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Langue: grec moderne


Alkinoos Ioannidis / Αλκίνοος Ιωαννίδης

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Patrída
[2009]
Στίχοι: Αλκίνοος Ιωαννίδης
Μουσική: Αλκίνοος Ιωαννίδης
Πρώτη εκτέλεση: Αλκίνοος Ιωαννίδης
Testo, musica e prima interpretazione di Alkinoos Ioannidis
Lyrics, music and 1st performance by Alkinoos Ioannidis
'Αλμπουμ / Album : Νεροποντή [Neropondí] ["Nubifragio" / "Downpour"]

neropondi


Alkinoos Ioannidis è nato a Nicosia il 19 settembre 1969, vale a dire poco meno di cinque anni prima di quel luglio del 1974 che vide lo scoppio di Cipro. L' “enosis” dei gruppi neofascisti ciprioti che volevano imporre l'unificazione con la Grecia, il colpo di stato contro l'arcivescovo Makarios, l'intervento turco che spezzò l'isola in due, la fine della dittatura in Grecia, i bombardamenti, i profughi, le migliaia di vittime. Bambino che avevo comunque più del doppio dell'età di Alkinoos, mi ricordo quegli avvenimenti come fossero ieri; solo che me li ricordo, undicenne, da un'estate all'Isola d'Elba, mentre Alkinoos se li ricorda da sotto un tavolo, mentre i bombardamenti non provenivano dalla televisione o dalla radio, ma da là sopra nel cielo, da dove cadevano giù anche quei bei paracadute con cui suo padre tentava di meravigliarlo, di farlo restare un bambino di nemmeno cinque anni. C'era lui nel fuoco, Alkinoos Ioannidis, con quel nome omerico, Alcinoo, il re dei Feaci che ospita Ulisse nel suo palazzo di Scheria. Scheria, sembra, è su un'altra isola lontanissima da Cipro; è l'odierna Corfù. Alkinoos significa: “mente possente”.

Comincia qui questa riflessione in musica di Alkinoos sulla “patria”. La “patria”, almeno secondo il sentire comune, dovrebbe essere il luogo dove si è nati; curioso, e anche bello, che il traduttore inglese della canzone non usi il comune Fatherland, bensì Motherland: “terra madre”, “matria”. E così Alkinoos bambino, sotto un tavolo e sotto i bombardamenti, impara subito la guerra. Impara la “nazione” e la “razza”, impara il tradimento di coloro che più facevano i “patrioti”. Impara vedendo sua madre tenuta con un'arma puntata in bocca. Impara la storia della sua famiglia; un nonno profugo a Drama, nella Tracia macedone, ammazzato dai bulgari durante la guerra, l'altro nonno rifugiato nella Londra del 1940 fatto a pezzi sotto i bombardamenti hitleriani (“Londra nera” perché ridotta in cenere). Vede, da sotto quel tavolo durante i bombardamenti turchi su Nicosia, la “città bianca” (Λευκωσία), che ha tenuto il suo nome greco anche in turco (Lefkoşa), che è rimasta ed è tuttora l'unica città divisa al mondo. Sono passati quarantatré anni e rotti. Da una parte c'è l' “Europa”, e dall'altra non si sa cosa. Una Repubblica riconosciuta soltanto dalla Turchia, un “non stato”, un prodotto del fascismo, un prodotto della guerra, un perfetto prodotto delle “patrie”.

Alkinoos Ioannidis
Alkinoos Ioannidis
Nel 1989, Alkinoos Ioannidis si trasferisce in Grecia per studiare teatro. Nei primi vent'anni passati nella sua patria che non si sa bene che cosa sia, oramai, si racconta che avesse desiderato imparare a suonare la batteria, ma che si era rivolto alla chitarra perché a Cipro non c'era nemmeno un batterista che gli potesse insegnare. A questo punto, bisognerebbe fare una breve digressione su che cosa potrebbe voler dire essere un cipriota in Grecia; è la stessa “patria”, e come verrà effettivamente percepita questa cosa? Alkinoos, che non intende essere se stesso la sua patria, che cosa avrà provato? La “patria” che cosa sarebbe? Una stessa “lingua”? E che cosa gli avrebbe portato sotto quel tavolo e sotto i bombardamenti, la sua “patria” e i “patrioti” che parlano la stessa lingua? La guerra, il tradimento, lo sradicamento. Si tratta di questioni troppo complesse, forse, per continuare. Alkinoos si ritrova nella Grecia “ottimista” che sta sperimentando una specie di finto “boom economico” tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90. Si comincia addirittura a parlare di Olimpiadi: quelle del 1996, le Olimpiadi del centenario di quelle di Atene del 1896, sono reclamate a gran voce e sembra che tutto vada in quella direzione; ma non si sono fatti i conti con la Coca-Cola, e le olimpiadi del centenario vanno a finire a Atlanta, Georgia. Atene dovrà attendere il 2004 per sancire la sua “entrata nel consesso”, ed è l'inizio della fine.

