Divèle, carnente di nostrivisi che stanzi soprarma,
sia santocchiato il colore di tuisi,
raccavalli il baro-foro,
sia sediciata la vaschità
tanto soprarma come sul drum.
Rifilaci madolfa l'urto quoto,
picchiaci i buffi
come li picchiamo nostrivisi ai buffatori
e sino sbilanciarci in curo, ci sedici dal zaffio.
E nista più.
sia santocchiato il colore di tuisi,
raccavalli il baro-foro,
sia sediciata la vaschità
tanto soprarma come sul drum.
Rifilaci madolfa l'urto quoto,
picchiaci i buffi
come li picchiamo nostrivisi ai buffatori
e sino sbilanciarci in curo, ci sedici dal zaffio.
E nista più.
NOTE
Divèle “Dio”. Dal romanes Del, Divel (il Ferrero lo riporta nella forma Diwel). Termine di antichissima origine indoeuropea (ricordiamo che il romanes è una lingua di lontana origine indiana), cfr. il latino Dīvus, il sanscrito dyáuḥ, l'antico nordico Týr (pl. tívar).
Carnente “padre”. Termine usatissimo nella camorra napoletana del XIX secolo, anche nel significato di “madre”; i carnenti sono i figli. E' naturalmente connesso con “carne”: il padre e la madre “danno la carne”, i figli sono “carne della carne”.
Nostrivisi “noi, noialtri”. Ovvero “le nostre facce”.
Stanzi “stai, sei”. Nel gergo più moderno significa “preparare un colpo”, ma a Napoli (e a Bologna) ha ancora l'antico significato di “stare, essere”. Nei vari gerghi regionali ha una pletora di significati.
Soprarma “là sopra (in libertà); in cielo”. La voce sembra di origine gergale veneta e vale propriamente “lassù in libertà”. Come dire: Dio è riportato, nell'universo carcerario, a qualcuno che sta “in libertà”.
Santocchiato “santificato”. Il gergo usa qui un termine quasi ironicamente “tecnico”, dato che il santo è anche il “pie' di porco”.
Colore “nome, generalità”. I colori sono le generalità dell'arrestato, materiale di primaria importanza per il Pittore, ovvero il magistrato inquirente o il commissario di Pubblica Sicurezza, cui tocca dipingere il “quadro della situazione”. Da qui: Mi hanno colorito = “Sono stato identificato”.
Tuisi “tu”. A partire da nostrivisi, vostrivisi “noi, voi”, -(v)isi è diventato un vero e proprio morfema formativo per i pronomi personali; il gergo crea quindi anche delle caratteristiche morfologiche autonome. Si noti l'assenza dell'aggettivo possessivo, che viene costruito come specificazione: di tuisi “di te”.
Raccavalli “venga”. Raccavallare ha il senso di “arrivare, venire a cavallo”, qui usato probabilmente perché il congiuntivo di “venire” è forma “colta” non usata comunque nel linguaggio popolare.
Baro-foro “regno”. Ripreso di peso dalla lingua romanes: letteralmente “grande posto”, “luogo grande”. Baro “grande” è parola di origine indiana, foro (propriamente: foros) è parola di origine greca come tante nella lingua romanes (φόρος).
Sediciata “fatta, compiuta”. Da sediciare che vale propriamente “lavare, rimettere a nuovo”, attraverso la comune espressione (del gergo romanesco” sediciato e servito “spennato al gioco, 'fatto' e servito”). Di probabile origine cabalistica: un sedici è un “uomo accorto”, uno scaltro.
Vaschità, propriamente: “grandezza, nobiltà”. Da vasco “signore, ricco, nobile, antichissima voce furbesca prob. derivata da “guàscone” nel senso di “millantatore”. In Toscana, vasco indica un tipo di lussuoso cappello associato ai ricchi e ai nobili, mentre in Sicilia vascu è gergalmente il “padre” o l' “anziano rispettabile”. In ultima analisi, tutte derivazioni da Vascones, l'antico nome dei Baschi.
