Hermano, quiero apretarte la mano
sabemos, que ellos nos han separado
parece se un mal general
que va haber que solucionar
tenes que estar en cualquier lugar
que pronto vamos a encontrar
lo quiero, esto es lo que yo quiero
mañana, para que exista mañana
porque la noche tiene final
la vida vuelve siempre a cantar
es su pedazo de libertad
amigos mios una vez mas
para poder cantar, bailar
para poder amar, gozar
para poder reir, llorar
tengo que estar con vos de nuevo
porque eso es lo que yo quiero
mañana, para que exista mañana
porque la noche tiene final
la vida vuelve siempre a cantar
es su pedazo de libertad
amigos mios una vez mas.
sabemos, que ellos nos han separado
parece se un mal general
que va haber que solucionar
tenes que estar en cualquier lugar
que pronto vamos a encontrar
lo quiero, esto es lo que yo quiero
mañana, para que exista mañana
porque la noche tiene final
la vida vuelve siempre a cantar
es su pedazo de libertad
amigos mios una vez mas
para poder cantar, bailar
para poder amar, gozar
para poder reir, llorar
tengo que estar con vos de nuevo
porque eso es lo que yo quiero
mañana, para que exista mañana
porque la noche tiene final
la vida vuelve siempre a cantar
es su pedazo de libertad
amigos mios una vez mas.
inviata da Donquijote82 - 25/9/2015 - 12:04
Mar del Plata, la squadra dei desaparecidos che morì per il rugby
Non è facile portare su un palcoscenico teatrale touche e mischie di rugby. Tantomeno morte, dolore e tortura, la storia triste dell’Argentina della dittatura degli Anni Settanta.
Dove si moriva, anzi si scompariva, a 20 anni senza sapere perché. Claudio Fava, già sceneggiatore de “I cento passi”, è riuscito a farlo nel raccontare la vicenda del Mar del Plata: la squadra di rugby che nel 1978 – l’anno del Mundial de Fútbol – non si piego alla logica dello “show must go on”, ma sfidò il regime militare per amore della palla ovale e della libertà, pagando con la vita la propria passione.
Mar del Plata è la storia di una formazione di rugby, di un gruppo di amici, del campionato del 1978 che la formazione argentina finì decimata dagli omicidi politici. Il primo è quello di Diego, 17enne di talento che “giocava al rugby e alla rivoluzione”, prelevato alla fine degli allenamenti e trovato in fondo a un fiume con una pallottola nel cranio: lui sul palco non compare mai, vero “desaparecido” del copione. Di lì è un’escalation di reazioni, paure e tormenti: la voglia di onorare la morte di un amico, il dubbio di dover pensare prima alla propria vita o alla propria famiglia. Come quello di Teresa, fidanzata del protagonista e narratore Raul, unica figura di dolcezza femminile in uno spettacolo che, fra i suoi tanti meriti, ha anche quello di replicare fedelmente l’atmosfera cameratesca dello spogliatoio di rugby. O la cupezza delle segrete delle prigioni militari. Il minuto di silenzio (dilatatosi all’inverosimile) imposto dai suoi compagni sul campo diventa infatti un caso di Stato, interpretato dal regime come una pericolosa provocazione per l’ordine costituito. E allora la scena, immutabile, deve sdoppiarsi per rendere i due luoghi d’ambientazione della vicenda: il campo e le celle di tortura, la gioia dello sport e il dolore della persecuzione politica.
La sintassi scenica, i testi profondi e a tratti poetici, l’interpretazione degli attori (a partire da Claudio Casadio, splendido cattivo nelle parti dello spietato capitano Montonero): tutto contribuisce a fare di questo spettacolo, in scena al teatro Vittoria di Roma, un piccolo gioiello. Il copione è scandito dalle morti in serie dei giocatori: lo spettacolo è quasi un conto alla rovescia nella scomparsa di tutti i componenti della squadra. Prima sei, poi cinque, quattro, tre: la dittatura non concede il beneficio del dubbio a nessuno. Nemmeno a chi non ha nulla a che fare con i comunisti. Come Montonero spiega a Pereyra, il padre-allenatore della squadra. Il loro antagonismo è il simbolo della biforcazione delle strade di un paese spaccato a metà dalla dittatura. Due vecchi tecnici sciancati, un tempo amici: uno si è arruolato nell’esercito, affiliandosi al regime e applicando i suoi vecchi principi di allenatore al suo nuovo ruolo. “Cosa sarebbe il rugby senza disciplina. Proprio come il nostro Paese”. L’altro invece è rimasto sul campo. Perché “io non credo nelle loro fantasie di rivoluzione, ma nemmeno in questa vostra idea di patria. Io credo solo nel rugby”. Ma anche questo, all’epoca, poteva essere una colpa. Qualcuno, però, è sopravvissuto per raccontarlo.
