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Istaranyieri baan ahai

Kuule Yusuf Geedi
Lingua: Somalo


Lista delle versioni e commenti


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we are not going back

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In un articolo del novembre 2009 sulla rivista Internazionale, la scrittrice italo-somala Cristina Ali Farah parlava di Geedi, un giovane migrante somalo, allievo della scuola di italiano per stranieri Asinitas, che aveva scritto una canzone intitolata “Istaranyieri baan ahai”, sono straniero. Da tempo, nel Circolo Gianni Bosio (un’organizzazione romana indipendente di ricerca sulle culture popolari, la musica popolare, la storia orale) ci stavamo chiedendo se la musica dei migranti che ascoltavamo nelle strade, nei tram, nelle metropolitane di Roma, non fosse davvero la nuova musica popolare della città multietnica e multiculturale. La notizia su Geedi, insieme ad altri incontri avvenuti in quei giorni, ci convinse che si poteva fare. L’incontro con lui qualche tempo dopo grazie a Cristina Ali Farah fu l’inizio di un progetto che va avanti ormai da più di quattro anni e che,rovesciando il senso di una canzone romana del secondo dopoguerra, ha preso il titolo di “Roma forestiera”

Non fu facile rintracciare Geedi, che come molti migranti ha una vita precaria e mobile, ma infine ci vedemmo alla scuola Asinitas e registrammo la sua canzone.

Spiega Geedi:
Nessuno mi ha chiesto perché l’ho scritta. Quando sono arrivato non capivo niente e continuavo a sentire questa parola, stanier, stranier, e non capivo che cosa voleva dire perché mi si rivolgeva questa parola, mi chiedevo che cosa vorrà dire, sarà un insulto, vorrà dire stupido, qualche cosa così. Dopo tre mesi che ero qua e sono venuto a scuola ho capito che cosa significava, che la gente non accettava questi stranieri, appena sentivano questa parola si giravano dall’altra parte, come in segno di disapprovazione. A quel punto ho capito che era una parola che si usava per i rifugiati, per le persone che venivano da fuori, per indicare le persone che non facevano parte di questo paese, di questo luogo. Difatti nel primo verso dico anche “ospite”, ho imparato questa parola quando ho preso il permesso di soggiorno. Permesso di soggiorno – permesso di stare per dei giorni. I somali non hanno un passaporto riconosciuto, gli hanno chiesto dei soldi per avere un titolo di viaggio, per muoversi. Ma non serve a nulla perché puoi solo viaggiare all’interno dell’Italia, è come un abbonamento della metro. Tutto qui, permesso soggiorno e titolo viaggio. Queste tre cose, la parola straniero, il permesso di soggiorno, il titolo di viaggio mi hanno fatto capire che io non ho una legge che mi renda legale qui, ma sono soltanto un ospite.

Il cuore sovversivo della canzone di Geedi è la parola osbitaan, una parola che non esiste nella sua lingua ma è la sua maniera di pronunciare ospite, nel ritornello ripetuto dopo ogni strofa. “Ospite” è una delle ipocrite parole dei buoni sentimenti autoctoni: ci sentiamo generosi perché “ospitiamo” i migranti nel nostro paese (e nei nostri centri di “accoglienza”, veri e propri lager in cui tuttavia i rinchiusi vengono chiamati gentilmente “ospiti”. Come erano e continuano a essere gastarbeiter gli emigranti italiani a Dusseldorf o Zurigo). Ma chiamare qualcuno ospite, come spiega bene Geedi, significa dirgli che può soggiornare, stare – come lui spiega – “per dei giorni”, ma non per sempre, perché questa è casa nostra, e non sarà mai casa sua. Il soggiorno non è la stessa cosa della residenza, deve essere rinnovato periodicamente e dipende spesso dall’arbitrio delle autorità o dal clima politico del momento. È una concessione, non un diritto: “Quando venivo ero convinto che l’Italia sarebbe diventata il mio secondo paese e gli avrebbero riconosciuto dei documenti per cui potevo essere uguale alle altre persone che vivono qui”, commenta. Ecco allora parole – soggiorno, ospite – che cambiano non solo di suono ma soprattutto di senso sulle labbra di un migrante, che per di più porta con sé anche la di un’altra cultura (“In Somalia l’ospitalità ha un significato diverso, gli ospiti vengono trattati meglio”) e del colonialismo, “in Somalia gli italiani non erano ospiti – gli ospiti erano gli altri”. In inglese la nostra parola ospite si sdoppia in due: host per l’ospitante e guest per l’ospitato. Una sintetica definizione di colonialismo potrebbe essere: una relazione in cui i ruoli fra ospitante e ospitato si rovesciano.

L’esperienza di Geedi è probabilmente condivisa dalla maggioranza dei migranti in Italia.
asei.eu
Istaranyeeri baan ahayoo
Istaranyeeri baan ahayoo
Italiya osbitaan u ahay

Afrikan aan ahayoo
Afrikan aan ahayoo
Animal armi qaataan ka ordeynaa

Afrikana ma ahin
eoropana ma ahin
Imminka intee nahay innagu?

inviata da Dq82 - 25/11/2016 - 18:35



Lingua: Italiano

Traduzione italiana da asei.eu
SONO STRANIERO

Sono straniero
Sono straniero
Sono ospite dell’Italia

Sono africano
Sono africano
Fuggo dagli animali che portano armi

Non siamo africani
Non siamo europei
Ora dove siamo noi tutti?

inviata da Dq82 - 25/11/2016 - 19:08




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