Anna, te scrivo da l'isola
stasera qua so tornà
gò visto la tò finetsra
no gò avuo cuor de cantà
... manco scriver stanotte
so in camera e tutti dorme
te scrivo soto al...
le paroe che volevo cantar
le paroe che volevo cantar
Venessia ancoa s'era bea
tre ani che no a vedevo
gli oci brusai dal sol
chi mancavi soltanto ti
Gò parlà col Sior Diretore.
Lui ‘l ma dito che presto ussirò.
Te portarò un aneleto a Nadal,
vegnarò co’ to pare a parlar
Ne l’angolo la borsa xè pronta
ti lo sa, no go bisogno de tanto.
Un per de braghe e do camise,
e el violin che te fa inamorar
Da tre anni ormai no o sono
ogni matina però l'o vardà
l'o netà col pano de seda
come o specio però gò netà
Ma adesso i me gà dito
che de matina lo posso sonà
in legnaia in fondo al giardino
sonerò le canzoni d'amor
Ana no manca tanto,
mi lo so che altri tosi te serca
ma te prego no vèrzer la porta
vedaremo gli anei a Nadal
vedaremo gli anei a Nadal
stasera qua so tornà
gò visto la tò finetsra
no gò avuo cuor de cantà
... manco scriver stanotte
so in camera e tutti dorme
te scrivo soto al...
le paroe che volevo cantar
le paroe che volevo cantar
Venessia ancoa s'era bea
tre ani che no a vedevo
gli oci brusai dal sol
chi mancavi soltanto ti
Gò parlà col Sior Diretore.
Lui ‘l ma dito che presto ussirò.
Te portarò un aneleto a Nadal,
vegnarò co’ to pare a parlar
Ne l’angolo la borsa xè pronta
ti lo sa, no go bisogno de tanto.
Un per de braghe e do camise,
e el violin che te fa inamorar
Da tre anni ormai no o sono
ogni matina però l'o vardà
l'o netà col pano de seda
come o specio però gò netà
Ma adesso i me gà dito
che de matina lo posso sonà
in legnaia in fondo al giardino
sonerò le canzoni d'amor
Ana no manca tanto,
mi lo so che altri tosi te serca
ma te prego no vèrzer la porta
vedaremo gli anei a Nadal
vedaremo gli anei a Nadal
envoyé par Dq82 - 6/10/2018 - 16:23
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Temuto come grido atteso come canto
Voce e fisarmonica Gualtiero Bertelli
Dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, che la genialità di Fabrizio De André portò all’attenzione del pubblico italiano, questo lavoro si può definire, a buon titolo, l’autentica ‘Spoon River’ italiana. Si parla di morti, questo è chiaro, ma i personaggi coinvolti non sono “morti e basta”. Loro sono morti due volte: la prima volta perché malati ed internati in un manicomio; la seconda volta perché ‘gli ospiti’, i reclusi, di origine ebraica, furono deportati ed uccisi. Tutti i personaggi raccontati nell’album hanno vissuto, o meglio, abitato, nell’isoletta di San Servolo, pittoresca oasi di terra della laguna veneta. Abitavano in una struttura molto antica, adibita a monastero per circa mille anni, ma che nel 1715 venne adibita ad ospedale militare e dopo neanche dieci anni venne trasformata in ‘manicomio’. E con questa destinazione è rimasta, nonostante vari passaggi, fino al 1978 quando fu chiuso definitivamente. In questi 253 anni, in quelle mura, è l’umanità intera che vi è passata e che lì, si è frantumata. Vi abitavano perché qualcuno ve li aveva portati, con la forza, perché ritenuti “matti”, inadatti alla vita sociale, inadatti alla vita, inadatti e basta.
Michele Gazich ha vissuto sull’isola per circa un mese ed ha deciso di leggere quel luogo con gli occhi di oggi ma cercando di andare indietro nel tempo, raccogliendo le storie presenti nelle schede personali delle migliaia di persone che in quel luogo di tormento vennero recluse; cercando di leggere, in quelle carte, l’umanità dolente e sofferente che in quel luogo è transitata, ha vissuto, ha vegetato, ci ha perso la vita. Un’umanità problematica e, magari, non necessariamente malata ma solamente vittima di depressioni, di esaurimenti nervosi, di difficoltà relazionali. Malati o forse solamente ‘disturbati’, oppure semplicemente necessitanti di un piccolo aiuto che, magari, pur richiesto non gli è mai arrivato. Un aiuto che forse li avrebbe aiutati a liberarsi dalle angosce del quotidiano, o almeno a sopportarle, vivendo un’esistenza ‘normale’ (qui sotto una foto d'archivio di qualche anno fa di San Servolo).
Tante le storie raccolte, fatte di dolore e di paure, di angosce e di spaventi, di silenzi e di urla notturne, di fantasmi interiori e di speranze interrotte. Con uno sguardo Gazich, come i reclusi, poteva osservare il mare e l’anelito di libertà racchiuso nell’orizzonte tra il cielo e l’acqua. Con un altro poteva scrutare le mura scrostate e piene di quelle “ombre” che in quel luogo persero la sanità mentale, l’intelletto, l’emozione, la dignità, la vita interiore per essere, in seguito, prelevate e condotte al macello, come capri espiatori di peccati mai commessi.