Drum. Al posto della “terra” il gergo riprende qui uno dei termini fondamentali della lingua romanes: drum “strada” (o drom). Tutti conosceranno il comune saluto rom lačo drom “buona strada, buon viaggio”, anche, magari, dalla canzone dei Litfiba. E' il greco δρόμος, dalla radice indoeuropea *dṛm- / *drom- “correre; viaggiare” (cfr. l'aoristo ἔδραμον “io corsi”).
Rifilaci “dacci”. Rifilare nel senso di “dare” è ormai comune nella lingua quotidiana popolare: “Mi ha rifilato una patacca”. Il senso di “dare fregando” è però ancora presente ed è antico.
Madolfa “oggi”. Poiché l' "oggi" è già espresso in "quoto" (v. sotto), si tratta di una ridondanza inutile (se il pane è "quotidiano", è chiaro che è anche "oggi"). La versione carceraria ci mette quindi un'imprecazione eufemistica alla Madonna ("madolfa" è della stessa famiglia di "madosca" eccetera).
Urto “pane”. Termine con parecchie varianti, l'originale delle quali sembra essere arto, artòn, ripreso direttamente dal greco ἄρτον. Nel gergo furbesco italiano più antico sono presenti, incredibilmente, alcuni grecismi classici, come le cere “mani” (da χεῖρες).
Quoto “quotidiano”. Abbreviazione della parola colta, caso frequente nei gerghi (ad esempio la perquisa per la “perquisizione”).
Picchiaci “ridacci”. Propriamente picchiare è usato sia in senso proprio, sia in quello di “dare sbattendo”.
Buffi “debiti”. Da buffo, propriamente “chiodo” (termine comunissimo anche nell'italiano popolare: “piantare/fare chiodi” = “fare debiti”; “a chiodo” = “a debito”). Usato qui anche il derivato, logico, buffatori.
Sino “non”. Probabilmente unione di “sì” e “no” (come nel romanesco “sine/nòne”).
Sbilanciarci. Ovvero “farci cadere”. Nel gergo carcerario come si fa cadere? Dando uno spintone, ovviamente, e facendo perdere l'equilibrio!
Curo. Il “capolavoro” della versione: il “curo” è propriamente la tentazione di tenersi per sé la refurtiva, fregando la banda dei sodali. Vale a dire: “non farci cadere nella tentazione di tenerci per noi la refurtiva”, ovvero “non freghiamo i compagni”.
Zaffio. Di origine forse araba, nel gergo napoletano e siciliano significa propriamente “brutto” (il passaggio a “male” è ovvio); gli zaffioni sono i “peccatori”. Ma è da notare la possibilissima derivazione da zaffo, il “male” supremo: lo sbirro.
Nista “Niente, nulla”. L' “amen” viene reso con “nulla più”. E' anche qui parola romanes, ništa, ripresa direttamente dalla lingua serba.
Divèle “Dio”. Dal romanes Del, Divel (il Ferrero lo riporta nella forma Diwel). Termine di antichissima origine indoeuropea (ricordiamo che il romanes è una lingua di lontana origine indiana), cfr. il latino Dīvus, il sanscrito dyáuḥ, l'antico nordico Týr (pl. tívar).
Carnente “padre”. Termine usatissimo nella camorra napoletana del XIX secolo, anche nel significato di “madre”; i carnenti sono i figli. E' naturalmente connesso con “carne”: il padre e la madre “danno la carne”, i figli sono “carne della carne”.
Nostrivisi “noi, noialtri”. Ovvero “le nostre facce”.
Stanzi “stai, sei”. Nel gergo più moderno significa “preparare un colpo”, ma a Napoli (e a Bologna) ha ancora l'antico significato di “stare, essere”. Nei vari gerghi regionali ha una pletora di significati.
Soprarma “là sopra (in libertà); in cielo”. La voce sembra di origine gergale veneta e vale propriamente “lassù in libertà”. Come dire: Dio è riportato, nell'universo carcerario, a qualcuno che sta “in libertà”.