Nel frattempo, là vicino, in Jugoslavia, tutto prende fuoco. Ancora una volta le “patrie” si mettono all'opera, e quando lo fanno, di solito, si muore. Si bombarda. Si divide. C'è qualcosa di Nicosia e di Cipro in tutto questo, qualcosa di già precisamente vissuto sotto quel tavolo, da bambino. Ci sono le mani e le braccia buttate per terra o nella spazzatura, e viene a mente il mercato di Sarajevo. Ci sono le bombe americane su Belgrado nel '99. Ci sono i genitori che scappano coi figli sulle spalle, e ci sono i “turisti della guerra”, quelli che vanno a fare i reportages, quelli che danno un senso esatto alla società dello spettacolo. E si comincia, lentamente, a formare questa canzone civile e terrificante. Mancano soltanto le Olimpiadi del dissanguamento, il sistema perfetto con cui la Grecia si ritrova in rovina grazie a una serie interminabile di finzioni, di “patriottismo”, di Europe e di stupidità del potere. La Grecia con le sue “grandi idee”, μεγάλες ιδέες, che le hanno portato la rovina del 1922, lo sradicamento dell'Asia Minore, la guerra civile, Makronissos, i Colonnelli, l'ubriacatura delle Olimpiadi e, a un certo punto, il dissesto totale, in ogni meandro della società, in ogni pertugio, in ogni strada, in ogni coscienza. E' qui, in questa Grecia, che la canzone si forma, nel 2009. Un anno dopo l'assassinio del quindicenne Alexis Grigoropoulos da parte di un poliziotto fascista. Nella Grecia (“patria”?) delle droghe e del pallone, addormentatore principe delle coscienze ed esso stesso, in definitiva, una “droga sintetica”. Nella Grecia degli “ultras di squadra”, delle tifoserie contrapposte negli stadi e nella vita (e le tifoserie non sono esse stesse “patrie”?). Nella Grecia di una città imbruttita e sconvolta “che si regge sul bisogno”. Nella Grecia di un popolo distrutto, e che molto ha fatto per autodistruggersi. Nella Grecia degli sbirri “albadoristi” che tirano lacrimogeni ai pompieri affinché tutto continui a bruciare, mentre le TV inquadrano altro e, peraltro, a volte chiudono come toccò alla TV pubblica. Tutto si confonde, ma la “patria” si svela definitivamente agli occhi di qualcuno che non ha rinunciato a vedere e a capire.

Un piccolo uomo con una chitarra in mano, che non sa bene né dove sta, né dove va. Un greco e uno straniero al tempo stesso. Qualcuno che vede dare addosso agli “stranieri”, perché la colpa è sempre loro. Qualcuno che ha vissuto lo sradicamento, e che lo rivede proprio in chi, come un trombone, fa appello alle “radici” e alla Storia; e bisogna fare molta attenzione a chi invoca sempre la Storia, perché usualmente si tratta di una Storia esclusivamente ad uso e consumo, una Storia che diventa una “droga sintetica”. Ne vediamo precisamente gli effetti, in Grecia e in tutta Europa. Persino Dionysios Solomòs, il “poeta nazionale”, il cantore della libertà dell'Ellade, l'autore dell'inno nazionale greco (che si chiama “Inno alla Libertà”, 'Υμνος εις την Ελευθερίαν), se ne sta là a cuore aperto ma veste Armani. L'esteriorità ha reclamato il suo prezzo, e come sempre si veste da Patria. E' qui che il piccolo chitarrista, l'Alkinoos Ioannidis da Cipro, enuncia ciò che gli fa paura, ed è una paura matura, una paura che si è coagulata per tramite di tutta una vita. E vorrei distaccarla, questa paura di Alkinoos, perché è la mia stessa. Vorrei distaccare quei pochi versi di questa canzone che torno a definire importante. Vorrei distaccarli perché sono una fotografia, esatta, spietata, senza appello; qualcosa da ritenere dentro. Dicevamo, un tempo, che "Nostra patria è il mondo intero"; ci siamo ritrovati con la Paura come "patria". E termino qui.

Non mi fanno paura né il mostro, né il mio angelo
e neanche la fine del mondo:
mi fai paura tu.
Mi fai paura tu, ultras della squadra,
cane fedele del partito, bulletto dell'organizzazione,
interprete di Dio, guru vestito da sacerdote,
soldatino strafatto, piccolo boy scout sperduto
che preghi e ammazzi,
che farfugli inni arrabbiati.
La tua patria è la paura. Stai cercando dei genitori,
e odi lo straniero che c'è in te.
Λοιπόν αγρίεψε ο κόσμος σαν καζάνι που βράζει,
σαν το αίμα που στάζει, σαν ιδρώτας θολός.
Πότε πότε γελάμε, πότε κάνουμε χάζι
και στα γέλια μας μοιάζει να γλυκαίνει ο καιρός.
Mα όταν κοιτάζω τις νύχτες τις ειδήσεις να τρέχουν
ξέρω ότι δεν έχουν νέα για να μου πουν.
Ήμουν εγώ στη φωτιά κι ήμουν εγώ η φωτιά
είδα το τέλος με τα μάτια ανοιχτά.

