envoyé par Bernart Bartleby - 1/6/2016 - 22:03
Segnali inquietanti... Piano piano, e ci risiamo...
Austria: bruciato centro rifugiati, nessuna vittima
Roma, 1 giu. - Il centro rifugiati di Altenfelden in Austria e' stato dato alle fiamme, prima che fosse occupato dai migranti. Il vasto incendio e' stato domato da 200 pompieri, ma dell'edificio rimane poco. Il ministro dell'Interno, Wolfgang Sobotka, ha condannato 'ogni forma di violenza contro i centri per i rifugiati'. Sobotka ha aggiunto che le indagini sono in corso. La Croce Rossa, che gestiva il centro di Altenfelden, si dichiara 'choccata' e stima danni per circa 300mila euro .
(La Repubblica)
Roma, 1 giu. - Il centro rifugiati di Altenfelden in Austria e' stato dato alle fiamme, prima che fosse occupato dai migranti. Il vasto incendio e' stato domato da 200 pompieri, ma dell'edificio rimane poco. Il ministro dell'Interno, Wolfgang Sobotka, ha condannato 'ogni forma di violenza contro i centri per i rifugiati'. Sobotka ha aggiunto che le indagini sono in corso. La Croce Rossa, che gestiva il centro di Altenfelden, si dichiara 'choccata' e stima danni per circa 300mila euro .
(La Repubblica)
B.B. - 1/6/2016 - 23:38
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Un album strumentale concepito da John Zorn (1952-), compositore, arrangiatore, produttore, sassofonista, multistrumentista newyorkese. Composto nel 1992, presentato al Festival Art Project di Monaco di Baviera e pubblicato l’anno seguente.
L’esecuzione è affidata ai musicisti Marc Ribot (chitarra), Anthony Coleman (tastiere), David Krakauer (clarinetto), Mark Feldman (violino), William Winant (percussioni), Frank London (trombe) e Mark Dresser (basso).
Le tracce di questo lavoro, interamente strumentale, dedicato alla “Notte dei Cristalli” del 9 e 10 novembre 1938, con cui i nazisti inaugurarono l’Olocausto ebraico, sono le seguenti:
- "Never Again"
- "Gahelet (Embers)"
- "Tikkun (Rectification)"
- "Tzfia (Looking Ahead)"
- "Barzel (Iron Fist)"
- "Gariin (Nucleus - The New Settlement)"
In questo caso le radici sono alquanto dolorose: la Shoah è una ferita ancora aperta per tutti gli ebrei, ed invocarne lo straziante ricordo costituisce un fondamentale esorcismo, un tormentato ritorno a casa. Il titolo dell'album fa infatti riferimento alla famigerata "Notte dei cristalli", tra il 9 e il 10 novembre del 1938, in cui la furia antisemita si abbatté sulla Germania. Diversi gruppi di fanatici nazionalisti, con l'assenso di Goebbels e Himmler, demolirono, saccheggiarono e bruciarono sinagoghe, negozi e abitazioni di ebrei, con l'uccisione di un centinaio di persone. Benché le vessazioni verso gli ebrei fossero cominciate da tempo, fu da quel giorno che la strada verso l'Olocausto proseguì senza intoppi (sempre al ‘38 del resto risalgono le prime spallate di Hitler in politica estera, con l'Anschluss e l'annessione dei Sudeti: il baratro era dietro l'angolo).
Zorn presentò questo concept album, imperniato sulla lucida rivisitazione del pogrom nazista, proprio in Germania nel 1992, al Festival Art Project di Monaco di Baviera, per poi pubblicarla l'anno successivo. Il geniale sassofonista compare solo nelle vesti di compositore, lasciando la scena ad alcuni dei migliori musicisti di origine ebrea: Marc Ribot (chitarra), Anthony Coleman (tastiere), David Krakauer (clarinetto), Mark Feldman (violino), William Winant (percussioni), Frank London (trombe) e Mark Dresser (basso).
L'intento di "Kristallnacht" fu quello di distillare il recupero del klezmer - quel tipo di musica strumentale sviluppatosi all'interno delle comunità ebraiche dell'Europa orientale - mediante le molteplici sfaccettature dell'avanguardia zorniana. Una sfida che ha caratterizzato una buona fetta della produzione di John negli anni '90, in particolare con le sublimi vertigini jazz dei Masada. Del resto la materia prima trattata ben si prestava a tali manipolazioni.
Il klezmer è anzitutto profondamente evocativo in quanto musica di origine rituale e liturgica. Inoltre, si presta intrinsecamente all'improvvisazione e all'ibridazione, come già dimostrato dai suoi intrecci col Jazz negli anni '50, quando molti reduci dall'Europa la fecero scoprire negli Stati Uniti.
L'incipit "Shtetl (Ghetto life)" è stupefacente : un malinconico jazz impostato dal clarinetto e dalla tromba su una classica melodia klezmer. L'atmosfera quasi onirica, sospesa tra la Berlino weimariana e arcane litanie semite, viene presto deturpata da campionamenti di una radio nazista: un inquietante discorso del Führer ("Republiken, FALLEN !"), dissonanze varie e brandelli di cabaret mitteleuropeo. Con "Never again" si sprofonda direttamente in un incubo sonico: scudisciate noise e deflagrazioni rumoriste ricreano l'effetto dei vetri spezzati in quella notte del ‘38, in cui andò in frantumi pure un bel pezzo di civiltà europea. Undici minuti il cui ascolto è - nelle intenzioni di Zorn - volutamente insostenibile, e in cui fugaci ghirigori di violino non sono che illusioni. "Gahelet (Embers)" conduce verso acque torbide e apparentemente calme, ma è solo un inganno per contemplare con calma l'orrore. Infatti con "Tikkun (Rectification)" entra in scena un febbricitante canovaccio, tra malate melodie yiddish, clangori di violino, echi free jazz e chitarre oppiacee.
"Tzfia (Looking ahead)" accentua il dito nella piaga, alternando assordanti silenzi a un deragliante furore, con sparuti accordi di pianoforte e abrasive accelerazioni chitarristiche intente a disegnare incubi degni di un poema di Baudelaire. "Barzel (Iron fist)" è il rumore del campo di battaglia, la "Machine Gun" di Hendrix stratificata in un muro di campionamenti e rumore. Ma è con la mostruosa "Gariin (Nucleus-the new settlement)" che arriva l'atto finale della saga zorniana. Un roboante e marziale percussionismo detta i tempi (quasi a scandire i ritmi delle camere a gas) il basso solca un groove sontuoso, mentre la sei corde di Marc Ribot disegna magnifiche e cacofoniche traiettorie.
Se, nei quasi 43 minuti in cui si dipana "Kristallnacht", i rari momenti di tenue melodia sembrano rappresentare la speranza nel futuro data dalla Terra promessa, una coltre di feedback sparge sale sulle ferite e rammenta l'intrinseca sofferenza della condizione ebraica nella città nuda.
(Recensione di donjunio da Debaser)