ai vertici del servizio, senza alcuna relazione con gli uffici periferici. Erano impiegate per monitorare i personaggi ritenuti più pericolosi. Furono i precursori di certi gruppi speciali come la famigerata “squadra 54” che su piazza Fontana svolse indagini orientate a Milano senza riferire una virgola ai magistrati, alle sole dipendenze di D’Amato e Russomanno, numeri 1 e 2 del servizio segreto “Ufficio Affari Riservati”.
1953 Il caso Renzi-Aristarco
“Cinema Nuovo”, rivista fondata dal critico Guido Aristarco, fu un punto di riferimento di prim’ordine della critica cinematografica negli anni ‘50. La rubrica “Proposte per un film” ospitava delle anteprime di sceneggiature, stimoli per la realizzazione di un film. Nel n. 4, uscito il 1° febbraio 1953, figurava un articolo di Renzo Renzi titolato "L' armata S' Agapò". L’autore, ex ufficiale di fanteria in Grecia nel biennio 1942-43, era partito animato da un’ammirazione acritica per il regime, come tanti, ma dovette ricredersi ben presto. Non soltanto per l’impreparazione dell’esercito, dei quadri, per le forti carenze degli armamenti e della logistica, ma soprattutto per il comportamento degli italiani, i giri della prostituzione, le fucilazioni sommarie, il sacrificio inutile di militari in condizioni disperate, le sottrazioni vessatorie di generi di prima necessità alla popolazione civile.
Di realizzare un film non se ne fece nulla. Fiorì invece nei mesi successivi un animato dibattito culturale attraverso le pagine della rivista.
Il 10 settembre, cioè 7 mesi dopo (si faccia caso alla durata, per il seguito) Renzo Renzi e Guido Aristarco sono tratti in arresto dai carabinieri per iniziativa della procura militare e condotti al carcere militare di Peschiera con l’accusa di “vilipendio delle forze armate” per avere il primo scritto l’articolo di un film “proibito” ed il secondo per averlo pubblicato. La fattispecie del reato era (ed è) descritto dall’art.81 del codice penale militare di pace, ma anche dall’art. 290 del codice penale ordinario. Fu competente però il tribunale militare in quanto il codice penale militare vigente era quello del 1941 e l’art.7 prevedeva che la legge penale militare si applicasse anche ai militari in congedo “quando commettano alcuno dei reati contro la fedeltà o la difesa militare”. Sia Renzi che Aristarco erano sotto il profilo giuridico militari in congedo per essere stati l’uno sottotenente, l’altro sergente nel Regio Esercito.
Un’aberrazione giuridica oltretutto ancora più odiosa in quanto avulsa da ogni intenzione ed interesse di discontinuità tra l’esercito asservito al regime fascista e l’esercito della Repubblica. I vertici delle Forze Armate persero un’occasione per marcare il salto e dichiararsi al servizio della democrazia e del paese piuttosto che apparire come braccio armato del potere di turno, quale che fosse.
1953 Il processo Renzi-Aristarco
Vasta fu l’eco degli arresti. Ne nacque un acceso dibattito che vide la stragrande maggioranza di intellettuali, giuristi, giornalisti prendere posizione contro la mostruosità giuridica. Tutta la stampa si schierò contro, fatta eccezione delle pubblicazioni di destra oltranzista “Il Borghese”, Il secolo d’Italia” e del Corriere che attenuò il rigore delle posizioni conservatrici assecondando una nota linea cerchiobottista. Non mancarono nel Corriere le voci dissonanti, tra cui quella di Benedetti nettamente contrario agli arresti e quella di Montanelli interprete invece dei conservatori moderati che propendevano nettamente per la sanzione, sia pure con una pena mite.
Il processo fu celebrato dal 5 all’8 ottobre 1953 a Milano.
Il presupposto giuridico del tribunale militare era la continuità giuridica dello Stato nel passaggio dal fascismo alla democrazia.
Ci furono parecchie testimonianze che confermarono quanto aveva descritto Renzi.
Si parlò di quattro civili greci per rappresaglia a seguito della morte di due soldati italiani in uno scontro con gli andartes. Nella sua requisitoria il procuratore militare, generale Solinas, giunse ad affermare: … Guardate il processo a Kappler per le esecuzioni alle Ardeatine: Kappler non è stato condannato perché ha ucciso trecentoventi persone, ma perché oltre a quelle trecentoventi ne ha uccisa qualche altra che superava questo numero. La legge di guerra, cioè, considera " rappresaglia legittima " l'uccisione di civili del paese occupato, secondo un certo rapporto con le perdite dei militari. Ciò che è illegittimo è andare oltre la cifra stabilita. Ma siccome in quel caso in Grecia, il rapporto stabilito di uno contro due non era stato superato, ecco che si tratta di legittima rappresaglia, di giusta punizione. Io comprendo che questo possa sembrare mostruoso, ed anche io sento la mostruosità di una situazione di questo genere. Ma la legge parla chiaro, e noi non possiamo farci nulla…
Renzi fu condannato a 7 mesi e 3 giorni di reclusione con rimozione del grado, Aristarco a 6 mesi di reclusione. Entrambi beneficiarono della condizionale.
1947- 1970? Sorvegliare, reprimere, punire
Dai documenti rinvenuti nel deposito della Circonvallazione Appia sono venuti a galla dopo ben 45 anni dai fatti delle verità sconcertanti. Eccole.