Santocchiato “santificato”. Il gergo usa qui un termine quasi ironicamente “tecnico”, dato che il santo è anche il “pie' di porco”.
Colore “nome, generalità”. I colori sono le generalità dell'arrestato, materiale di primaria importanza per il Pittore, ovvero il magistrato inquirente o il commissario di Pubblica Sicurezza, cui tocca dipingere il “quadro della situazione”. Da qui: Mi hanno colorito = “Sono stato identificato”.
Tuisi “tu”. A partire da nostrivisi, vostrivisi “noi, voi”, -(v)isi è diventato un vero e proprio morfema formativo per i pronomi personali; il gergo crea quindi anche delle caratteristiche morfologiche autonome. Si noti l'assenza dell'aggettivo possessivo, che viene costruito come specificazione: di tuisi “di te”.
Raccavalli “venga”. Raccavallare ha il senso di “arrivare, venire a cavallo”, qui usato probabilmente perché il congiuntivo di “venire” è forma “colta” non usata comunque nel linguaggio popolare.
Baro-foro “regno”. Ripreso di peso dalla lingua romanes: letteralmente “grande posto”, “luogo grande”. Baro “grande” è parola di origine indiana, foro (propriamente: foros) è parola di origine greca come tante nella lingua romanes (φόρος).
Sediciata “fatta, compiuta”. Da sediciare che vale propriamente “lavare, rimettere a nuovo”, attraverso la comune espressione (del gergo romanesco” sediciato e servito “spennato al gioco, 'fatto' e servito”). Di probabile origine cabalistica: un sedici è un “uomo accorto”, uno scaltro.
Vaschità, propriamente: “grandezza, nobiltà”. Da vasco “signore, ricco, nobile, antichissima voce furbesca prob. derivata da “guàscone” nel senso di “millantatore”. In Toscana, vasco indica un tipo di lussuoso cappello associato ai ricchi e ai nobili, mentre in Sicilia vascu è gergalmente il “padre” o l' “anziano rispettabile”. In ultima analisi, tutte derivazioni da Vascones, l'antico nome dei Baschi.
Drum. Al posto della “terra” il gergo riprende qui uno dei termini fondamentali della lingua romanes: drum “strada” (o drom). Tutti conosceranno il comune saluto rom lačo drom “buona strada, buon viaggio”, anche, magari, dalla canzone dei Litfiba. E' il greco δρόμος, dalla radice indoeuropea *dṛm- / *drom- “correre; viaggiare” (cfr. l'aoristo ἔδραμον “io corsi”).
Rifilaci “dacci”. Rifilare nel senso di “dare” è ormai comune nella lingua quotidiana popolare: “Mi ha rifilato una patacca”. Il senso di “dare fregando” è però ancora presente ed è antico.
Madolfa “oggi”. Poiché l' "oggi" è già espresso in "quoto" (v. sotto), si tratta di una ridondanza inutile (se il pane è "quotidiano", è chiaro che è anche "oggi"). La versione carceraria ci mette quindi un'imprecazione eufemistica alla Madonna ("madolfa" è della stessa famiglia di "madosca" eccetera).
Urto “pane”. Termine con parecchie varianti, l'originale delle quali sembra essere arto, artòn, ripreso direttamente dal greco ἄρτον. Nel gergo furbesco italiano più antico sono presenti, incredibilmente, alcuni grecismi classici, come le cere “mani” (da χεῖρες).
Quoto “quotidiano”. Abbreviazione della parola colta, caso frequente nei gerghi (ad esempio la perquisa per la “perquisizione”).
Picchiaci “ridacci”. Propriamente picchiare è usato sia in senso proprio, sia in quello di “dare sbattendo”.
Buffi “debiti”. Da buffo, propriamente “chiodo” (termine comunissimo anche nell'italiano popolare: “piantare/fare chiodi” = “fare debiti”; “a chiodo” = “a debito”). Usato qui anche il derivato, logico, buffatori.
Sino “non”. Probabilmente unione di “sì” e “no” (come nel romanesco “sine/nòne”).
