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Black Market

Marlene Dietrich
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Marlene Dietrich

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La Dietrich con Hollaender al pianoforte...




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El fantasma del laac
(Davide Van De Sfroos)
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(Marlene Dietrich)
Οι λαδάδες
(Mihalis Genitsaris / Μιχάλης Γενίτσαρης)


[1948]
Parole e musica di Friedrich Hollaender, compositore tedesco, ebreo, nato a Londra e divenuto celebre nella Berlino di Weimar prima che l’avvento del nazismo lo costringesse, come molti altri, a fuggire. Dopo un breve soggiorno a Parigi, emigrò negli States dove scrisse canzoni per le colonne sonore di molti film di successo.



Black Market - così come In den Ruinen von Berlin - fu scritta per Marlene Dietrich che la interpretò in “A Foreign Affair” (“Scandalo internazionale”), pellicola diretta nel 1948 da un altro immigrato di lingua tedesca e di religione ebraica, l’austriaco Samuel Wilder, divenuto poi Billy Wilder (cognome identico ma di pronuncia diversissima).

Marlene Dietrich in “A Foreign Affair” è Erika von Schlütow, fatale cantante di cabaret con un passato di protetta dalla gerarchia nazista (nella foto il pianista è lo stesso Friedrich Hollaender)
Marlene Dietrich in “A Foreign Affair” è Erika von Schlütow, fatale cantante di cabaret con un passato di protetta dalla gerarchia nazista (nella foto il pianista è lo stesso Friedrich Hollaender)


Uno degli effetti collaterali di ogni guerra, dovuto alla penuria e alla difficoltà di procurarsi ogni cosa, alla chiusura delle frontiere, alle sanzioni spesso imposte da altri paesi, all’adeguarsi delle organizzazioni criminali alla situazione, al permanere, pur nel conflitto, della solita rigida distinzione tra chi ha di che vivere e assai di più e chi invece ha perso anche quel poco che aveva, una delle conseguenze della guerra - dicevo - è sempre il fiorire del “mercato nero”, del contrabbando.
Un aspetto finora non molto presente sulle CCG, se non - mi pare - per una canzone greca, Οι λαδάδες, una italiana del nostro Venturi, Storia del finanziere, del vuotabotte, degli occupanti e di due fiaschi di vino, e poi alcune di Davide Van De Sfroos, che però hanno più a che vedere con “La guerra del lavoro” che non con la Guerra in senso proprio.
Black Market
Sneak around the corner
Budapester Strasse

Black Market
Peek around the corner
“La Police qui passe”

Come! I’ll show you things you cannot get elsewhere
Come! Make with the offers and you’ll get your share.

Black Market
Eggs for statuettes, a smile for sigarettes
Got some broken down ideals? Like wedding rings?

Shh! Tip toe. Trade your things

I’ll trade you for your candy
Some georgeous merchandise
My camera. It’s a dandy
Six by nine - just your size
You want my porcellain figure?
A watch? A submarine?
A Rembrandt? Salami? Black lingerie from Wien?
I’ll sell my goods
Behind the screen.
No ceiling, no feeling. A very smooth routine
You buy these goods, and boy these goods are keen.

Black Market
Laces for the missis, chewing gum for kisses.
Black Market
Cuckoo clocks and bangles, thousand little angles.
Come! And see my little music box today.
Price? Only six cartons. Want to hear it play?

Black Market
Milk and microscope for liverwurst and soap.
Browse around, I’ve got so many toys.
Don’t be bashful
Step up, boys.

You like my first edition?
It’s yours, that’s how I am.
A simple definition
You take art, I take spam.

To you for your “K” ration: compassion and maybe
An inkling, a twinkling or real sympathy
I’m selling out - take all I’ve got!
Ambitions! Convictions! The works!
Why not? Enjoy these goods, for boy these goods...

Are hot!