Aristarco fu “attenzionato” dall’allora Divisione Affari Riservati già da marzo 1952 a seguito della segnalazione del questore di Nuoro che lo definiva autore di “propaganda socialcomunista” dopo la presentazione di un film su rivendicazioni sociali attuate anche “attraverso conflitti con la forza pubblica”. Anche Renzi è sorvegliato in quanto “orientato verso i partiti dell’estrema sinistra”, articolista del” soppresso quotidiano comunista Progresso d’Italia”.
Il 27 febbraio 1953 il quotidiano ateniese Akropolis pubblica un articolo sull’onda dell’articolo pubblicato da Renzi. Parla dei soldati di Mussolini che si dedicavano parecchio all’amore con le greche. L’articolo suscita clamore ed imbarazzo tra gli espatriati italiani e a livello diplomatico. Fatto sta che l’addetto militare dell’ambasciata italiana redige un rapporto militare e lo inoltra al Ministero della Difesa con la nota “Gli organi informativi si incaricano di segnalare il fatto alle Autorità militari interessate”. Traduzione: fu il Sifar, i servizi segreti militari, a creare il caso e non la denuncia di un cittadino anonimo come si disse allora. Un mese dopo la procura militare di Milano, competente per territorio, inizia le indagini senza alcun avviso agli indagati. A settembre il questore di Milano avvisa il capo della Polizia che la Procura militare sta per spiccare parecchi mandati di cattura, tra cui figurava anche quello per il direttore dell’Unità. Ma i manovratori ritennero evidentemente che allargare il caso avrebbe potuto comportare effetti controproducenti. Si accontentarono di limitarsi ad incriminare Renzi ed Aristarco. Sui motivi per cui l’istruttoria durò cinque mesi non furono date spiegazioni convincenti, ma si può intuire che dietro l’orologio ci fosse una regia accorta per una posta che andava molto oltre una manifestazione di orgoglio ferito dell’esercito.
Aggiungiamo che i rapporti concernenti i “sovversivi di sinistra” erano classificati con la dicitura “segreto” con tutto ciò che ne conseguiva a livello operativo. Nel caso di cui stiamo parlando Aristarco ebbe il “privilegio” di guadagnarsi anche la sigla Z. Per i casi in cui questa veniva assegnata scattavano misure di sorveglianza davvero speciale, da estendere automaticamente anche a quanti esprimevano solidarietà ai sorvegliati Z. Cioè la propagazione di un virus. Per dovere di cronaca citiamo tra i malcapitati del caso il prof. Caccioppoli (insigne matematico napoletano), De Sica, Eduardo De Filippo, e persino Gaetano Salvemini e Piero Calamandrei (sic!), rei di avere avuto un contatto occasionale con Aristarco o espresso una critica sul caso.
Sempre dai documenti citati apprendiamo che Aristarco rimase sorvegliato speciale sino al 1968.
Concludendo, il caso Renzi-Aristarco, nato occasionalmente dalla pubblicazione dell’articolo L’armata sagapò, fu una squallida operazione montata ad arte nell’anno in cui erano aspri gli scontri a causa della legge truffa e nel quadro politico di cui si è dato cenno. Si fece di tutto per mettere fuori legge il partito comunista e dare la stura a provocazioni orientate. Alla luce di altri fatti e considerazioni, su cui non possiamo qui addentrarci, il titolo di questo paragrafo andrebbe completato per esattezza con:” ricattare, infiltrare, provocare”.
Gli anni antecedenti la strategia della tensione non hanno ancora ricevuto un’attenzione adeguata, forse perché meno coperte da inchieste eclatanti, o per penuria di documenti disponibili o forse perché certi jongleurs furono assai più abili dei colleghi militari sia ad imbastire tessuti privi di smagliature sia a forgiare squadre rese compatte da un idem sentire. Un peccato, perché, a nostro avviso, la storiografia dello stragismo dovrebbe andare più a fondo negli anni ’50, si pensi a Portella delle Ginestre. Così come tra gli addetti ai lavori sarebbe opportuno che sorgessero spontanee alcune domande, ad esempio se le informative sui cittadini dopo il 1970 sono accessibili, se tutti i documenti non coperti dal segreto di stato sono versati nell’Archivio di Stato trascorsi 30 anni, se gli archivi delle Forze dell’ordine sono consultabili a tempo e luogo, insomma se e quali sono le regole da far valere per tutti i corpi istituzionali o se invece ciascuno si fa interprete delle necessità della sicurezza della Repubblica a sua discrezione.
Chi scrive ha motivo di ritenere che la sorveglianza dei cittadini, non più affidata ovviamente ad un Casellario, prosegue con forme certamente diverse ma di ignota trasparenza, rese ancora meno visibili e controllabili sia per carenza di regole sia per il substrato di raccolta (Databases distribuiti con layers differenziati in base ai livelli di abilitazione dei soggetti richiedenti).
Se queste note contribuiranno a destare qualche interesse sulla storia recente e meno recente anche ad un solo giovane lettore, mi considererò pago del tempo dedicato.
[Riccardo Gullotta]
Mediterraneo
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Mediterraneo
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La musica
Per la colonna sonora di Mediterraneo il duo Bigazzi-Falagiani ottenne il Globo d’oro nel 1991.
La colonna sonora integrale consta di 23 brani, di cui 21 sono raccolti in sequenza qui con l’indicazione dell’inizio temporale del brano.