Sbilanciarci. Ovvero “farci cadere”. Nel gergo carcerario come si fa cadere? Dando uno spintone, ovviamente, e facendo perdere l'equilibrio!
Curo. Il “capolavoro” della versione: il “curo” è propriamente la tentazione di tenersi per sé la refurtiva, fregando la banda dei sodali. Vale a dire: “non farci cadere nella tentazione di tenerci per noi la refurtiva”, ovvero “non freghiamo i compagni”.
Zaffio. Di origine forse araba, nel gergo napoletano e siciliano significa propriamente “brutto” (il passaggio a “male” è ovvio); gli zaffioni sono i “peccatori”. Ma è da notare la possibilissima derivazione da zaffo, il “male” supremo: lo sbirro.
Nista “Niente, nulla”. L' “amen” viene reso con “nulla più”. E' anche qui parola romanes, ništa, ripresa direttamente dalla lingua serba.
inviata da Riccardo Venturi - 1/12/2015 - 06:40
...e mi chiedo, nell'allontanarmi da questa pagina, se un giorno o l'altro si troverà qualcuno che "accetterà il gioco", cercando non tanto di "tradurre" ma di rendere questa cosa in un gergo malavitoso e carcerario della propria lingua. Chissà! Buona giornata a tutti.
Riccardo Venturi - 1/12/2015 - 08:14
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Per le fonti: Vedi introduzione
For its sources, see Introduction
L'Onnipotente tra le sbarre
di Riccardo Venturi
“Dalle galere del mondo”, recita la dicitura del nostro famoso e (purtroppo) nutrito “percorso”; d'accordo, e d'accordo anche sul fatto che una parte non indifferente di tale “percorso” sia costituita da canzoni, o altre cose, scritte da persone che si trovavano in galera, note oppure senza nome. Questa cosa che vado a presentarvi (che non è affatto una “canzone” in senso proprio) proviene invece, realmente, dalla galera come istituzione, come sistema organico e organizzato, come società codificata e definita. Mi scuso qui, naturalmente, per il linguaggio “simil-sociologico” che non mi è per nulla consono; ma non troverei altro modo per introdurre questi pochi versi, o meglio versetti, dato che si tratta nientepopodimeno che del Padre Nostro.
Fino a pochi giorni fa, quando mi sono ritrovato tra le mani un vecchio volumetto degli Oscar Mondadori (n° L57, 1a edizione gennaio 1972), non sapevo neppure esistesse una cosa del genere, né ne sospettavo l'esistenza. Ma poiché γεράσκω δὲ πολλὰ διδασκόμενος, vi devo dire in che cosa esattamente consista questo libriccino economico tascabile, che ho preso in prestito alla spettacolare Biblioteca Comunale dell'Isolotto; si tratta de I gerghi della malavita dal '500 ad oggi di Ernesto Ferrero (“nato nel 1938 a Torino, dove lavora per una casa editrice. Si occupa soprattutto di letteratura. Sta per pubblicare un libro di guida alla lettura delle opere di C.E. Gadda”, recita una scarna nota biografica in IV di copertina).
Invecchio sì, ma imparando molte cose; e confesso col massimo candore che, nonostante nella mia vita abbia effettuato scorribande linguistiche praticamente su ogni cosa in cui si potesse spaziare, i gerghi della malavita mi mancavano proprio. Qualcosina sulle poche e terrificanti ballate gergali di François Villon, certo, lette nella geniale traduzione italiana di Emma Stojkovic Mazzariol (senza la quale, naturalmente, non ci avrei capito assolutamente niente), e stop. In questi giorni, invece, mi sono dato a una sorta di full immersion nei gerghi della “mala” tradizionale delle regioni italiane, dall'antichissimo furbesco fino agli anni '70, del XX secolo, che sono quelli del libriccino. “Inafferrabile, misterioso, carico di umori e di provocazioni, il gergo della malavita ha sempre affascinato le sue 'vittime', cioè coloro che, come vuole la regola del gioco, non ne possiedono il codice.”; così l'autore nella breve presentazione in IV di copertina. Ma l'opera, che è allo stesso tempo un dizionario, una piccola antologia di testi gergali e addirittura un dizionarietto italiano-gergo, è preceduta da un'introduzione capillare che meriterebbe di essere riprodotta per esteso, se si potesse. Ovviamente, non si può; però occorre tenere presente che c'è, e soprattutto del fatto che sarebbe capace di “spostare” molte assi più meno consolidate sulla visione e sulla natura dell'istituzione-carcere attraverso la sua storia analizzata attraverso le parole che vi sono nate e vi sono (state) usate comunemente da chi condivideva forzatamente le sue mura.