Είδα τον πόλεμο φάτσα, τη φυλή και τη ράτσα
προδομένη από μέσα απ’τους πιο πατριώτες
να `χουν τη μάνα μου αιχμάλωτη με το όπλο στο στόμα
τα παιδιά τους στολίζουν σήμερα τη Βουλή.
Κάτω από ένα τραπέζι, το θυμάμαι σαν τώρα,
με μια κούπα σταφύλι στου βομβαρδισμού την ώρα
είδα αλεξίπτωτα χίλια στον ουρανό σαν λεκέδες
μου μιλούσε ο πατέρας μου να μη φοβηθώ.
"Κοίταξε τι ωραία που πέφτουν,
τι ωραία που πέφτουν....".

Είδα γονείς ορφανούς, ο ένας παππούς απ’ τη Σμύρνη
στη Δράμα πρόσφυγας πήγε να βρει βουλγάρικη σφαίρα
κι ο άλλος Κύπριος φυγάς στο μαύρο τότε Λονδίνο
στα 27 του στα δύο τον κόψανε οι Ναζί.
Είδα μισή Λευκωσία, βουλιαγμένη Σερβία
στο Βελιγράδι ένα φάντασμα σ’ άδειο ξενοδοχείο
αμερικάνικες βόμβες και εγώ να κοιμάμαι
αύριο θα τραγουδάνε στης πλατείας τη γιορτή.
Είδα κομμάτια το κρέας μες στα μπάζα μιας πόλης
είδα τα χέρια, τα πόδια, πεταμένα στη γη.
Είδα να τρέχουν στο δρόμο με τα παιδιά τους στον ώμο
κι εγώ τουρίστας με βίντεο και φωτογραφική.

Εδώ στην άσχημη πόλη που απ’ την ανάγκη κρατιέται
ένας λαός ρημαγμένος μετάλλια ντόπα ζητάει Ολυμπιάδες
κι η χώρα ένα γραφείο τελετών.
Θα σου ζητήσω συγγνώμη που σε μεγάλωσα εδώ.
Τους είχα δει να γελάνε οι μπάτσοι
κι απ’ την Ομόνοια να πετάν’ δακρυγόνα στο πυροσβεστικό
στο παράθυρο εικόνισμα άνθρωποι σαν λαμπάδες
και τα κανάλια αλλού να γυρνούν το φακό.
Και είδα ξεριζωμένους να περνούν τη γραμμή
για μια πόρνη φτηνή ή για καζίνο και πούρα.
Έτσι κι αλλιώς μπερδεμένη η πίστη μας, η καημένη,
ο Σολωμός με Armani και την καρδιά ανοιχτή.

Δε θέλω ο εαυτός μου να `ναι τόπος δικός μου
ξέρω πως όλα αν μου μοιάζαν, θα `ταν αγέννητη η γη
δε με τρομάζει το τέρας ούτε κι ο άγγελός μου
ούτε το τέλος του κόσμου.
Με τρομάζεις εσύ.
Με τρομάζεις, ακόμα, οπαδέ της ομάδας
του κόμματος σκύλε, της οργάνωσης μάγκα
διερμηνέα Του Θεού, ρασοφόρε γκουρού
τσολιαδάκι φτιαγμένο, προσκοπάκι χαμένο
προσεύχεσαι και σκοτώνεις
τραυλίζεις ύμνους οργής
Έχεις πατρίδα το φόβο, γυρεύεις να βρεις γονείς
μισείς τον μέσα σου ξένο.
Κι όχι, δεν καταλαβαίνω
δεν ξέρω πού πατώ και πού πηγαίνω.

envoyé par Riccardo Venturi - Ελληνικό Τμήμα των ΑΠΤ "Gian Piero Testa" - 7/12/2017 - 13:15




Langue: italien

Traduzione italiana di Riccardo Venturi
7 dicembre 2017 13:17

PATRIA

E così il mondo si è incattivito come una caldaia bollente,
come il sangue che gocciola, come sudore torbido.
Di tanto in tanto ridiamo, di tanto in tanto ci divertiamo
e nelle nostre risa, il tempo sembra raddolcirsi.
Ma quando, la notte, guardo scorrere le notizie
so che non hanno niente di nuovo da dirmi.
C'ero io nel fuoco, e sono io il fuoco,
ho visto la fine con gli occhi aperti.

