D’un tratto gridò
che non era il destino
se il mondo soffriva
se il mondo soffriva.
D’un tratto gridò
che non era il destino
se la luce del sole
strappava bestemmie.
Era l’uomo colpevole
era l’uomo colpevole
era l’uomo colpevole
l'uomo!
D’un tratto gridò
almen potercene andare
far la libera fame
rispondere no.
Rispondere no
a una vita che adopera
amore e pietà
a legarci le mani.
La famiglia, il pezzetto di terra
amore e pietà, la famiglia
a legarci le mani
le mani!
D’un tratto gridò
che si deve rispondere:
NO!
che non era il destino
se il mondo soffriva
se il mondo soffriva.
D’un tratto gridò
che non era il destino
se la luce del sole
strappava bestemmie.
Era l’uomo colpevole
era l’uomo colpevole
era l’uomo colpevole
l'uomo!
D’un tratto gridò
almen potercene andare
far la libera fame
rispondere no.
Rispondere no
a una vita che adopera
amore e pietà
a legarci le mani.
La famiglia, il pezzetto di terra
amore e pietà, la famiglia
a legarci le mani
le mani!
D’un tratto gridò
che si deve rispondere:
NO!
inviata da Bernart Bartleby - 23/10/2016 - 22:11
Il testo integrale della poesia di Cesare Pavese
FUMATORI DI CARTA
Mi ha condotto a sentir la sua banda. Si siede in un angolo
e imbocca il clarino. Comincia un baccano d’inferno.
Fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,
della pioggia fan sí che la luce vien tolta,
ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
dànno dentro stravolte, a suonare a memoria
un ballabile. Energico, il povero amico
tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
rompe il chiasso sonoro, s’inoltra, si sfoga
come un’anima sola, in un secco silenzio.
Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati:
contadine le mani che stringono i tasti,
e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
Miserabile sangue fiaccato, estenuato
dalle troppe fatiche, si sente muggire
nelle note e l’amico li guida a fatica,
lui che ha mani indurite a picchiare una mazza,
a menare una pialla, a strapparsi la vita.
Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent’anni.
Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
Venne anch’egli a Torino, cercando una vita,
e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare
nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare
sulla propria fatica la fame degli altri,
e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace
camminando, assonnato, le vie interminabili
nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
e sapeva cos’era lavoro. Accettava il lavoro
come un duro destino dell’uomo. Ma tutti gli uomini
lo accettassero e al mondo ci fosse giustizia.
Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
ne era tutta coperta. Sentivano in sé
tanta disperazione da vincere il mondo.
Suona secco stasera, malgrado la banda
che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
della pioggia e alla luce. La faccia severa
fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
col fratello, piú triste di lui di dieci anni,
vegliavamo a una luce mancante. Il fratello studiava
su un inutile tornio costruito da lui.
E il mio povero amico accusava il destino
che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
a nutrire due vecchi, non chiesti.
D’un tratto gridò
che non era il destino se il mondo soffriva,
se la luce del sole strappava bestemmie:
era l’uomo, colpevole. Almeno potercene andare,
far la libera fame, rispondere no
a una vita che adopera amore e pietà,
la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.
Mi ha condotto a sentir la sua banda. Si siede in un angolo
e imbocca il clarino. Comincia un baccano d’inferno.
Fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,
della pioggia fan sí che la luce vien tolta,
ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
dànno dentro stravolte, a suonare a memoria
un ballabile. Energico, il povero amico
tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
rompe il chiasso sonoro, s’inoltra, si sfoga
come un’anima sola, in un secco silenzio.
Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati:
contadine le mani che stringono i tasti,
e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
Miserabile sangue fiaccato, estenuato
dalle troppe fatiche, si sente muggire
nelle note e l’amico li guida a fatica,
lui che ha mani indurite a picchiare una mazza,
a menare una pialla, a strapparsi la vita.
Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent’anni.
Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
Venne anch’egli a Torino, cercando una vita,
e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare
nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare
sulla propria fatica la fame degli altri,
e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace
camminando, assonnato, le vie interminabili
nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
e sapeva cos’era lavoro. Accettava il lavoro
come un duro destino dell’uomo. Ma tutti gli uomini
lo accettassero e al mondo ci fosse giustizia.
Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
ne era tutta coperta. Sentivano in sé
tanta disperazione da vincere il mondo.
Suona secco stasera, malgrado la banda
che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
della pioggia e alla luce. La faccia severa
fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
col fratello, piú triste di lui di dieci anni,
vegliavamo a una luce mancante. Il fratello studiava
su un inutile tornio costruito da lui.
E il mio povero amico accusava il destino
che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
a nutrire due vecchi, non chiesti.
D’un tratto gridò
che non era il destino se il mondo soffriva,
se la luce del sole strappava bestemmie:
era l’uomo, colpevole. Almeno potercene andare,
far la libera fame, rispondere no
a una vita che adopera amore e pietà,
la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.
Bernart Bartleby - 23/10/2016 - 22:23
Caro Bernard, penso di farti cosa gradita (spero non solo a te, però!) a inserire il link di un mio recente articolo sui (troppo pochi, ahimè) dischi italiani interamente dedicati a musicare le parole di Cesare Pavese.
Cesare Pavese in musica
Cesare Pavese in musica
Flavio Poltronieri - 14/9/2017 - 08:35
Grazie Flavio, molto bello e sentito il tuo articolo su Cesare Pavese in musica.
Volevo segnalarti che su Estatica purtroppo diverse altre tue recensioni non sono più disponibili: come mai?
Saluti
Volevo segnalarti che su Estatica purtroppo diverse altre tue recensioni non sono più disponibili: come mai?
Saluti
B.B. - 16/9/2017 - 13:24
Non saprei, mi avevano comunicato lo spostamento del sito su un nuovo server. Potrebbe derivare da quello?
Flavio Poltronieri - 16/9/2017 - 16:25
Ecco Bernart, hanno provveduto a rimediare all'inconveniente.
Flavio Poltronieri - 16/9/2017 - 17:33
×
Testo di Franco Fortini, ma si tratta di una rivisitazione dei versi finali della poesia “Fumatori di carta” di Cesare Pavese risalente al 1932 e inclusa nella raccolta “Lavorare stanca”, pubblicata nel 1936.
Musica di Sergio Liberovici, nel suo album del 1967 intitolato “Ogni giorno, tutti i giorni”, pubblicato da I Dischi del Sole.
Interpretata anche da Margot