Fino a qualche giorno fa, ad esempio, se fossi venuto a conoscenza di questo testo in un altro modo avrei probabilmente iniziato l'introduzione con un riferimento, più o meno pipponesco (anche io, come tutti noi, ho il mio gergo personale...) ai “dannati della terra”, alla elementare religiosità espressa però nel linguaggio “segreto” e iniziatico del malavitoso e del carcerato (ma, peraltro, conosciuto perfettamente anche dai secondini e dai questurini), e così via. Questo testo, invece, pare proprio provenire da una angolazione, come dire, parecchio differente e, con tutta probabilità, non del tutto gradita ai più. Proviene infatti, come dice l'autore, da ”un sistema delinquenziale altamente organizzato cui corrisponde un sistema linguistico egualmente complesso e articolato”. In parole povere: questo testo proviene dall'ambiente della Camorra napoletana. Non ancora la “NCO” di Raffaele Cutolo e le altre Camorre della contemporaneità, ma comunque una società criminale già perfettamente organizzata e strutturata.
Il linguaggio della Camorra “classica” fu analizzato, con il piglio positivista dell'epoca, da Emanuele Mirabella nel 1910, in un'opera intitolata Mala vita. Gergo, camorra e costumi degli affiliati con 4500 voci della lingua furbesca in ordine alfabetico. Per ribadire l'ambiente e la valenza dell'opera, bisogna specificare subito che il suo prefatore fu Cesare Lombroso, un personaggio che nell'attualità, e con moltissime ragioni, non solo non rimane affatto “simpatico”, ma le cui visioni, analisi e metodologie si sono rivelate in gran parte agghiaccianti, per usare un eufemismo. Ciononostante, gli intenti del Mirabella, così come esposti da Ernesto Ferrero, meritano comunque attenzione e possono rivelare degli aspetti della galera di cui occorre tenere conto se non si vuole cadere in una specie di “contro-romanticismo” che non aiuta ad inquadrare neppure la sua esatta e reale natura repressiva e la sua funzione di eliminazione (anche fisica) di larghi strati del proletariato e del sottoproletariato autoctono e immigrato.
4500 voci: tale è l'incredibile estensione del lessico raccolto dal Mirabella. Vale a dire, molte più voci di quelle che si usa(va)no normalmente nel parlare quotidiano. Un linguaggio, quello della Camorra, ”animato da una smania classificatoria e definitoria che non si ferma a rappresentare i tradizionali “tòpoi” del sottomondo delle guardie e dei ladri, della vita e della morte, ma ha un'ambizione molto più alta: rivaleggiare con la società degli 'onesti', offrirle un'alternativa linguistica totale; tanto è vero che giunge ad elaborare una sua versione del 'Padre Nostro' [quella che qui si presenta] e dell' 'Ave Maria'. Qui giungiamo ad una delle caratteristiche salienti di ogni società delinquenziale che abbia raggiunto un grado superiore di strutturazione interna: l'ambizione a porsi come anti-società che imita in tutto modi e forme della società che li ha esclusi o da cui si sono esclusi. Così, i rapporti gerarchici all'interno della camorra sono regolati da un formalismo esasperato, quale è dato ritrovare solo nelle grandi burocrazie; i saluti seguono un rituale cerimonioso, spagnoleggiante, barocco; il concetto dell' 'onore' torna insistemente a denunciare il rimpianto di una rispettabilità perduta, l'aspirazione ad un mondo odiosamato; e, insomma, tutti i difetti e le carenze della società umbertina si ritrovano stravolti in una sorta di grottesco rovesciamento di segno, in una parodia che vorrebbe non essere tale. Le stesse strutture sociali che hanno determinato l'allontanamento dei malviventi vengono riprodotte nell'anti-società degli esclusi: alla rigidezza delle istituzioni risponde la rigidezza con cui è strutturato il gruppo che se ne è posto fuori.” [op.cit., p. 35]