Ho visto in faccia la guerra, la nazione e la razza
tradita da dentro, da quelli che più erano patrioti,
che tenevano mia madre prigioniera con un'arma in bocca,
e i loro figli ora si fanno belli in Parlamento.
Da sotto un tavolo, me lo ricordo come fosse ora,
con una ciotola d'uva mentre bombardavano,
ho visto migliaia di paracadute come macchie nel cielo,
e mio padre mi diceva di non avere paura.
“Guarda come son belli mentre cadono giù,
come son belli mentre cadono giù...”

Ho visto genitori orfani, un mio nonno di Smirne,
profugo a Drama, si beccò una pallottola bulgara,
e l'altro, rifugiato cipriota a Londra, allora nera,
a 27 anni fu troncato in due dai nazisti.
Ho visto Nicosia divisa a metà, la Serbia in rovina,
un fantasma a Belgrado in un albergo vuoto,
bombe americane, e io a dormire,
domani canteranno festeggiando in piazza.
Ho visto pezzi di carne nella spazzatura di una città,
ho visto mani e gambe buttate via per terra.
Li ho visti correre per strada coi loro bambini in spalla,
e io a fare il turista con la videocamera e la macchina fotografica.

Qui in questa brutta città, che si regge sul bisogno,
un popolo distrutto chiede droghe sintetiche e olimpiadi,
e il paese è un ufficio di pompe funebri.
Ti chiedo scusa per averti cresciuto qui.
Li ho visti gli sbirri come ridevano,
come da Omonia tiravano lacrimogeni ai pompieri
alla finestra, come immagini sacre, gente ardere come candele
e le televisioni girare la telecamera da un'altra parte.
E ho visto gli sradicati passare oltre la linea
per una puttana da quattro soldi, per un casinò, per i sigari.
Le nostre povere convinzioni, in un modo o nell'altro, sono confuse,
Solomòs che veste Armani con il suo cuore aperto.

Non voglio essere io stesso la mia terra,
so che se tutto mi somigliasse, la Terra non sarebbe mai nata
Non mi fanno paura né il mostro, né il mio angelo
e neanche la fine del mondo:
mi fai paura tu.
Mi fai paura tu, ultras della squadra,
cane fedele del partito, bulletto dell'organizzazione,
interprete di Dio, guru vestito da sacerdote,
soldatino strafatto, piccolo boy scout sperduto
che preghi e ammazzi,
che farfugli inni arrabbiati.
La tua patria è la paura. Stai cercando dei genitori,
e odi lo straniero che c'è in te.
E no, io non capisco,
io che non so dove sto, e dove vado.

7/12/2017 - 13:17




Langue: anglais

English translation by yiorgos_k [01.04.2009] - stixoi.info
Traduzione inglese di yiorgos_k [01.04.2009] - stixoi.info
MOTHERLAND

So the world grew wilder, like a boiling cauldron,
like dripping blood, like clouded sweat.
Now we laugh, now we joke
and in our laughter time seems a bit sweeter.
But when I watch the news rushing at night
I know they have nothing new to say.
I was at the fire and I was the fire,
and I saw the end with wide open eyes.

I saw war's face and the nation and race,
betrayed from within by the most patriotic,
holding my mother captive with a gun in her mouth,
their children now shining in the Parliament floor.
From under a table [it seems it's still happening],
with a bowl of grapes while the bombing was on,
I saw a thousand parachutes, stains on the sky
and my father talked to me to keep me from being afraid
"Look how gracefully they fall,
gracefully they fall."

I've seen orphan parents, my one grandfather from Smyrna
a refugee in Drama found a Bulgarian bullet
and the other, Cypriot fugitive in black London
cut in half by the Nazis, aged 27.
I've seen a half of Lefkosia, a sinking Serbia,
a ghost in Belgrade in an empty hotel,
American bombs falling and me sleeping,
tomorrow they'll sing at the celebration in the square.
I saw pieces of meat in the rubble of a city,
I saw arms, legs thrown away on the ground.
I saw them running in the street with children on their shoulders
and I was just a tourist with video and a camera.

Here in this ugly city, holding onto need
a shattered people asks for steroid metals and Olympiads
and the country is a funeral home,
I will ask for your forgiveness that I raised you here.
I saw the cops laughing in Omonoia
and throwing tear gas to the firetruck,
at the window, like icons, humans blazed like candles
and the networks turned their lense elsewhere.
I saw the uprooted crossing the line
for a cheap prostitute, a casino or cigars;
our poor beliefs are confused after all,
Solomos wearing Armani and wearing his heart open.

