Ondate imponenti
di discorsi del cazzo
s’innalzano minacciose
destinate ad infrangersi su di me
Ci sono giorni in cui
il fine giustifica i mezzi
come quando il sole si spegne
indossando una camicia nera.
E le foibe e il triangolo rosso
vanno capiti e contestualizzati.
La violenza partigiana
va spiegata e poi rivendicata.
Il resto
è solo balbuzie che fa il loro gioco.
Abbassa
la guardia e ti colpiranno più forte.
Se rimuovi la tua storia il nemico
te la ruba e quando può la riscriverà.
È la tragedia che si trasforma in farsa
commozione per tutti compresi i carnefici.
Fino al punto in cui
tutto è nero, compreso il rosso
e ogni violenza è
condannata da entrambi i lati
della barricata storica
dimenticando
che una parte era nel giusto
e l’altra no.
Memoria sdentata da fiction televisiva
sciapa come il testo di Bella Ciao.
Non è possibile la riconciliazione
fra i figli della Resistenza e quelli della Repubblica di Salò.
Non vedrete nessun abbraccio in extremis
tra gli epigoni delle brigate nere e di quelle partigiane.
Non riuscirete ad annegare la storia italiana del Novecento
nell’oceano di un “volemose bene” generale
di cui sinceramente non si sentiva la mancanza.
Voi la chiamate memoria condivisa ma questa è solo
la comunione nella dimenticanza.
di discorsi del cazzo
s’innalzano minacciose
destinate ad infrangersi su di me
Ci sono giorni in cui
il fine giustifica i mezzi
come quando il sole si spegne
indossando una camicia nera.
E le foibe e il triangolo rosso
vanno capiti e contestualizzati.
La violenza partigiana
va spiegata e poi rivendicata.
Il resto
è solo balbuzie che fa il loro gioco.
Abbassa
la guardia e ti colpiranno più forte.
Se rimuovi la tua storia il nemico
te la ruba e quando può la riscriverà.
È la tragedia che si trasforma in farsa
commozione per tutti compresi i carnefici.
Fino al punto in cui
tutto è nero, compreso il rosso
e ogni violenza è
condannata da entrambi i lati
della barricata storica
dimenticando
che una parte era nel giusto
e l’altra no.
Memoria sdentata da fiction televisiva
sciapa come il testo di Bella Ciao.
Non è possibile la riconciliazione
fra i figli della Resistenza e quelli della Repubblica di Salò.
Non vedrete nessun abbraccio in extremis
tra gli epigoni delle brigate nere e di quelle partigiane.
Non riuscirete ad annegare la storia italiana del Novecento
nell’oceano di un “volemose bene” generale
di cui sinceramente non si sentiva la mancanza.
Voi la chiamate memoria condivisa ma questa è solo
la comunione nella dimenticanza.
Contributed by Bernart Bartleby - 2015/8/27 - 09:16
Per una ricostruzione precisa dell’eccidio di Scalvaia rimando al sito di Radio Maremma Rossa, dove è presente la trascrizione di “Infamia e Gloria in terra di Siena durante il Nazifascismo” di Smeraldo Amidei, piccolo volume che ripercorre la storia dei martiri di Scalvaia, scritto poco dopo lo svolgimento dei fatti da un appartenente alla stessa formazione partigiana.
Da quella lunga testimonianza traggo alcuni stralci che mi paiono significativi:
Ma quale “memoria condivisa!”
Da quella lunga testimonianza traggo alcuni stralci che mi paiono significativi:
La versione fascista dell’eccidio di Scalvaia
Nel giornale ‘La Nazione’ del 19-20 marzo 1944 esiste un trafiletto portante il titolo “Banda di ribelli distrutta presso Monticiano”.
Eccone il testo originale:
“Nei giorni scorsi in collaborazione con i militi della G.N.R. della Legione di Grosseto, i militi della G.N.R. di Siena accerchiavano il bosco di Poggio al Carpino, presso Monticiano, stringendo gradatamente la zona in una morsa di ferro.