I 23 brani si possono ascoltare singolarmente al link corrispondente:
Colonna sonora del film Mediterraneo
01. 00:00 L'arrivo
02. 01:45 Il tempo passa
03. 04:28 I Fratelli Munaron e La Pastorella
04. 04:58 Aziz il turco
05. 07:10 Stelle sull'Egeo
06. 10:07 Ritorno di un vecchio tenente
07. 11:08 Ballo in piazza
08. 14:56 La realtà che torna dal cielo
09. 15:57 L'asino e la Luna
10. 16:50 Progetti per il futuro
11. 19:32 Il Mare degli archi
12. 20:17 Cornamuse
13. 20:56 Tema di Vassilissa
14. 23:23 Il Paese dietro i lenzuoli
15. 25:02 Scene di vita in un'isola dell'Egeo
16. 25:53 Mediterraneo
17. 29:57 Il Mare dall’alto
18. 30:52 Lontani
19. 33:55 Noventa scompare nel blu
20. 34:30 Il ladro
21. 37:27 Il pope
22. xx:yy L’incontro
23. ww:zz Lo sbarco
Il film
Scena finale
L’intero film , ha una durata di 1 ora e mezzo.
Mediterraneo uscì nelle sale nel 1991 per la regia di Gabriele Salvatores. È una commedia amara che volle indicare il disorientamento dei giovani in quegli anni segnati dal crollo del Muro e dal distacco dalle ideologie. “Dedicato a tutti quelli che stanno scappando” riporta la didascalia finale. Per dare consistenza al messaggio lo sceneggiatore e il regista attualizzarono il disorientamento occorso qualche decennio prima, quello dei soldati italiani nella campagna di Grecia. Il film fu il risultato di una felice combinazione di elementi ad alto livello, regia, sceneggiatura, attori, musica. Non per nulla gli fu assegnato l’oscar per il migliore film straniero nel 1992.
Il film si ispirò al romanzo Sagapò di Renzo Biasion, una raccolta di racconti a carattere autobiografico, nati da un diario dell’autore, sottotenente sul fronte greco-albanese dal 1941 al ’43. Il tema centrale del libro non è la guerra ma i rapporti umani sullo sfondo della guerra. Fu pubblicato da Einaudi nell’ottobre 1952, in contemporaneità con il caso Renzi-Aristarco, di cui diremo avanti. Comunque sia, il film coprì in parte una lacuna della cinematografia italiana, restia a toccare certi argomenti e a mettere in discussione il mito autoassolutorio dell’”Italiano brava gente”. Un mito che, a dispetto di serie indagini storiografiche, non fu scalfitto dal film e rimane tuttora duro da ridimensionare.
Ciò che però ci preme descrivere non è tanto un’analisi del linguaggio e delle forme del film quanto le vicende sulla materia che ispirò il film, cioè i nessi dell’antefatto con la storia del nostro Paese. Ci riferiamo alla proposta di un film, L’armata sagapò, del cineasta Renzo Renzi nel 1952. Σ 'αγαπώ / S’agapo in greco vuol dire “ti amo”. “Sagapo army “era la locuzione attributiva coniata e propagandata dalla BBC Overseas Service, meglio nota come Radio Londra, che alludeva alle precipue inclinazioni delle truppe dell’esercito italiano in Grecia.
Per quanto lo sceneggiatore di Mediterraneo, Enzo Monteleone, non abbia voluto ammettere di essersi ricollegato al canovaccio di Renzi, sono parecchie le argomentazioni che fanno propendere per l’opposto. Le diede lo stesso Renzi nel suo saggio L’ombra di Fellini: quarant'anni di rapporti con il grande regista… . Alle quali ci permettiamo di contribuire aggiungendo una nostra considerazione, per quello che può valere. Nella prefazione al libro di Elio Vittorini si legge infatti: …Questo libro potrebbe anche portare per sottotitolo “Cronache della guerra di Grecia” …. In via diretta ci racconta invece di come accadeva ch’essi si procurassero, di là della realtà artificiosa imposta loro, quel minimo di realtà naturale che sempre un soldato (o chiunque si trovi in un analogo stato di coercizione) cerca di procurarsi per riuscire ad essere ancora un uomo, e ad amare e soffrire umanamente, e avere fierezza d’uomo, umiltà d’uomo, illusioni d’uomo. …Ma, mentre si svolge la campagna contro il sopruso di Peschiera, è anche col piacere di rifare un cenno di solidarietà ai due giornalisti arrestati che pubblichiamo un libro con un titolo e una materia di tal genere.
Dunque Monteleone, lettore notoriamente attento, non poté certo ignorare la prefazione di Vittorini né il nesso tra la campagna italiana in Grecia e le implicazioni del caso Renzi-Aristarco. Probabilmente ragioni di marketing e di opportunità sconsigliarono di dare al film il titolo di quella che era nata molti anni addietro come una proposta che diede luogo ad un acceso dibattito politico e finì con il mettere in rilievo a distanza di tempo aspetti di una storia di eversioni.
Se abbiamo indugiato su certi aspetti della sceneggiatura non è per acribia cronachistica ma perché l’antefatto è non soltanto un episodio importante della storia del dopoguerra che ebbe ricadute politiche, giuridiche e sociali rilevanti ma un caso paradigmatico. Il paradigma di un Paese retto da un sistema parlamentare a democrazia limitata e da apparati accomunati da una costante pervicace inclinazione eversiva dietro la facciata. Gli stessi che mentre si spolmonavano in ossequi alla libertà e alla democrazia ne soffocavano invece lo sviluppo con piani subdoli e condotte criminogene dietro l’alibi del pericolo comunista. Nelle righe che seguono accenneremo ai fatti ed ai nessi.
Prima di andare oltre è opportuno riportare l’articolo di Renzo Renzi nella sua versione integrale; il corsivo è dell’autore. Reperirlo non è agevole.