I am not looking for myself to be my land,
I know that if everything was like me the earth would have stayed unborn;
I am not scared by the monster neither even my angel
nor by the end of the world.
I am scared of you,
it is you that still scares me, follower of a team,
dog of a party, thug of an organization,
God's translator, guru with priest's robes,
little wind-up soldier, lost little boy scout,
praying and killing,
stuttering hymns of rage.
Your country is fear, you're only looking for parents,
hating what's foreign inside you and no, I don't understand,
I don't know where I stand and where am going.

envoyé par Riccardo Venturi - Ελληνικό Τμήμα των ΑΠΤ "Gian Piero Testa" - 7/12/2017 - 13:30




Langue: français

Version française – PATRIE – Marco Valdo M.I. – 2017
d’après la version italienne de Riccardo Venturi (2017)
d’une chanson grecque – Πατρίδα – Alkinoos Ioannidis – Αλκίνοος Ιωαννίδης – 2009
Texte, musique et première interprétation : Alkinoos Ioannidis

Dialogue maïeutique
patrie


Laisse-moi te dire, Lucien l’âne mon ami, mon désarroi et combien est difficile ce destin du « traducteur » qui – comme moi – avance toujours dans le plus flou des brouillards. Laisse-moi te dire que cette fois, c’est pire encore.

Marco Valdo M.I. mon ami, qu’est-ce qu’il t’arrive ? Arrête donc de te lamenter et dis-moi plutôt ce qui te met dans un état pareil.

Vois-tu, Lucien l’âne mon ami, ce qui me désole, c’est que je me retrouve dans la position du trapéziste qui est en haut du mât et doit s’élancer sans filet. Je m’explique. Ordinairement, notre ami Venturi, qui traduit le grec (et des tas d’autres langues) vers l’italien, fait précéder ses traductions d’un commentaire ou d’indications qui éclairent le contexte et grâce auxquels j’arrive à cerner le sens général des choses. Parfois même, il y ajoute une multitude de détails et d’explications circonstanciées. Mais ici, rien, rien de rien. Cependant, comme tu le devines, sinon on n’en causerait même pas, j’ai fait une version française sans trop savoir et pour savoir.

Mais alors, tout est pour le mieux dans le meilleur des mondes, Marco Valdo M.I. mon ami.

Eh bien, Lucien l’âne mon ami, peut-être, si on veut regarder le monde à la manière de Pangloss. Mais, même en version française, cette chanson nécessite d’être un peu commentée. De qui, de quoi parle-t-elle ? Que sait-on si ce n’est qu’Alkinoos Ioannidis est un chanteur grec, d’origine chypriote et que par ailleurs, la Grèce et Chypre ont connu toutes deux des destins terribles. Chypre est coupée en deux. C’est sans doute d’elle qu’il est question. Quant à la Grèce qui est aussi la « patrie », elle subit les pressions que l’on sait et connaît en interne (elle aussi) une guerre civile plus ou moins larvée qui n’en finit pas. Et puis ce périple à travers les horreurs ? Drama, Londres, Belgrade ? De quelle patrie est-il question quand la chanson dit : « Ce pays est un funérarium ». Patrie, patrie, que peut bien signifier ce mot après tous ces désastres ?

De fait, dit Lucien l’âne, moi comme il est dit à la fin : « Moi, je ne sais pas où je suis, ni où je vais. ». Mais je te suggère, Marco Valdo M.I. de reprendre notre tâche et de tisser à nouveau le linceul de ce vieux monde patriote, désaxé, égaré, éperdu et cacochyme.

Heureusement !

Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
PATRIE

Ainsi le monde bout comme une bouilloire qui bout,
Comme le sang qui goutte, comme une sueur trouble.
De temps en temps nous rions, parfois nous nous amusons
Et avec notre rire, le temps semble s’adoucir.
Mais quand, la nuit, je regarde les nouvelles
Je sais qu’elles n’ont rien de neuf à me dire.
J’y étais moi dans le feu, et je suis le feu,
J’ai vu ma fin les yeux ouverts.

J’ai vu la guerre en face, ma nation et ma race
Trahies de l’intérieur par les plus patriotes,
Qui tenaient ma mère avec une arme en bouche,
Et leurs enfants maintenant paradent au Parlement.
Je me souviens comme si c’était maintenant. Dessous une table,
Avec en main, un bol de raisin pendant qu’ils bombardaient,
J’ai vu des milliers de parachutes comme des taches dans le ciel,
Et mon père me disait de ne pas avoir peur.
« Regarde comme ils sont beaux quand ils descendent,
Comme ils sont beaux quand ils descendent… »

J’ai vu des parents orphelins, mon grand-père de Smirne,
Réfugié à Drama, frappé par une balle bulgare,
Et l’autre, réfugié chypriote à Londres, alors noir,
À 27 ans fut coupé en deux par des nazis.
J’ai vu Nicosie divisée, la Serbie en ruine,
Un fantôme à Belgrade dans un hôtel vide,
Et moi dormant sous les bombes américaines,
Demain, ils chanteront en liesse sur la place.
J’ai vu des morceaux de chair dans les poubelles de la ville,
J’ai vu des mains et des jambes jetées à terre.
J’en ai vu courir avec leurs enfants sur le dos,
Et moi, en touriste avec ma caméra et mon appareil photo.