Una banda di partigiani e disertori, ivi annidata, vistasi scoperta, reagiva con le armi. Nel conflitto cadevano colpiti a morte dodici partigiani, uno rimaneva gravemente ferito e altri otto venivano fatti prigionieri.
Venivano liberati quattro soldati del posto di avvistamento di Rognaie, che erano stati fatti prigionieri dalla banda unitamente a due boscaioli. Venivano rinvenute ingenti quantità di viveri, materiali ed armi.
I prigionieri furono giudicati dal Tribunale Straordinario di Guerra, come già è stata data notizia. Quattro di essi, colpevoli di diserzione, catturati con l’arma in pugno, rei di gesta di brigantaggio, dell’uccisione del milite Neri e del ferimento del commerciante Magrini di Monticiano, venivano condannati a morte e fucilati. Gli altri venivano condannati a ventiquattro anni di reclusione militare”.
Tutto quanto viene detto in questo trafiletto basterebbe a convincere qualunque persona, che fosse a conoscenza della verità, di quali spregevoli falsi si servivano i fascisti per giustificare dinanzi all’opinione pubblica i loro misfatti.
Nel giornale ‘La Nazione’ del 19-20 marzo 1944 esiste un trafiletto portante il titolo “Banda di ribelli distrutta presso Monticiano”.
Eccone il testo originale:
“Nei giorni scorsi in collaborazione con i militi della G.N.R. della Legione di Grosseto, i militi della G.N.R. di Siena accerchiavano il bosco di Poggio al Carpino, presso Monticiano, stringendo gradatamente la zona in una morsa di ferro.
Una banda di partigiani e disertori, ivi annidata, vistasi scoperta, reagiva con le armi. Nel conflitto cadevano colpiti a morte dodici partigiani, uno rimaneva gravemente ferito e altri otto venivano fatti prigionieri.
Venivano liberati quattro soldati del posto di avvistamento di Rognaie, che erano stati fatti prigionieri dalla banda unitamente a due boscaioli. Venivano rinvenute ingenti quantità di viveri, materiali ed armi.
I prigionieri furono giudicati dal Tribunale Straordinario di Guerra, come già è stata data notizia. Quattro di essi, colpevoli di diserzione, catturati con l’arma in pugno, rei di gesta di brigantaggio, dell’uccisione del milite Neri e del ferimento del commerciante Magrini di Monticiano, venivano condannati a morte e fucilati. Gli altri venivano condannati a ventiquattro anni di reclusione militare”.
Tutto quanto viene detto in questo trafiletto basterebbe a convincere qualunque persona, che fosse a conoscenza della verità, di quali spregevoli falsi si servivano i fascisti per giustificare dinanzi all’opinione pubblica i loro misfatti.
13 marzo 1944. L’esecuzione dei partigiani sopravvissuti alla strage
Alle 17,30, dopo un’ora di angosciosa attesa, un camioncino prelevò dalle carceri Adorno Borgianni e Primo Simi, portandoli nel piazzale della caserma ‘Lamarmora’. Ivi, strazio maggiore della morte, furono tenuti per 15 minuti a sedere sopra una sedia, bendati e con le mani legate dietro la schiena; dinanzi a loro stava il plotone di esecuzione in attesa che venissero i giudici; solo allora la tragedia poteva aver termine.
Finalmente, alle ore 18, i giudici si degnarono di giungere e furono lette le sentenze di morte.
Fucilati i primi due, anche Masi e Bindi furono portati sul medesimo luogo. Aveva il Bindi un berretto di feltro; prima di morire lo dette a don Mario Menghi e con calma si avviò assieme al compagno verso il luogo del sacrificio; il plotone di esecuzione al loro passaggio presentò le armi.
Però erano ancora visibili sul posto le tracce della morte dei compagni. Essi se ne accorsero, ma con un supremo sforzo poterono vincere lo sconforto. La fede li arresse nella prova suprema.