Lorenzo Vendemiale
ilfattoquotidiano.it
Non è facile portare su un palcoscenico teatrale touche e mischie di rugby. Tantomeno morte, dolore e tortura, la storia triste dell’Argentina della dittatura degli Anni Settanta.
Dove si moriva, anzi si scompariva, a 20 anni senza sapere perché. Claudio Fava, già sceneggiatore de “I cento passi”, è riuscito a farlo nel raccontare la vicenda del Mar del Plata: la squadra di rugby che nel 1978 – l’anno del Mundial de Fútbol – non si piego alla logica dello “show must go on”, ma sfidò il regime militare per amore della palla ovale e della libertà, pagando con la vita la propria passione.
Mar del Plata è la storia di una formazione di rugby, di un gruppo di amici, del campionato del 1978 che la formazione argentina finì decimata dagli omicidi politici. Il primo è quello di Diego, 17enne di talento che “giocava al rugby e alla rivoluzione”, prelevato alla fine degli allenamenti e trovato in fondo a un fiume con una pallottola nel cranio: lui sul palco non compare mai, vero “desaparecido” del copione. Di lì è un’escalation di reazioni, paure e tormenti: la voglia di onorare la morte di un amico, il dubbio di dover pensare prima alla propria vita o alla propria famiglia. Come quello di Teresa, fidanzata del protagonista e narratore Raul, unica figura di dolcezza femminile in uno spettacolo che, fra i suoi tanti meriti, ha anche quello di replicare fedelmente l’atmosfera cameratesca dello spogliatoio di rugby. O la cupezza delle segrete delle prigioni militari. Il minuto di silenzio (dilatatosi all’inverosimile) imposto dai suoi compagni sul campo diventa infatti un caso di Stato, interpretato dal regime come una pericolosa provocazione per l’ordine costituito. E allora la scena, immutabile, deve sdoppiarsi per rendere i due luoghi d’ambientazione della vicenda: il campo e le celle di tortura, la gioia dello sport e il dolore della persecuzione politica.
La sintassi scenica, i testi profondi e a tratti poetici, l’interpretazione degli attori (a partire da Claudio Casadio, splendido cattivo nelle parti dello spietato capitano Montonero): tutto contribuisce a fare di questo spettacolo, in scena al teatro Vittoria di Roma, un piccolo gioiello. Il copione è scandito dalle morti in serie dei giocatori: lo spettacolo è quasi un conto alla rovescia nella scomparsa di tutti i componenti della squadra. Prima sei, poi cinque, quattro, tre: la dittatura non concede il beneficio del dubbio a nessuno. Nemmeno a chi non ha nulla a che fare con i comunisti. Come Montonero spiega a Pereyra, il padre-allenatore della squadra. Il loro antagonismo è il simbolo della biforcazione delle strade di un paese spaccato a metà dalla dittatura. Due vecchi tecnici sciancati, un tempo amici: uno si è arruolato nell’esercito, affiliandosi al regime e applicando i suoi vecchi principi di allenatore al suo nuovo ruolo. “Cosa sarebbe il rugby senza disciplina. Proprio come il nostro Paese”. L’altro invece è rimasto sul campo. Perché “io non credo nelle loro fantasie di rivoluzione, ma nemmeno in questa vostra idea di patria. Io credo solo nel rugby”. Ma anche questo, all’epoca, poteva essere una colpa. Qualcuno, però, è sopravvissuto per raccontarlo.
Lorenzo Vendemiale
ilfattoquotidiano.it
dq82 - 5/4/2017 - 13:03
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Agujero interior
I Virus sono un gruppo argentino fondato dai fratelli Moura. Questa canzone, pubblicata nell'83, alla fine della dittatura, fu scritta per il fratello Jorge, desaparecido e rugbista nel La Plata rugby club, squadra che fu praticamente sterminata (17 giocatori uccisi) durante la dittatura
E’ rimasto un solo membro di quella squadra di rugby. Il capitano, Raul Barandarian che oggi fa l’architetto, trascinando l’insostenibile peso di aver perso tutti i compagni nella maniera più dolorosa e uno dopo l’altro. Lui è l’unico superstite perché invece di resistere, ha preferito trasferirsi in Europa.
La tragedia inizia da Hernan Francisco Roca, il medio scrum che non era partito con il resto dei compagni per una turnèe europea. Doveva sostenere un esame presso la Facoltà di Medicina dove era iscritto. Il 27 marzo del 1975 lo superò.
Il giorno seguente, un triste venerdì santo, un gruppo paramilitare della Triple A (alleanza anticomunista argentina), lo prese mentre era a casa del padre, confondendolo con Marcelo, suo fratello che era militante tra i Montoneros.