Ici dans cette ville enlaidie, qui vit dans le besoin,
Le peuple détruit réclame des drogues et des jeux,
Et le pays est un funérarium.
Je te demande pardon de t’avoir fait grandir ici.
J’ai vu à Omonia les sbires qui riaient et
Qui lançaient des lacrymogènes sur les pompiers.
Icônes aux fenêtres, les gens brûlaient comme des chandelles
Et les télévisions tournaient leurs caméras de l’autre côté.
Et j’ai vu les déracinés passer la ligne
Pour une putain de quatre sous, pour un casino, pour des cigares.
Nos pauvres certitudes, finalement, sont confuses,
Solomòs et son cœur ouvert, habillé d’Armani

Je ne veux pas être moi-même ma terre,
Je sais que si tout me ressemblait, la Terre ne serait jamais née.
Ni le monstre, ni l’ange ne me font peur
Et pas même la fin du monde :
C’est toi qui me fais peur.
Tu me fais peur, ultra de l’équipe,
Chien fidèle du parti, encarté de l’organisation,
Interprète de Dieu, gourou vêtu en prêtre,
Petit soldat égaré, petit boy scout éperdu
Qui prie et qui tue,
Qui bredouille des hymnes enragés.
Ta patrie, c’est la peur. Tu cherches tes parents,
Et tu hais l’étranger qui est en toi.
Et non, je ne comprends pas,
Moi, je ne sais pas où je suis, ni où je vais.

envoyé par Marco Valdo M.I. - 7/12/2017 - 20:20


Très chers Marco Valdo et Lucien Lâne, en effet je prépare normalement des introductions assez complètes; mais, ce matin, on me l'a empêché pour des "raisons techniques". Ma connexion s'est arrêtée soudainement, elle a fait sais pas quoi, un "crash", un "boum", un "paff", un "merde", et elle n'est revenue que ce soir. Ça arrive. Je n'ai pas même pu corriger un peu ma traduction, il y avait des fautes d'ortographe et vous savez combien je tiens à la précision, même formale, de tout ce que j'écris. Bienheureusement, j'ai vu que mes fautes n'ont pas affecté votre traduction, parce que c'est une chanson importante, à mon avis. Je vais finalement préparer l'introduction que j'avais écrit déjà dans ma tête; comme d'habitude, j'ai beaucoup apprécié votre Dialogue Maïeutique, et j'espère que mon "introduction différée" va pouvoir répondre à vos questions. Salud!

Riccardo Venturi - 7/12/2017 - 21:28


PS. Pour Marco Valdo et Lucien. En argot italien, "strafatto" ne signifie pas "égaré", mais plutôt "défoncé" de drogues, "plein à craquer" etc. C'est exactement le sens du grec φτιαγμένος, participe du verbe φτιάχνω "faire, fabriquer". PS2. L'introduction est faite.

Riccardo Venturi - 8/12/2017 - 07:26


Cher Ventu,

Mille mercis de ton petit mot et je vais lire soigneusement ton commentaire et en donner une version française – sans trop d’écarts.
Cela dit, à première lecture, il recoupe assez ce que j’avais en tête à propos de cette canzone et de son auteur-interprète.
(Oh, Ventu, dit Lucien l’âne, j’aime beaucoup ce joli surnom qui évoque le vent du large, la voix des îles ou le grand air venu de la montagne).
J’ai bien noté la remarque à propos de « strafatto » et j’avais, en effet, bien perçu le sens que tu évoques « défoncé, enfoncé, etc ». J’avais d’ailleurs relevé ceci : Per estens., gerg., di persona che ha assunto sostanze stupefacenti in gran quantità: quel ragazzo è s. di ecstasy. Mais, j’ai préféré – sans doute parce que le sens d’ « égaré » (« éwaré » en wallon), c’est-à-dire « perdu » est plus vaste et moins plat, moins direct et donc, plus fort – faire comprendre plutôt que dire. « ÉGARÉ, c’est l’état dans lequel se trouve ce soldat, un peu comme l’adversaire d’Ali qui se relève de l’uppercut qui l’a enfoncé, sonné, etc et se demande où il est, ce qu’il fait là… C’est cette durée et ses effets qui étaient ainsi suggérés par le mot « égaré ».
Sans rien dire du tempo des mots :

Petit soldat égaré, petit boy scout éperdu
Qui prie et qui tue,
Qui bredouille des hymnes enragés.

de la musique poétique qui guide l’écrit, sans compter que égaré, éperdu, éperdu et tue, égaré et enragés… se répondent comme des échos distordus.
C’est aussi une question d’oreille interne.
Bref, c’est venu comme ça.