Per scrivere un album come questo, non poteva essere sufficiente la lettura di uno o più libri, l’osservazione di fotografie, la memoria composta grazie a qualche lontano e consumato articolo di giornale. No, la realtà andava affrontata, guardata negli occhi, con la paura di non poterle resistere. Le foto dei pazienti lì reclusi dovevano essere osservate e penetrate con attenzione, squadrate, interiorizzate. Quegli sguardi assenti, oppure furibondi, dovevano essere portati all’interno del sé più interiore per comprendere, fino in fondo e semmai fosse possibile, come quelle vita sono state spente, lentamente, e con inquietante metodo. Insieme alla visione delle fotografie, Gazich ha letto anche miriadi di cartelle cliniche, tra cui quelle relative alle persone raccontate nelle canzoni, i cui testi sono riportati nel bel libretto che accompagna quest’opera (un plauso al bel lavoro curato da Alice Falchetti).
È evidente che Temuto come grido, atteso come canto non è un album dalle tinte morbide, dai colori pastello, dai toni colmi di tenera poesia, che comunque è presente ma non è mai tenera, anzi… No, in queste canzoni (?) c’è la presenza dell’umanità straziata e crocifissa, c’è la presenza di chi è ”disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Isaia 53,3), c’è la presenza di chi, ancora oggi, prosegue nel reclamare la sua dignità di persona ma non ne possiede più i diritti; c’è l’immagine dell’uomo che viene trasfigurato nello strazio di una vita senza più speranza, senza luce, priva di orizzonti, destinata all’oblio dell’oscurità. C’è l’uomo nella sua immensità negata. C’è l’uomo deturpato ed offeso, senza più neppure la parvenza di una salvezza, seppure lontana, imminente, possibile…
Questo lavoro, lo si sarà compreso, non è certamente di semplice fattura ma intrinsecamente composto da sofferenze e disperazioni, dal male che ha pervaso ogni spazio della vita e che, dopo la sofferente reclusione, ha fatto subire a quegli uomini ed a quelle donne, colpevoli di essere figli di Abramo, la deportazione verso le camere a gas. Un evento che ha piantato, in quei poveri corpi, in quelle devastate menti, un altro chiodo, un'altra lama tagliente penetrata ad offendere il cuore. E, pare una bestemmia dirlo, forse in quel viaggio, in quell’ultimo viaggio, qualcuno di loro avrà anche pensato, forse per un istante, che l’approdo di quel treno, era la libertà. Ma così non fu.
L’album è strutturato in tre parti: un prologo, un gruppo di canzoni dedicato ad alcune persone recluse (i cui nomi sono di fantasia, ma sempre ispirati dalla storia personale di ogni paziente) e un saluto, per un totale di undici brani a comporre un mosaico di prodigiosa suggestione. Ma se ogni persona ha un senso ed un valore, ancor di più lo possiede chi ha vissuto in situazioni difficili, di tormento, di disintegrazione della propria umanità. Tutto comincia da quell’isola, San Servolo, dove il grido dei reclusi nel manicomio si perdeva verso le mura o, talvolta, verso il mare, senza che nessuno potesse ascoltarlo.
isolachenoncera
Gualtiero Bertelli suona la fisarmonica e canta (qui nella foto), alternandosi a Michele, in Anna, te scrivo, l’ultima traccia dell’album ed è un brano proposto nel dialetto di Venezia, ricco di sfumature e di delizie lessicali. Si tratta di una lettera immaginaria scritta da un recluso, cartella clinica n° 1940/324, entrato a San Servolo il 10 Ottobre del 1940. L’uomo è riuscito ad andare in gita a Venezia, è ritenuto affidabile, potrebbe essere definito malato modello e destinato ad uscire da quel luogo, ma è di origine ebraica e questo rappresenta la sua condanna. Verrà deportato nella risiera di San Sabba e morirà in luogo e data ignoti. Quello che viene raccontato è racchiuso in una lettera immaginaria scritta alla fidanzata dove racconta di quella gita come di un momento di reale libertà in attesa di quella vera e definitiva… “Gò parlà col Sior Diretore. Lui ‘l ma dito che presto ussirò. Te portarò un aneleto a Nadal, vegnarò co’ to pare a parlar… Ne l’angolo la borsa xè pronta ti lo sa, no go bisogno de tanto. Un per de braghe e do camise, e el violin che te fa inamorar…”. Qui dentro, in queste scarne parole, vi sono le speranze di un uomo, dell’Uomo… La voce e la chitarra “chiamano” a ballare un dolce walzer mentre le note stillate dalla fisarmonica di Bertelli, si allontanano verso l’orizzonte. La musica trascina via ogni ricordo, ogni amarezza, ogni dolore ma, anche, ogni speranza. Le illusioni aiutano a sopravvivere, questo il senso del brano e, spesso, si confondono con la realtà. Il violino lancia le sue note verso la luna e la fisarmonica alle stelle.