Il corpo di Hernan fu trovato con le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati, 21 colpi di arma da fuoco nel corpo. Lui militava nella gioventù peronista ma era soprattutto interessato al rugby, come è testimoniato da un meticoloso diario in cui il giocatore raccoglieva ritagli di giornale con commenti e risultati, oltre che appunti su teorie di gioco da lui stesso immaginate.
La domenica seguente, prima della partita con lo Champagnat, il La Plata Rugby Club dedicò ad Hernan un minuto di silenzio, ma quel minuto simbolico si prolungò in un silenzio impressionante per oltre dieci minuti.
Una terribile sfida agli apparati militari che stavano seminando il terrore nell’Argentina di quegli anni tragici, in nome di un processo di riorganizzazione nazionale che, subdolamente fiancheggiato da servizi segreti stranieri e dal silenzio colpevole in cui si era chiusa la posizione ufficiale della chiesa, avrebbe collezionato uno spaventoso numero di desaparecidos: circa 30.000, a cui si devono aggiungere gli oltre 500 bambini in fasce, strappati ai genitori e affidati ad altre famiglie, implicate con gli organi militari di governo.
Sul tema Videla è restato irriducibile fino alla sua recentissima scomparsa e non si è mai pentito. Negli ultimi anni ha avuto il coraggio di dichiarare:"Habia que eliminar a un conjunto grande de personas que no podian ser llevadas a la justicia ni tampoco fuciladas...para no provocar protestas dentro y fuera del pais, sobre la marcha se llegò a la decision de que esa gente desapareciera; cada desaparicion puede ser entendida como el enmascaramiento, el disimulo de una muerte."
Queste dichiarazioni rese pubbliche oggi, furono confessate al Cardinale Raul Primatesta, presidente della Conferenza Episcopale e ai vicepresidenti Vicente Zapse e Juan Aramburu. Accadde nel 1978, l'anno del Mundial di football a Buenos Aires che l'Argentina vinse con molte ombre (prima tra tutte la necessaria vittoria per 6-0 con il Perù,nella fase eliminatoria). Di seguito la brutta copia di uno degli atti che riprendono il contenuto della conversazione tra Videla ,Primatesta, Zapse e Aramburu, il 10 aprile di quell'anno.
Atto che rimane segreto negli archivi della Conferenza Episcopale, nella cartella 24-II. In sostanza Videla dirà i seguito che la sua relazione con gli organi ecclesiastici fu "excelente, muy cordial, sinciera y abierta", perché l'istituzione Vaticana "fuè prudente", non seguendo la "tendencia izquierdista y terzomundista", limitandosi a condannare "algunos excesos" senza "romper relaciones" e, tenendo "grandes coincidencias" sul conflitto interno che si stava consumando.
Occorre ricordare la posizione ufficiale della Chiesa non ha risparmiato i religiosi che invece prendevano una posizione indipendente e apertamente ostile ai metodi disumani del regime. Emblematici sono i fatti relativi al sequestro del "grupo de los 12" nel quale figuravano anche le fondatrici delle madri di Plaza de Mayo. Queste persone, nel 1977 si incontravano segretamente nella chiesa di Santa Cruz. Era un luogo dove i parenti dei desaparecidos potevano parlare liberamente, scambiarsi informazioni e organizzarsi, insieme ad altri sostenitori dei diritti umani.
L'8 dicembre di quell'anno, all'uscita della chiesa, un commando speciale della Marina li imprigiona con i soliti metodi irregolari:erano stati scoperti perchè tra di loro si era infiltrato un certo Alfredo Astiz, fingendosi genitore di un desaparecido. Tutti e dodici furono portate in segreto presso la spaventosa ESMA /Escuela se Mecanica de la Armada), il più grande centro di detenzione illegale e di tortura per le persone scomode al regime.
Tornando alla partita del La Plata, la polizia stila un verbale del gesto "d’insubordinazione" che ha dilatato il canonico minuto di silenzio. Lo cita alla lettera Ernesto Sabato, scrivendo che il fatto era stato definito "di grave provocazione da tenere nella considerazione dovuta". Da quel momento l’accanimento sui “canarios”, per via della maglietta gialla, fu capillare anche per la fama con cui la squadra veniva chiamata: “escuela de guerrilleros”, mentre gli stessi giocatori avevano trasformato quell’etichetta in “ eserjito revolucionario del cisne”, vale a dire della burla.
A dire la verità, era successo un fatto anteriore all’omicidio di Hernan e che solo alla luce di quest’ultimo, aveva fatto immaginare i suoi motivi e il suo destino. Il 12 aprile del 1974, era scomparso senza lasciare tracce Rodolfo Axat, giocatore che lavorava nella ditta costruttrice di frigoriferi Swift di Berisso.
Rodolfo era uno studente universitario che, essendo militante dei montoneros, era chiamato anche a lavorare da operaio dal progetto di proletarizzazione sostenuto dal gruppo.