Cordial

Marco Valdo M.I.

Marco Valdo M.I. - 8/12/2017 - 09:53


C'est parfait, alors (ps. "Ventu", c'est exactement le mot corse pour "vent", e tu sais que la Corse est juste en face de l'île d'Elbe, donc..."u ventu soffia"...)...! Merci encore à touldeux...!

Riccardo Venturi - 8/12/2017 - 12:37


Alcinoos Ioannidis est né à Nicosie le 19 septembre 1969, à savoir peu moins de cinq ans avant ce mois de juillet de 1974 qui vit l’éclatement de Chypre : l’« enosis » des groupes néofascistes chypriotes qui voulaient imposer l’unification avec la Grèce, le coup d’État contre l’archevêque Makarios, l’intervention turque qui brisa l’île en deux, la fin de la dictature en Grèce, les bombardements, les réfugiés, les milliers de victimes. Enfant, même si j’avais de toute façon plus du double de l’âge d’Alcinoos, je me rappelle ces événements comme si c’était hier ; sauf que je me souviens, enfant de onze ans, d’un été à l’Île d’Elbe, pendant qu’Alcinoos se rappelle le dessous une table, tandis que les bombardements ne provenaient pas de la télévision ou de la radio, mais du là-au-dessus dans le ciel, d’où descendaient ces beaux parachutes avec lequel son père tentait de l’étonner, de le faire rester un enfant d’à peine cinq ans. C’était lui dans le feu, Alcinoos Ioannidis, avec ce nom homérique, Alcinoos, le roi des Phéaciens qui reçoit Ulysse en son palais de Schérie. Schérie, semble-t-il, est sur une autre île très lointaine de Chypre ; c’est la Corfou d’aujourd’hui. Alcinoos signifie : « esprit puissant » – (Alcinoos le sage et père ce Nausicaa).

Ici commence cette réflexion en musique d’Alcinoos sur la « patrie ». La « patrie », au moins selon le sens commun, devrait être le lieu où on est né ; il est curieux, et même beau, que le traducteur anglais de la chanson n’emploie pas le terme commun Fatherland, mais plutôt Motherland : « terre mère », « matria ». Et ainsi Alcinoos enfant, sous une table et sous les bombardements, apprend vite la guerre. Il apprend la « nation » et la « race », il apprend la trahison de gens qui en outre, faisaient les « patriotes ». Il apprend en voyant sa mère menacée avec une arme pointée dans sa bouche. Il apprend l’histoire de sa famille : un grand-père réfugié à Drama, en Thrace macédonienne, tué par les Bulgares pendant la guerre ; l’autre grand-père réfugié à Londres en 1940 coupé en morceaux par les bombardements des hitlériens (« Londres noire » parce qu’incinérée – ou sous le « black out »). Il voit, de dessous cette table pendant les bombardements turcs sur Nicosie, la « ville blanche » (Λευκωσία), qu’il a tenu son nom grec même en turc (Lefkoșa), qui est restée et encore à l’heure actuelle, l’unique ville divisée au monde. Quarante-trois ans et plus sont passés. D’une part, il y a l’« Europe », et de l’autre on ne sait pas trop quoi – une république reconnue seulement par la Turquie, un « non-État », produit du fascisme, produit de la guerre, un parfait produit des « patries ».

En 1989, Alcinoos Ioannidis, se transfère en Grèce pour étudier le théâtre. Au cours des vingt premières années passées dans sa patrie dont il ne sait pas trop bien ce qu’elle est, on raconte à présent qu’il avait désiré apprendre à jouer de la batterie, mais qu’il s’était tourné vers la guitare, car à Chypre, il n’y avait même pas un batteur qui lui aurait pu lui apprendre. À ce point, il convient de faire une brève digression à propos de ce que pourrait vouloir dire être un Chypriote en Grèce ; c’est la même « patrie », et comment sera effectivement perçue cette chose ? Alcinoos, qui n’entend pas être soi-même sa patrie, qu’a-t-il ressenti ? La « patrie », que serait-elle ? Une même « langue » ? Et qu’est-ce qui l’aurait amené sous cette table et sous les bombardements, sa « patrie » et les « patriotes » qui parlent la même langue ? La guerre, la trahison, le déracinement. Il s’agit de questions trop complexes pour continuer. Alcinoos se retrouve dans la Grèce « optimiste » qui expérimente une espèce de semblant de « boom économique » à la fin des années ’80 et au début des années ’90. On commence même à parler d’Olympiades : celles de 1996, les Olympiades du centenaire de celles d’Athènes de 1896, sont réclamées à cor et à cri et semble que tout aille dans cette direction ; mais c’était compter sans Coca-Cola ; et les Olympiades du centenaire finirent à Atlanta, en Géorgie. Athènes devra attendre 2004 pour obtenir son « entrée dans le consensus », et c’est le début de la fin.