Furono messi nella sedia, bendati e legati; poi fu loro letta la sentenza di morte.
Il Bindi, alla terza scarica del plotone di esecuzione della compagnia di sicurezza, comandato dal capitano Zoppis, morì; ma non fu così del Masi che dovette ricevere sul proprio corpo, prima di spirare, ben cinque colpi di grazia per mano del ricordato capitano. Ma il cuore pulsava ancora, cosicchè un giovane della G.N.R., afferrato un fucile mitragliatore, lo finì con due raffiche. Il sangue sgorgato dalle sue ferite, facendo appiccicare al corpo la paglia, in cui si era rotolato prima di morire, lo rendeva quasi irriconoscibile.
Alle 17,30, dopo un’ora di angosciosa attesa, un camioncino prelevò dalle carceri Adorno Borgianni e Primo Simi, portandoli nel piazzale della caserma ‘Lamarmora’. Ivi, strazio maggiore della morte, furono tenuti per 15 minuti a sedere sopra una sedia, bendati e con le mani legate dietro la schiena; dinanzi a loro stava il plotone di esecuzione in attesa che venissero i giudici; solo allora la tragedia poteva aver termine.
Finalmente, alle ore 18, i giudici si degnarono di giungere e furono lette le sentenze di morte.
Fucilati i primi due, anche Masi e Bindi furono portati sul medesimo luogo. Aveva il Bindi un berretto di feltro; prima di morire lo dette a don Mario Menghi e con calma si avviò assieme al compagno verso il luogo del sacrificio; il plotone di esecuzione al loro passaggio presentò le armi.
Però erano ancora visibili sul posto le tracce della morte dei compagni. Essi se ne accorsero, ma con un supremo sforzo poterono vincere lo sconforto. La fede li arresse nella prova suprema.
Furono messi nella sedia, bendati e legati; poi fu loro letta la sentenza di morte.
Il Bindi, alla terza scarica del plotone di esecuzione della compagnia di sicurezza, comandato dal capitano Zoppis, morì; ma non fu così del Masi che dovette ricevere sul proprio corpo, prima di spirare, ben cinque colpi di grazia per mano del ricordato capitano. Ma il cuore pulsava ancora, cosicchè un giovane della G.N.R., afferrato un fucile mitragliatore, lo finì con due raffiche. Il sangue sgorgato dalle sue ferite, facendo appiccicare al corpo la paglia, in cui si era rotolato prima di morire, lo rendeva quasi irriconoscibile.
La vendetta di Monte Cuoio
La mattina del 18 giugno, alcune persone di Scalvaia trovarono uccisi, dinanzi al cimitero di quel paese, il maresciallo dei carabinieri Vito Francesco Campanile, il segretario politico del fascio Corrado Galli, coi figli Giustino e Alì, l’avvocato Francesco Pachetti, Reniero Bruscoli, Ottavino Martinelli e Odoardo Ramerini.
Ai piedi di un cipresso, vicino ai giustiziati, fu apposto un cartello colla seguente iscrizione: “E’ iniziata la vendetta di Monte Cuoio – Brigata Garibaldi” .
La mattina del 18 giugno, alcune persone di Scalvaia trovarono uccisi, dinanzi al cimitero di quel paese, il maresciallo dei carabinieri Vito Francesco Campanile, il segretario politico del fascio Corrado Galli, coi figli Giustino e Alì, l’avvocato Francesco Pachetti, Reniero Bruscoli, Ottavino Martinelli e Odoardo Ramerini.
Ai piedi di un cipresso, vicino ai giustiziati, fu apposto un cartello colla seguente iscrizione: “E’ iniziata la vendetta di Monte Cuoio – Brigata Garibaldi” .
Ma quale “memoria condivisa!”