Carica eroica, l'ultimo film di Francesco De Robertis dedicato alla fine della cavalleria italiana nelle steppe di Russia, parte da un episodio che si prestava magnificamente per un grande film il quale mostrasse la scomparsa grottesca di un'Arma, finita in un sacrificio inutile per una guerra sbagliata, nata e concepita secondo i miti retorici, le aberrazioni nazionalistiche della peggiore tradizione italiana. Un simile film poteva anche non colpire il sacrificio dei singoli, ma prestarsi alla ricostruzione di un quadro storico, criticamente impostato e umanamente risolto. Esso finisce invece per confermare il mito dell'eroismo militare, inteso in maniera anonima, come un'azione buona in qualunque caso al servizio di qualunque idea, anche della tirannide imperialista.
Di film e documentari a carattere militare se n'e cominciati a produrre di nuovo, come ai bei tempi: Penne nere, Fiamme verdi, II caimano del Piave, II Piave mormorò, ecc. Naturalmente, per i produttori di questa roba, l'esercito è intoccabile, l'eroismo militare una cosa sacra in ogni modo. Tutto ciò, oltre a servire alla propaganda di una particolare politica, nasce dal concetto che la guerra è sacra perché fatale e inevitabile nella storia degli uomini; e quello che le appartiene non va in ogni caso discusso, perché consacrato dal sangue dei morti: anche se la discussione potrebbe servire ad evitare nuovo sangue e nuovi morti. È una mostruosità che vuole perpetuarsi, appagandosi di sé stessa. In Italia, a nostra memoria, gli unici che hanno osato colpire in qualche modo un ambiente militare sono stati Castellani di È primavera... e il Zampa di Anni difficili. Altrimenti le guerre del ventennio sono ignorate oppure ricordate col tono del cronista che vuole soltanto esporre, ma che in realtà tace il giudizio perché sarebbe positivo: e non è ancora il caso.
II sottoscritto, che ama I ‘accademia e ha tempo da perdere, in un simile clima, tenendo conto che l'Italia è un paese libero e democratico, ha pensato a un film proibito, ben certo che un articolo glielo avrebbero lasciato scrivere. Il film dedicato alla nostra occupazione in Grecia, potrebbe essere un esame di coscienza, una condanna alla guerra e insieme un atto di fratellanza verso un popolo come quello greco, nei confronti del quale abbiamo molti debiti. Il titolo: L'armata s'agapo’ (s'agapo' in greco significa "ti amo"); la definizione felicissima per la sua verità, veniva usata dalla propaganda inglese nei confronti delle nostre truppe di occupazione, tutte intente a sedurre le donne del luogo, prese per fame.
L'azione dovrebbe cominciare sui monti di Albania. Il nostro esercito, con gravi perdite, non riesce a battere l'eroica resistenza del piccolo popolo aggredito. Il duce in persona va a dirigere le operazioni, credendo nel proprio mito. Ma non si passa. È storia conosciuta. Alla fine i tedeschi irrompono alle spalle dello schieramento avversario e noi ci troviamo a recitare la parte dei vincitori, senza avere vinto. La Grecia, in uno stato pauroso di fame, si appresta a subire il regime di occupazione. Dalla tragedia dei monti di Albania, al grottesco della nostra situazione di falsi vincitori, dall'operetta, alla farsa. Ciò che avvenne. Tutto il film, condotto in chiave di commedia (che ha un inizio e una inevitabile conclusione tragica) dovrebbe descrivere la nostra occupazione, per caratterizzarla, al fine di estrarne un'interpretazione storica.
Accadde, infatti, che gli alti comandi, depositari dell'iniziativa di guerra (per cominciare l'operetta basterebbe musicare il dialogo sulla preparazione della campagna riportata nell'opuscolo Il bastone e la carota, attribuendo all'autore, Mussolini, la parte del tenore) cercassero di mantenere in piedi un'impalcatura imperiale che aveva una base concreta soltanto nel prestigio militare degli alleati tedeschi e nei loro metodi terroristici. I soldati italiani non rispondevano; né capivano l'Impero, la loro parte di conquistatori. Molti giovani ufficiali, dal canto loro, allevati dal fascismo, assistendo allo spettacolo operettistico, incapaci di rovesciare il giudizio nel senso di una condanna alla guerra e alle sue delittuose ragioni storiche, attribuivano alle truppe la responsabilità di non essere all'altezza della "missione imperiale". Insomma, accade che il fante, l'artigliere, giustamente incapaci di comprendere una guerra assurda, dettero sfogo a un caratteristico istinto nazionale: il "gallismo".
Gli episodi che racconteremo serviranno soltanto a documentare un poco il discorso. A Naupilia, ad esempio, presso le città murate di Argo e Tirinto, partecipai a un corso per ufficiali, dove si insegnava il comportamento imperiale nei riguardi della popolazione: camminare in mezzo alla strada, non cedere mai il passo, non fraternizzare, avere sempre ragione. Intanto ufficiali e soldati andavano giorno e notte, in maniera clamorosa, con le donne greche, per conquistare le quali bastava una pagnotta (era la tariffa). Logicamente la percentuale degli affetti da malattie veneree era assi alta. Essi venivano accolti in luoghi separati, ma scappavano continuamente, di notte, per continuare i loro esercizi.