Entretemps, tout près, en Yougoslavie, tout prend feu. Encore une fois, les « patries » se mettent à l’œuvre, et lorsqu’elles le font, d’habitude, on meurt. On bombarde. On se divise. Il y a quelque chose de Nicosie et de Chypre dans tout ça, quelque chose déjà précisément vécu sous cette table, d’enfant. Il y a les mains et les bras jetés à terre ou aux ordures, et vient à l’esprit le marché de Sarajevo. Il y a les bombes américaines sur Belgrade en ’99. Il y a les parents qui s’enfuient avec les enfants sur leurs épaules et il y a les « touristes de la guerre », qui font du reportage, qui donnent un sens exact à la société du spectacle. Et commence, lentement, à prendre forme cette chanson civile et terrifiante. Manquent seulement les Olympiades de l’hémorragie, le système parfait avec lequel la Grèce se retrouve en ruine grâce à une série interminable de fictions, de « patriotisme », d’Europe et de la stupidité du pouvoir. La Grèce avec ses « grandes idées », μεγάλες ιδέες, qui lui ont apporté la ruine de 1922, le détachement de l’Asie mineure, la guerre civile, Makronissos, les Colonels, la gueule de bois des Olympiades et, à un certain point, la crise totale, dans chaque méandre de la société, dans chaque ride, dans chaque route, dans chaque conscience. C’est là, dans cette Grèce, que la chanson se forme en 2009, un an après l’assassinat du jeune de quinze ans Alexis Grigoropoulos par un policier fasciste. Dans la Grèce (« patrie » ?) des drogues et du ballon, prince endormeur des consciences et lui-même, en définitive, une « drogue synthétique ». En Grèce des « ultras d’équipe », des supporters opposés dans les stades et dans la vie (et les bandes de supporters ne sont-elles pas elles-mêmes des « patries » ?). En Grèce d’une ville enlaidie et bouleversée « qui vit dans le besoin ». En Grèce au peuple détruit, et qui a fait beaucoup pour s’autodétruire. En Grèce, des sbires « d’Aube Dorée » qui tirent des lacrymogènes sur les pompiers pour que tout continue à brûler, pendant que la TV cadre autre chose et, d’autre part, parfois ils arrêtent ce qui passe à la TV publique. Tout se confond, mais la « patrie » se dévoile définitivement aux yeux de quelqu’un qui n’ont pas renoncé à voir et à se comprendre.
Un petit homme avec une guitare à la main, qui ne sait pas bien où il est né, ni où il va. Un Grec et un étranger en même temps. Quelqu’un qui voit mettre tout sur le dos des « étrangers », parce que la faute est toujours la leur. Quelqu’un qui a vécu le déracinement, et qui le revoit clairement dans celui qui, comme un clairon, fait appel aux « racines » et à l’Histoire ; et il faut prêter beaucoup attention à celui qui invoque toujours l’Histoire, parce qu’usuellement, il s’agit d’une Histoire exclusivement utilitaire et consommable, une Histoire qui devient une « drogue synthétique ». Nous en voyons précisément les effets, en Grèce et dans toute l’Europe. Même Dionysios Solomòs, le « poète national », le chantre de la liberté des Ellades, l’auteur de l’hymne national grec (qui s’appelle « Hymne à la Liberté », ’Υμνος εις την Ελευθερίαν), est là à cœur ouvert mais habillé Armani. L’extériorité a réclamé son prix, et comme toujours elle s’habille de Patrie. C’est alors que le petit guitariste, Alcinoos Ioannidis de Chypre, énonce ce que lui fait peur, et c’est une peur mûre, une peur qui s’est coagulée au travers de toute une vie. Et je voudrais l’éloigner, cette peur d’Alcinoos, parce qu’elle est aussi la mienne. Je voudrais détacher ces quelques vers de cette chanson que je m’obstine à définir importante. Je voudrais les détacher parce qu’ils sont une photographie, exacte, impitoyable, sans appel ; quelque chose à retenir en soi. Nous disions, il y a un temps, « Notre patrie est le monde entier » ; nous nous retrouvons avec la Peur comme « patrie ». Et je termine ici. [R.V.]

Ni le monstre, ni l’ange ne me font peur
Et pas même la fin du monde :
C’est toi qui me fais peur.
Tu me fais peur, ultra de l’équipe,
Chien fidèle du parti, encarté de l’organisation,
Interprète de Dieu, gourou vêtu en prêtre,
Petit soldat égaré, petit boy scout éperdu
Qui prie et qui tue,
Qui bredouille des hymnes enragés.
Ta patrie, c’est la peur. Tu cherches tes parents,
Et tu hais l’étranger qui est en toi.

Marco Valdo M.I. - 8/12/2017 - 21:33




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