Bernart Bartleby - 2015/8/27 - 11:26
L’eccidio di Scalvaia e le sue conseguenze ricostruite in una sintetica ma bella scheda a cura di Irene Raspollini (ricercatrice ed artista senese) per l’Ecomuseo della Val di Merse.
Ripeto, ma quale memoria condivisa!
Fu nei boschi del Monte Quoio, nel 1943, che il primo nucleo della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini” cominciò ad assembrarsi: vicina alle strade verso Siena e la Maremma e ricca di boschi in cui nascondersi, la zona offriva, oltre che una posizione strategica, anche la protezione necessaria.
Nel marzo del 1944 venne istituito un distaccamento permanente di brigata, chiamato “Fil di Ferro”, nel poggio di Fogari. I partigiani del distaccamento, che era comandato dal monticianese Roberto Galli (detto “Franco”), assaltarono la macchina del capo della Provincia di Grosseto nei pressi di Scalvaia. L’attentato si concluse con l’uccisione del milite fascista Poerio Neri e il ferimento del commerciante monticianese Elamiro Magrini.
La rappresaglia dei fascisti fu puntuale: l’11 marzo fu accerchiato il seccatoio sul Monte Quoio che era diventato rifugio e base per le azioni dei partigiani. Il 9 marzo, le frequenti incursioni fasciste nei boschi senesi avevano impedito a “Franco” di condurre tutte le reclute in salvo al Belagaio. Così i fascisti sorpresero nel seccatoio una ventina di giovani. Nel combattimento, uccisero Giovanni Bovini e ferirono il diciottenne francese Robert Haudin.
Alcuni ragazzi riuscirono a fuggire nei fitti boschi dei dintorni, tuttavia in diciassette furono fatti prigionieri e condotti al cimitero di Scalvaia. Sette di loro furono portati a Siena, mentre i restanti dieci, fatti scendere presso il fosso dell’Acqua Nera, poco dopo il bivio che da Scalvaia porta a Monticiano, furono fucilati. I corpi di Giovanni Bovini, Alizzardo e Alvaro Avi, Lilioso Antonucci, Ezio Filippini, Aldo Mari, Azelio Pieri, Cesare Borri, Faustino Masi, Ermanno Fabbri e Solimano Boschi furono seppelliti provvisoriamente in una fossa comune nel cimitero di Scalvaia. Purtroppo non furono gli ultimi: Haudin, trasportato con gli altri a Siena, morì il 12 marzo per le ferite riportate. Gli altri, condotti alla Caserma Lamarmora, furono sommariamente processati e quattro di loro furono condannati a morte: Adorno Borgianni, Primo Simi, Tommaso Masi e Renato Bindi furono fucilati il 13 marzo.
A seguito di questi fatti, i partigiani catturarono, il 12 giugno, otto uomini di Monticiano, accusati di essere le spie che avevano portato all’eccidio. Dopo essere stati processati, il maresciallo dei Carabinieri Vito Francesco Campanile, Francesco Pachetti, Ranieri Bruscoli, Ottaviano Martinelli, Odoardo Ramerini e Corrado, Giustino e Alì Galli furono fucilati il 17 contro il muro del cimitero di Scalvaia.
Entrambe le azioni ebbero modo di essere giudicate a conflitto concluso. L’istruttoria per l’eccidio di Scalvaia vide imputati, quali mandanti, l’allora prefetto di Siena, Giorgio Alberto Chiurco, e il comandante Zolese. Esecutori materiali della fucilazione furono riconosciuti invece i militi Galliano Bernardi e Alessandro Rinaldi. Nonostante il loro evidente coinvolgimento, con sentenza del 20 luglio 1950, Chiurco e Zolese furono assolti per insufficienza di prove, mentre Bernardi e Rinaldi furono condannati.