Il problema primo di ogni comando di presidio era, dunque, la casa di tolleranza. Tuttavia l'amore italiano, portato sul piano imperiale, non si arrestava. Ci furono anche matrimoni col rito greco ortodosso, andati a monte alla fine della guerra. La passione amorosa toccava gli stessi alti comandi. Quando uno di essi si spostò dal Peloponneso all'Epiro, la casa di tolleranza lo seguì al completo perché tutti sapevano che la direttrice era l'amante del comandante. La scena fu alquanto ridicola. La colonna, con le "signorine" al seguito, non era ancora scomparsa, che già i tedeschi, subentrando, sgombravano l'edificio del piacere gettando i letti dalle finestre. Altrove, un mio diretto superiore faceva l'amore con una madre. Perciò si trattava di sorvegliare il figlio di pochi mesi, durante l'operazione. Allora partiva in avanscoperta l'attendente del capitano, il quale si trasformava in balia asciutta, prendendo in consegna il piccolo. La madre, rassicurata, si toglieva le scarpe, usciva in punta di piedi a raggiungere il capitano tra i fichidindia. (Ho sempre pensato che un episodio simile potrebbe essere commentato dall'aria di Nemorino de L'elisir d'amore: "Io so solo - io so solo sospirar!").
I greci sfruttavano, a loro volta, la situazione. E se avevano bisogno di un permesso, mandavano le mogli o le sorelle a far sorrisi. Perché il nostro punto debole era assai popolare. Nei treni affollatissimi, dove si svolgeva clamorosamente il mercato nero, lo scompartimento degli ufficiali italiani era sempre completato da donne greche le quali, concedendosi frettolosamente, facevano passare valige di olio e sapone. E lo spionaggio avversario aveva trovato in un intero popolo di donne le sue mille Mata Hari: al punto che gli inglesi conoscevano, di noi, persino le potenzialità più segrete.
Amore a parte, l'atmosfera dei presidi era assai divertente. Per assicurare i viveri alla truppa si era diffusa l'usanza di coltivare orti e organizzare allevamenti di conigli, anche allo scopo di dimostrare che noi eravamo un popolo "rurale". I colonnelli, i comandanti di presidio si era quindi trasformati in fattori di campagna, la cui maggior preoccupazione era la staccionata di un orto (che ordinavano in termini perentori) oppure la morte improvvisa di un coniglio. Intanto le fortificazioni, costruite con pietre pericolanti e terriccio, sarebbero crollate in testa ai soldati, in caso di sbarco avversario. Così come le divise erano a pezzi, inadatte al clima, creando spesso autentici plotoni di straccioni.
Tutto intorno, il paesaggio greco. Quello che più impressiona nella Grecia d'oggi è l'impiego dei caratteri dell'alfabeto che fu di Omero, di Eschilo, di Erodoto, per propagandare le gomme Dunlop o la benzina Shell; oppure per servire all'insegna di un bar. Il paesaggio greco è più piccolo dell'immagine che ci se ne fa leggendo i classici. Ma Pilos mantiene una sua grandiosità. Da Pilos partivano i convogli per l'Africa. Spesso la scorta di cacciatorpediniere tornava dopo poche ore perché i convogli erano stati regolarmente affondati, ai tempi di El Alamein. Tutto ciò sapevamo noi, preoccupati di amare le greche, ma non sapeva la nostra opinione pubblica.
L'operetta sarebbe stata facile e anche allegra, se non avesse nascosto la sopraffazione e i molti dolori della guerra. Il fenomeno partigiano greco tardò un poco a manifestarsi. In principio la nazione era prostrata dalla fame a dalla sconfitta. Poi cominciarono a riaversi. Le formazioni partigiane, gli "andartes", appartenevano ad una miriade di raggruppamenti politici. Nel Peloponneso, contrariamente ad altre zone di maggior importanza strategica, non dettero mai molto fastidio. Tuttavia contribuivano a creare un'atmosfera fantastica di guerriglia, inducendo le nostre truppe a spostamenti notturni, ad allarmi, dietro segnalazione di razzi misteriosi, il lancio di paracadutisti, le operazioni segrete di sottomarini avversari che sbarcavano armi ed emissari sulle coste. Quegli spostamenti, in lunghe colonne, ci portavano dal Golfo di Arcadia alle montagne del Taigeto, a Corinto, a Calamata, a Sparta, in mezzo a paesi sperduti di pastori. Nelle povere case c'erano sempre le fotografie dei greci emigrati in America, che si erano ricordati delle famiglie: un poco gangsterizzati negli abiti, un poco con quell'aria che hanno gli italiani di Cristo tra i muratori : il volto solido, mosso da una sventura affrontata tenacemente, di tutti gli emigranti. Noi portavamo via soprattutto le riserve casalinghe di olio.
Benché non abbiamo mai seguito l'esempio barbaricamente terroristico dei tedeschi, ogni tanto si fucilava qualche ostaggio, per rappresaglia ad attentati contro di noi da parte degli andartes. Ricordo due fucilazioni. Una volta era il turno di un ragazzetto: tanto umile e dimesso che il comandante del plotone d'esecuzione non si era nemmeno accorto di averlo tra i piedi. Prima della scarica il ragazzetto, messo contro il muro, guardò con gli occhi tristi il comandante del plotone e gli rivolse, con la mano, un timido cenno di saluto. Un'altra volta si dovevano fucilare due giovani ostaggi, Gliaco e Giorgio. Gliaco era tranquillo, mentre Giorgio tremava dalla paura. Era notte in aperta campagna. I due stavano seduti sopra una panca illuminata dai fari incrociati delle autocarrette. Per calmare un poco Giorgio il prete greco gli offerse un bicchiere di vino: ma Giorgio non voleva bere. Allora Gliaco intervenne e gli disse queste parole socratiche: Pine, Ghiorghio, pame sto calò ("Bevi, Giorgio, andiamo verso il bello"). Poi morirono. I greci sapevano morire; lo dicevano tutti.