Qualcuno a posteriori ha testimoniato di averlo visto presso il centro clandestino di detenzione e tortura chiamato La Cancha. Poi piò niente. L’escalation che riguardò tutta la squadra avvenne nel 1977. Il 10 febbraio 1977 una pattuglia circondò la casa di Mario Mercader, militante montonero. La figlia Ana, che aveva due anni e mezzo, ricorda che una decina restarono fuori, altri dieci entrarono in casa e cominciarono a spaccare tutto. Al ritorno dal lavoro suo padre tentò di scappare. Gli spararono a una gamba e lo portarono via in ambulanza. Ana ricorda che portarono via anche sua madre Anahí Silvia Fernández.
Alcuni sopravvissuti videro Anahí e Mario presso la Brigada de Investigaciones e Comisaría V, e. Anahí anche al Pozo de Arana. Le loro ossa vennero in seguito identificate nei cimiteri di Avellaneda. e Rafael Calzada. Erano frammentate dagli spari della fucilazione. A marzo toccò a Jorge Moura, militante dell’ERP (Eserjito Revolucionario Proletatio), prelevato dalla casa dei suoi genitori da un gruppo di uomini vestiti da operai della Segba: desaparecido..Il 24 ottobre furono tre i rapiti, tutti militanti del PCML (Partido Comunista Marista Leninista). Santiago Sanchez Viamonte detto “el cuecho”, forse il miglior giocatore che la squadra abbia mai avuto.
Studente di architettura, fu visto l’ultima volta nella base militare di detenzione “El Banco”. Il secondo era il mediano d’apertura Otilio Pascua: fu visto al Club Atletico, quindi i suoi resti riemersero dal Rio Lujan, . Il terzo era Pablo “Turquito” Balut. Jorge Gulliver Elicabe fu sequestrato il 24 novembre ’77. Era montonero. Il ventisett’enne Mariano Carlos Montequín “Mane” era del Partito Comunista Marxista Leninista. Venne preso in casa sua da una pattuglia del “Grupo de Tareas 3” il 6 dicembre 1977, assieme alla sua ragazza Patricia Gabriela Villar Ramos e a Virginia Casalaz. All’appartamento furono posti i sigilli dell’esercito argentino, impedendo ai genitori di rientrare. Dopo qualche giorno un camion venne a svuotare tutto quel che conteneva.
Ironia della sorte, Mariano e Patricia vennero portati al centro di detenzione clandestino “Club Atlético”. Poi passarono a quello chiamato “El Banco”, da dove partirono nel maggio del 1978 per il “trasferimento finale”.La macabra lista continua con altri undici nomi: Luis “Luti” Munitis, Marcelo “Beto” Bettini, Abel Vigo, Eduardo “Manopla” Navajas, Pablo del Rivero, Enrique “Schorton” Sierra, Carlos Williams, Alejandro Reboredo, Julio “Cholo” Alvarez, Hugo “Pinino” Lavalle.
Nonostante tutto ciò, la squadra guidata dal burbero Hugo Passarella, continuava a vincere anche inserendo i giocatori di riserva, se non addirittura quelli provenienti dalle giovanili. E a vincere il torneo di fronte allo sguardo livido dei generali schierati in tribuna. A proposito dei generali, occorre ricordare la sfrontatezza di Videla che, nel 1978, volle incontrare la nazionale di rugby alla vigilia di una trasferta europea. Li nominò, oscenamente, “ambasciatori e rappresentanti dell’eccellenza sportiva del paese, un esempio di come il governo sostiene la giovinezza e la libertà”. Eppure il rugby fu lo sport che lasciò sul campo più vittime durante il "proceso".
Forse i militari sapevano che quello sport era praticato da Che Guevara e quindi che poteva essere un covo di rivoluzionari.Il Che che giocava con gli Etudiantes di Cordoba, adorava questo sport duro e leale, fino a fondare anche una rivista che si intitolava Tackle, dove firmava gli articoli con il soprannome di Chancho (maiale...datogli perchè si vantava di portare la maglietta da rugby per 25 settimane senza lavarla).
Ma tra tutte le cose terrorizzanti che emergono in questa storia, quella che mi ha sconcertato per la sua imprevedibilità è quella relativa alla società del La Plata Rugby Club. Tutti hanno per così dire rimosso l’atroce vicenda, come applicando la disgraziata legge del “punto finale” che ha promesso a tutte le belve che hanno collaborato con la dittatura, una via d’uscita senza pene. Solamente nel 2006, una laconica targa è stata esposta nella sede: “Si ricordano i ragazzi vittime della dittatura militare”. I nomi delle vittime sono stati omessi!
tangorosso.blogspot.it
Ulteriori informazioni:
mauropresini
cadenaba.com.ar
Si veda anche la canzone La Avenida de los Tilos.
(B.B.)