Riguardo la cosiddetta “vendetta del Monte Quoio”, invece, l’istruttoria che riguardò i diciassette partigiani che parteciparono alla rappresaglia durò ben sedici anni. Nonostante dagli atti si evinca l’estraneità ai fatti degli otto cittadini di Monticiano fucilati nel giugno del ’44, i partigiani furono assolti perché il fatto costituì “azione di guerra” – secondo quanto stabilito dal decreto legislativo luogotenenziale 194/1945 – e perché i fucilati potevano in buona fede essere sospettati a causa del clima da guerra civile e del trauma subito dalla comunità per l’eccidio di marzo.
I caduti dell’eccidio di Scalvaia sono ricordati con un monumento eretto all’Acqua Nera e con una lapide alla Caserma Bandini (già Lamarmora) di Siena.
Il seccatoio sul Monte Quoio dove i giovani furono sorpresi dai fascisti è stato ristrutturato e reso visitabile.
Bibliografia:
Amidei S. (a cura di), Infamia e gloria in terra di Siena durante il nazi-fascismo, Siena, Cantagalli, 1945.
Cavecchia L., Il partigianato in Val di Merse 1943-1944, Siena, Cantagalli, 2003.
Circolo Culturale Arcibaldo (a cura di), Bellaciao. La resistenza nel senese, Siena, Cantagalli, 2000.
Martinelli Petrini A., La memoria del cuore, Siena, Pascal Editrice, 2006, pp. 45-55.
Nel marzo del 1944 venne istituito un distaccamento permanente di brigata, chiamato “Fil di Ferro”, nel poggio di Fogari. I partigiani del distaccamento, che era comandato dal monticianese Roberto Galli (detto “Franco”), assaltarono la macchina del capo della Provincia di Grosseto nei pressi di Scalvaia. L’attentato si concluse con l’uccisione del milite fascista Poerio Neri e il ferimento del commerciante monticianese Elamiro Magrini.
La rappresaglia dei fascisti fu puntuale: l’11 marzo fu accerchiato il seccatoio sul Monte Quoio che era diventato rifugio e base per le azioni dei partigiani. Il 9 marzo, le frequenti incursioni fasciste nei boschi senesi avevano impedito a “Franco” di condurre tutte le reclute in salvo al Belagaio. Così i fascisti sorpresero nel seccatoio una ventina di giovani. Nel combattimento, uccisero Giovanni Bovini e ferirono il diciottenne francese Robert Haudin.
Alcuni ragazzi riuscirono a fuggire nei fitti boschi dei dintorni, tuttavia in diciassette furono fatti prigionieri e condotti al cimitero di Scalvaia. Sette di loro furono portati a Siena, mentre i restanti dieci, fatti scendere presso il fosso dell’Acqua Nera, poco dopo il bivio che da Scalvaia porta a Monticiano, furono fucilati. I corpi di Giovanni Bovini, Alizzardo e Alvaro Avi, Lilioso Antonucci, Ezio Filippini, Aldo Mari, Azelio Pieri, Cesare Borri, Faustino Masi, Ermanno Fabbri e Solimano Boschi furono seppelliti provvisoriamente in una fossa comune nel cimitero di Scalvaia. Purtroppo non furono gli ultimi: Haudin, trasportato con gli altri a Siena, morì il 12 marzo per le ferite riportate. Gli altri, condotti alla Caserma Lamarmora, furono sommariamente processati e quattro di loro furono condannati a morte: Adorno Borgianni, Primo Simi, Tommaso Masi e Renato Bindi furono fucilati il 13 marzo.
A seguito di questi fatti, i partigiani catturarono, il 12 giugno, otto uomini di Monticiano, accusati di essere le spie che avevano portato all’eccidio. Dopo essere stati processati, il maresciallo dei Carabinieri Vito Francesco Campanile, Francesco Pachetti, Ranieri Bruscoli, Ottaviano Martinelli, Odoardo Ramerini e Corrado, Giustino e Alì Galli furono fucilati il 17 contro il muro del cimitero di Scalvaia.