I nostri soldati, dal canto loro, per mancanza di una sufficiente organizzazione, non andavano in licenza: moltissimi fin dai tempi della campagna di Francia. Avevano rischiato la morte in Francia, poi in Albania, senza vedere, per anni, le loro famiglie, i loro figli. Così cominciarono a verificarsi casi di suicidio. Nella mia zona, in pochi mesi si contarono otto suicidi. I soldati, nonostante gli amori, erano esasperati. Nella mia compagnia spararono due volte contro gli ufficiali. Naturalmente i Tribunali militari li condannavano a morte e sarebbero, forse, stati fucilati se la guerra non fosse finita all'improvviso, con una conclusione logica. L'8 settembre il reggimento del quale facevo parte fu catturato, senza combattere, da una compagnia di tedeschi, proprio mentre a Cefalonia accadeva l'unico episodio dignitoso ed eroico di quelle giornate.
Un mio collega riuscì a fuggire sui monti, aiutato dalla padrona della locale casa di tolleranza (vedete che questo è un tema importante). Un altro si sbarazzò della divisa per mettere quella di un domatore, che aveva pescato chissà dove. Con la sua gran giubba rossa girava impettito tra cumuli d'armi deposte, inseguito da una turba di bimbi greci. Quando si trattò di eseguire l'ammainabandiera, formammo un picchetto di ufficiali; ma, poiché non ci eravamo messi d'accordo, alcuni salutarono con la mano alla bustina, altri rimasero semplicemente sull'attenti: in tal modo riuscì stonata anche quell'ultima cerimonia. Poi coloro che non aderirono ai tedeschi, furono caricati su lunghi treni, attraversarono i Balcani e andarono a purgarsi nei campi di concentramento di Polonia e di Germania, tra fame e stenti. Molti morirono. La nostra generazione deve parlare di queste cose.
Inizieremo dagli sviluppi più recenti e poi andremo a ritroso per rendere più agevole l’evidenza dei nessi tra presente e passato.
1996 Gli armadi della Repubblica
Nel 1996 il giudice Guido Salvini riapre le indagini su Piazza Fontana. Dà mandato al prof. Aldo Giannuli, consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, di effettuare la ricognizione di documenti probatori a fronte di quanto stava emergendo dalle deposizioni e dalle ammissioni di elementi di estrema destra. Giannuli, incrociando vari documenti e fonti, scopre il 4 ottobre un archivio “dimenticato” in un deposito di pertinenza del Ministero dell’Interno, in via della Circonvallazione Appia n.132 a Roma. In quei 200 faldoni, 150.000 fascicoli non protocollati, emergono le prove della condotta illegale e anticostituzionale dei servizi segreti, informazioni essenziali per la lettura delle trame dietro la strategia della tensione, anche se poche direttamente riferibili a Piazza Fontana. Emergono anche numerosi risvolti sulle attività investigative sottratte all’Autorità giudiziaria, distorsioni, il dossieraggio e il controllo continuo dei vertici istituzionali, di magistrati. C’è perfino la parte di un ordigno usato per un attentato su un treno del 1969, pochi mesi prima di piazza Fontana. Una svolta singolare per leggere gli eventi di due decenni e per rivedere la storiografia della Repubblica del dopoguerra.
L’anno successivo è la volta del giudice Carlo Mastelloni titolare dell’inchiesta sul disastro dell’aereo Argo 16, un Douglas C-47 dell’Aeronautica Militare nella disponibilità dei servizi segreti, precipitato nel 1973 a Marghera in condizioni rimaste non chiarite (ancora oggi gli atti sono coperti dal segreto di stato). I vertici dei nostri servizi dichiararono più volte che l’aereo fu sabotato dal Mossad per ritorsione contro la liberazione di cinque terroristi palestinesi, e, più in generale come mezzo di dissuasione contro la politica filo-araba del governo italiano. Dopo una serie di reticenze, incriminazioni, deduzioni, Mastelloni mette sotto sequestro il registro delle fonti dell’Ufficio Affari Riservati e acquisisce una parte dei fascicoli recuperati nel deposito della Circonvallazione Appia.
Tra gli allegati all’istruttoria di Mastelloni emergono anche dei documenti sul caso Renzi- Aristarco, tema centrale di queste righe.
Il quadro storico-culturale dei primi anni ‘50
Il cinema aveva una posizione di rilievo negli anni antecedenti l’inizio della diffusione dei programmi televisivi. Sono gli anni del neorealismo, di De Sica, Rossellini, De Santis, Visconti, Zavattini. Il cinema neorealista passa dalla descrizione realista dell’ambiente alla denuncia sociale in un Paese che stentava a trovare una via per attenuare le disuguaglianze economiche. La preoccupazione viva della classe dirigente democristiana era quella di impedire alle sinistre di trarre vantaggio dalla diffusione di un certo tipo di film. Il clima è idoneo. Nasce infatti nel 1949 la censura preventiva, il cui ideatore fu G. Andreotti: per ottenere un finanziamento pubblico la sceneggiatura doveva superare il vaglio di un’apposita commissione. Inoltre per ottenere la licenza di esportazione occorreva che non si riscontrassero elementi di diffamazione dell’Italia. Come non bastasse, il potente ministro degli Interni, Scelba, bolla senza esitazioni il cinema attento alle problematiche sociali come “culturame”. Sull’Italia di stretta osservanza atlantica vigila l’onnipotente e onnipresente ambasciatrice degli Stati Uniti, Clare Boothe Luce con posizioni oltranziste, pronta a vedere ovunque sotterfugi comunisti per la presa del potere. D’altronde oltreoceano quelli sono gli anni del maccartismo imperante.