Fatti i debiti aggiustamenti storici, sono parole che potrebbero applicarsi tranquillamente anche alla situazione attuale; e non è certo escluso che, dalle galere italiane, siano usciti altri “Padri Nostri” o altri adattamenti gergali. Il gergo carcerario (che usa, naturalmente, la quasi totalità del gergo e dei vari gerghi “esterni” inserendovi le sue specificità ambientali) è vivissimo e prospera, ed è necessario riferirlo adesso -per forza di cose- alle diversissime condizioni ambientali. Probabile, ad esempio, che ora come ora presenti parecchie parole riprese dalla lingua araba (o meglio, da qualche suo dialetto: magrebino, egiziano...). Non muta però la strutturazione organizzata e capillare del linguaggio delle società criminali organizzate grandi e piccole, molti termini del quale sono “passati” oramai nel linguaggio comune (una caratteristica storica di ogni gergo; si pensi soltanto che parole adesso comunissime (come colpo nel senso di “rapina”, sbafare, sbafo, e tante altre), sono nate come parole gergali.
Si tratta di un aspetto della galera di cui, generalmente, si tiene non molto contro: quello della cosiddetta “criminalità comune”, individuale o organizzata che sia. Se il carcere è adesso percepito come istituzione repressiva cardinale (sia per contrastarlo, sia per sostenerlo con intenti punitivi, dato che la sua capacità di “tendere alla rieducazione” è una delle più feroci balle ancorché sancita dalla ”Costituzione” di una repubblica borghese come le altre), rimane tuttora difficile applicare al “criminale comune”, di qualsiasi natura, gli stessi criteri che si applicano assai più volentieri al represso di classe o al “prigioniero politico”. Ma la popolazione carceraria, oggi come un tempo, è in massima parte formata dalle classi più disagiate; dal proletariato e sottoproletariato urbano, e, in tempi d'oggi, immigrato. In galera non ci finiscono i ricchi, tranne in una minoranza di casi. E basta vedere, ad esempio, un reportage come quello, recentissimo, realizzato nel carcere napoletano di Poggioreale per capirlo seppure in minima parte. E' allora bene andare a fare una “visita” anche al linguaggio carcerario e gergale, sebbene in una forma che può essere largamente inattuale; e farlo con la versione della preghiera fondamentale del Cattolicesimo, su cui, in questo caso, ritengo vietato ironizzare o porsi davanti ad essa, comunque, con un atteggiamento di rifiuto. Una versione, come meglio si vedrà nelle necessarie note linguistiche esplicative (che non sono interamente riprese dal volume di Ernesto Ferrero come voci in esso incluse; alcune sono di mia creazione, e qua e là ho ampliato anche quelle già presenti), che testimonia -tra le altre cose- l'estremo carattere composito di quel linguaggio. Si può anche adesso anticipare che il termine fondamentale gergale per “Dio”, ad esempio, deriva dalla lingua romanès (e, storicamente, il gergo della malavita italiana è infarcito di termini “zingari”). Un linguaggio di galera che riflette esattamente chi sta dentro e fuori la galera, anche nel rivolgersi a quel Dio che, senz'altro, sta in galera pure lui e parla lo stesso linguaggio di chi lo prega. Sebbene stanzi soprarma, anche l'Onnipotente è tra le sbarre. [RV]
Il testo del “Padre Nostro dei Coatti” è riportato integralmente, nell'opera del Ferrero, alla voce “Divèle” (Dio) presente a pagina 119.