Entrambe le azioni ebbero modo di essere giudicate a conflitto concluso. L’istruttoria per l’eccidio di Scalvaia vide imputati, quali mandanti, l’allora prefetto di Siena, Giorgio Alberto Chiurco, e il comandante Zolese. Esecutori materiali della fucilazione furono riconosciuti invece i militi Galliano Bernardi e Alessandro Rinaldi. Nonostante il loro evidente coinvolgimento, con sentenza del 20 luglio 1950, Chiurco e Zolese furono assolti per insufficienza di prove, mentre Bernardi e Rinaldi furono condannati.
Riguardo la cosiddetta “vendetta del Monte Quoio”, invece, l’istruttoria che riguardò i diciassette partigiani che parteciparono alla rappresaglia durò ben sedici anni. Nonostante dagli atti si evinca l’estraneità ai fatti degli otto cittadini di Monticiano fucilati nel giugno del ’44, i partigiani furono assolti perché il fatto costituì “azione di guerra” – secondo quanto stabilito dal decreto legislativo luogotenenziale 194/1945 – e perché i fucilati potevano in buona fede essere sospettati a causa del clima da guerra civile e del trauma subito dalla comunità per l’eccidio di marzo.
I caduti dell’eccidio di Scalvaia sono ricordati con un monumento eretto all’Acqua Nera e con una lapide alla Caserma Bandini (già Lamarmora) di Siena.
Il seccatoio sul Monte Quoio dove i giovani furono sorpresi dai fascisti è stato ristrutturato e reso visitabile.
Bibliografia:
Amidei S. (a cura di), Infamia e gloria in terra di Siena durante il nazi-fascismo, Siena, Cantagalli, 1945.
Cavecchia L., Il partigianato in Val di Merse 1943-1944, Siena, Cantagalli, 2003.
Circolo Culturale Arcibaldo (a cura di), Bellaciao. La resistenza nel senese, Siena, Cantagalli, 2000.
Martinelli Petrini A., La memoria del cuore, Siena, Pascal Editrice, 2006, pp. 45-55.
Ripeto, ma quale memoria condivisa!
Bernart Bartleby - 2015/8/27 - 20:54
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Nell’album intitolato “Spettri”
A proposito di discorsi del cazzo e di memoria condivisa, ecco un esempio lampante (uno dei tanti, purtroppo, che si possono fare) di come i fascisti intendono la condivisione della memoria:
All’inizio del 1944 i partigiani garibaldini operanti tra Siena e Grosseto avevano organizzato un campo di addestramento per renitenti alla leva nella zona di Monticiano.
Nel marzo, in seguito ad un fallito attentato ad un gerarca di Grosseto, repubblichini e tedeschi lanciano un vasto rastrellamento nella zona, giungendo a circondare l’accampamento partigiano all’alba dell’11 marzo. Nello scontro a fuoco rimane ucciso il partigiano Giovanni Bovini e un francese, Robert Houdin, rimane gravemente ferito (morirà pochi giorni dopo in ospedale a Siena). 19 giovani reclute, prive ancora delle armi e dell’addestramento necessario, si arrendono… Uno di loro si aggrega ai fascisti, altri 8 vengono portati via (compreso il ferito) e 10 vengono condotti presso il cimitero in frazione Scalvaia e lì fucilati. Le vittime:
Alvaro Avi, 22 anni
Cesare Borri, 22 anni
Solimano Boschi, 20 anni
Armando Fabbri, 19 anni
Ezio Filippini, 21 anni
Azelio Pieri, 21 anni
Lilioso Antonucci, 21 anni
Aldo Mari, 22 anni
Faustino Masi, 22 anni
Sui loro corpi viene lasciato un cartello con su scritto: “Nel luogo in cui un nostro milite ha trovato la morte per mano dei ribelli, questi traditori sono stati raggiunti dalla giustizia. La giustizia arriva sempre per uno a dieci.”
Degli altri 7, tutti processati davanti al tribunale speciale, 3 vennero condannati a 24 anni di carcere e 4 vennero fucilati nella caserma La Marmora di Siena.