Per quanto riguarda invece l’apparato della Polizia in tema di prevenzione e repressione la situazione è la seguente. Sino alla fine degli anni ‘50 l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni coordinava gli uffici politici delle Questure e il Casellario politico centrale. Il Casellario è stato attivo sino al 1970. …Raccolse investigazioni politiche condotte non solo nei confronti di esponenti del mondo politico e sindacale ma anche nei confronti di insegnanti, pubblici funzionari o dipendenti di agenzie internazionali, di giornalisti e industriali considerati di sinistra e perfino di iscritti ai corsi di lingua russa. Da questo punto di vista è evidente la continuità con l'archivio dell'ex Divisione polizia politica, creata durante il fascismo e soppressa nel 1944 Archivio di Stato.
Erano anche attive delle squadre informative a livello centrale che riferivano direttamente ai vertici del servizio, senza alcuna relazione con gli uffici periferici. Erano impiegate per monitorare i personaggi ritenuti più pericolosi. Furono i precursori di certi gruppi speciali come la famigerata “squadra 54” che su piazza Fontana svolse indagini orientate a Milano senza riferire una virgola ai magistrati, alle sole dipendenze di D’Amato e Russomanno, numeri 1 e 2 del servizio segreto “Ufficio Affari Riservati”.
1953 Il caso Renzi-Aristarco
“Cinema Nuovo”, rivista fondata dal critico Guido Aristarco, fu un punto di riferimento di prim’ordine della critica cinematografica negli anni ‘50. La rubrica “Proposte per un film” ospitava delle anteprime di sceneggiature, stimoli per la realizzazione di un film. Nel n. 4, uscito il 1° febbraio 1953, figurava un articolo di Renzo Renzi titolato "L' armata S' Agapò". L’autore, ex ufficiale di fanteria in Grecia nel biennio 1942-43, era partito animato da un’ammirazione acritica per il regime, come tanti, ma dovette ricredersi ben presto. Non soltanto per l’impreparazione dell’esercito, dei quadri, per le forti carenze degli armamenti e della logistica, ma soprattutto per il comportamento degli italiani, i giri della prostituzione, le fucilazioni sommarie, il sacrificio inutile di militari in condizioni disperate, le sottrazioni vessatorie di generi di prima necessità alla popolazione civile.
Di realizzare un film non se ne fece nulla. Fiorì invece nei mesi successivi un animato dibattito culturale attraverso le pagine della rivista.
Il 10 settembre, cioè 7 mesi dopo (si faccia caso alla durata, per il seguito) Renzo Renzi e Guido Aristarco sono tratti in arresto dai carabinieri per iniziativa della procura militare e condotti al carcere militare di Peschiera con l’accusa di “vilipendio delle forze armate” per avere il primo scritto l’articolo di un film “proibito” ed il secondo per averlo pubblicato. La fattispecie del reato era (ed è) descritto dall’art.81 del codice penale militare di pace, ma anche dall’art. 290 del codice penale ordinario. Fu competente però il tribunale militare in quanto il codice penale militare vigente era quello del 1941 e l’art.7 prevedeva che la legge penale militare si applicasse anche ai militari in congedo “quando commettano alcuno dei reati contro la fedeltà o la difesa militare”. Sia Renzi che Aristarco erano sotto il profilo giuridico militari in congedo per essere stati l’uno sottotenente, l’altro sergente nel Regio Esercito.
Un’aberrazione giuridica oltretutto ancora più odiosa in quanto avulsa da ogni intenzione ed interesse di discontinuità tra l’esercito asservito al regime fascista e l’esercito della Repubblica. I vertici delle Forze Armate persero un’occasione per marcare il salto e dichiararsi al servizio della democrazia e del paese piuttosto che apparire come braccio armato del potere di turno, quale che fosse.
1953 Il processo Renzi-Aristarco
Vasta fu l’eco degli arresti. Ne nacque un acceso dibattito che vide la stragrande maggioranza di intellettuali, giuristi, giornalisti prendere posizione contro la mostruosità giuridica. Tutta la stampa si schierò contro, fatta eccezione delle pubblicazioni di destra oltranzista “Il Borghese”, Il secolo d’Italia” e del Corriere che attenuò il rigore delle posizioni conservatrici assecondando una nota linea cerchiobottista. Non mancarono nel Corriere le voci dissonanti, tra cui quella di Benedetti nettamente contrario agli arresti e quella di Montanelli interprete invece dei conservatori moderati che propendevano nettamente per la sanzione, sia pure con una pena mite.
Il processo fu celebrato dal 5 all’8 ottobre 1953 a Milano.
Il presupposto giuridico del tribunale militare era la continuità giuridica dello Stato nel passaggio dal fascismo alla democrazia.
Ci furono parecchie testimonianze che confermarono quanto aveva descritto Renzi.
Si parlò di quattro civili greci per rappresaglia a seguito della morte di due soldati italiani in uno scontro con gli andartes. Nella sua requisitoria il procuratore militare, generale Solinas, giunse ad affermare: … Guardate il processo a Kappler per le esecuzioni alle Ardeatine: Kappler non è stato condannato perché ha ucciso trecentoventi persone, ma perché oltre a quelle trecentoventi ne ha uccisa qualche altra che superava questo numero. La legge di guerra, cioè, considera " rappresaglia legittima " l'uccisione di civili del paese occupato, secondo un certo rapporto con le perdite dei militari. Ciò che è illegittimo è andare oltre la cifra stabilita. Ma siccome in quel caso in Grecia, il rapporto stabilito di uno contro due non era stato superato, ecco che si tratta di legittima rappresaglia, di giusta punizione. Io comprendo che questo possa sembrare mostruoso, ed anche io sento la mostruosità di una situazione di questo genere. Ma la legge parla chiaro, e noi non possiamo farci nulla…
Renzi fu condannato a 7 mesi e 3 giorni di reclusione con rimozione del grado, Aristarco a 6 mesi di reclusione. Entrambi beneficiarono della condizionale.
1947- 1970? Sorvegliare, reprimere, punire
Dai documenti rinvenuti nel deposito della Circonvallazione Appia sono venuti a galla dopo ben 45 anni dai fatti delle verità sconcertanti. Eccole.
Aristarco fu “attenzionato” dall’allora Divisione Affari Riservati già da marzo 1952 a seguito della segnalazione del questore di Nuoro che lo definiva autore di “propaganda socialcomunista” dopo la presentazione di un film su rivendicazioni sociali attuate anche “attraverso conflitti con la forza pubblica”. Anche Renzi è sorvegliato in quanto “orientato verso i partiti dell’estrema sinistra”, articolista del” soppresso quotidiano comunista Progresso d’Italia”.
Il 27 febbraio 1953 il quotidiano ateniese Akropolis pubblica un articolo sull’onda dell’articolo pubblicato da Renzi. Parla dei soldati di Mussolini che si dedicavano parecchio all’amore con le greche. L’articolo suscita clamore ed imbarazzo tra gli espatriati italiani e a livello diplomatico. Fatto sta che l’addetto militare dell’ambasciata italiana redige un rapporto militare e lo inoltra al Ministero della Difesa con la nota “Gli organi informativi si incaricano di segnalare il fatto alle Autorità militari interessate”. Traduzione: fu il Sifar, i servizi segreti militari, a creare il caso e non la denuncia di un cittadino anonimo come si disse allora. Un mese dopo la procura militare di Milano, competente per territorio, inizia le indagini senza alcun avviso agli indagati. A settembre il questore di Milano avvisa il capo della Polizia che la Procura militare sta per spiccare parecchi mandati di cattura, tra cui figurava anche quello per il direttore dell’Unità. Ma i manovratori ritennero evidentemente che allargare il caso avrebbe potuto comportare effetti controproducenti. Si accontentarono di limitarsi ad incriminare Renzi ed Aristarco. Sui motivi per cui l’istruttoria durò cinque mesi non furono date spiegazioni convincenti, ma si può intuire che dietro l’orologio ci fosse una regia accorta per una posta che andava molto oltre una manifestazione di orgoglio ferito dell’esercito.
Aggiungiamo che i rapporti concernenti i “sovversivi di sinistra” erano classificati con la dicitura “segreto” con tutto ciò che ne conseguiva a livello operativo. Nel caso di cui stiamo parlando Aristarco ebbe il “privilegio” di guadagnarsi anche la sigla Z. Per i casi in cui questa veniva assegnata scattavano misure di sorveglianza davvero speciale, da estendere automaticamente anche a quanti esprimevano solidarietà ai sorvegliati Z. Cioè la propagazione di un virus. Per dovere di cronaca citiamo tra i malcapitati del caso il prof. Caccioppoli (insigne matematico napoletano), De Sica, Eduardo De Filippo, e persino Gaetano Salvemini e Piero Calamandrei (sic!), rei di avere avuto un contatto occasionale con Aristarco o espresso una critica sul caso.
Sempre dai documenti citati apprendiamo che Aristarco rimase sorvegliato speciale sino al 1968.
Concludendo, il caso Renzi-Aristarco, nato occasionalmente dalla pubblicazione dell’articolo L’armata sagapò, fu una squallida operazione montata ad arte nell’anno in cui erano aspri gli scontri a causa della legge truffa e nel quadro politico di cui si è dato cenno. Si fece di tutto per mettere fuori legge il partito comunista e dare la stura a provocazioni orientate. Alla luce di altri fatti e considerazioni, su cui non possiamo qui addentrarci, il titolo di questo paragrafo andrebbe completato per esattezza con:” ricattare, infiltrare, provocare”.
Gli anni antecedenti la strategia della tensione non hanno ancora ricevuto un’attenzione adeguata, forse perché meno coperte da inchieste eclatanti, o per penuria di documenti disponibili o forse perché certi jongleurs furono assai più abili dei colleghi militari sia ad imbastire tessuti privi di smagliature sia a forgiare squadre rese compatte da un idem sentire. Un peccato, perché, a nostro avviso, la storiografia dello stragismo dovrebbe andare più a fondo negli anni ’50, si pensi a Portella delle Ginestre. Così come tra gli addetti ai lavori sarebbe opportuno che sorgessero spontanee alcune domande, ad esempio se le informative sui cittadini dopo il 1970 sono accessibili, se tutti i documenti non coperti dal segreto di stato sono versati nell’Archivio di Stato trascorsi 30 anni, se gli archivi delle Forze dell’ordine sono consultabili a tempo e luogo, insomma se e quali sono le regole da far valere per tutti i corpi istituzionali o se invece ciascuno si fa interprete delle necessità della sicurezza della Repubblica a sua discrezione.
Chi scrive ha motivo di ritenere che la sorveglianza dei cittadini, non più affidata ovviamente ad un Casellario, prosegue con forme certamente diverse ma di ignota trasparenza, rese ancora meno visibili e controllabili sia per carenza di regole sia per il substrato di raccolta (Databases distribuiti con layers differenziati in base ai livelli di abilitazione dei soggetti richiedenti).
Se queste note contribuiranno a destare qualche interesse sulla storia recente e meno recente anche ad un solo giovane lettore, mi considererò pago del tempo dedicato.
[Riccardo Gullotta]