Contributed by Bernart Bartleby - 2015/5/4 - 21:24


Black Market / Marlene Dietrich

di Luca da The Walwian

Al mercato nero puoi trovare quello che ti serve, meno quello di cui hai bisogno, se si riesce a cogliere la differenza. Abdul, ma potrebbe chiamarsi Mohammad, o Alì, e il suo amico, fanno a pugni per un dollaro americano. I soldati guardano. Ancora sottili differenze.
Guarda la polizia di Badgad. Sono collaborazionisti? Sono eroi? Le dita si arrampicano sul mappamondo, ne seguono le rughe più cupe, fino al cuore dell’Asia. Afganistan. Vincere una guerra significa controllare il territorio. L’Afganistan è pietra e caverne, deserto freddo e caldo, polvere e plutonio impoverito. Sono circa 3000 anni che chiunque prova a metterci piede ne esce très male. Ha l’aria di un posto che un bombardamento atomico non può far altro che rendere più grazioso.

Marlene inventa un talkin blues mittel europeo, franco-tedesco. Elenca beni di struggente inutilità. Orologi a cucù e tesori non meglio specificati. L’elegante gerarca nazista tiene chiusi in cassaforte due antichi fiamminghi. I talebani studiano a memoria il corano, i kalashnikov sono feticci. Pezzi di storie, ora impolverate, ora fluorescenti di notte.
Flash. La Dietrich elenca a watch, a submarine, a Rembrandt, salami, black lingerie from Wien, è la vecchia Europa appena uscita dalle fiamme, è la working class tra le macerie. I brooker con le scatole di cartone in mano lasciano la sede della Lehman Brothers, i cui vertici probabilmente preferirebbero un attacco terroristico al Lehman Brothers Holdings Inc. has filed for bankruptcy protection in the U.S. che campeggia su Lehman.com. Non riesci a capire che è una guerra, perchè non vedi le palme. Il deserto è asettico. Hai bisogno di vedere la giungla per capire quanto si siamo messe male le cose. Il deserto sembra semplice. I pozzi in fiamme.

Tv in modalità acquario, si diffonde la notizia che Saddam è stato catturato, a poche ore dall’inizio della guerra. Tāreq Azīz va di emittente tv in emittente tv a smentire la notizia. Gli americani lo seguono con un satellite. Bombardano una ad una le sedi delle televisioni. Le palme in Vietnam ondeggiano nell’afa. Non si infiammano di napalm, puppulano di spettri e insetti.
Marlene canta, resistente e tranfuga, in una Parigi appena fuori dalla guerra. Non ci sono strascichi di pallottole. Ci sono macerie. Fast forward. Dresda non è più patrimonio dell’umanità. Hanno voluto costruire un ponte. Secondo una certa logica, di ponti ne potrebbero costruire quanti ne vogliono, anche brutti, dopo che i bombardamenti hanno lasciato pochi muri più alti di mezzo metro, solo sessanta anni fa.
La globalizzazione non è un big crounch? Se c’è la guerra che polverizza la civilizzazione delle infrastrutture, se vivi in un paese tagliato fuori dalle comunicazioni globali, come accade ai grandi e sfortunati persiani proprio ora, se un biglietto aereo è troppo costoso, la distanza non si azzera. E’ il tempo, relativo, che scompare.
Allora Marlene canta il mercato nero, mentre i mercati crollano, mentre la gente viene fatta a pezzi da un’altra bomba in un mercato mediorientale, mentre uno sgherro iraniano spara nel mezzo del petto di una ragazza persiana, in un mercato di Teheran. E’ un mondo irrisolto.

I latinos sui carri si pagano un pezzo di casa. Le mitragliatrici ad alzo zero, il ghetto dall’altra parte del mondo. Armi pesanti registrate, armi pesanti non registrate. Nello stesso istante le carcasse delle auto colpite dalle raffiche arruginiscono a Dubrovnik, la palme riprendono improvvisamente fuoco in Vietnam, ma è solo un incubo; la pianura della provincia italiana puzza di polvere da sparo, ma non è una guerra napoleonica, son fuochi d’artificio. Starsene acquattati sull’argine, a guardare, e risentire la terra come unica linea di separazione, volerci entrare dentro, per via delle schegge.
I calcinacci vengono giù più lentamente dei titoli di borsa, che sprofondano fino al 1929, e oltre, più giù, più in basso dell’ultima trave di cemento contorto sotto Ground Zero. E’ un mondo che salta l’ostacolo, e intanto prende fuoco, si surriscalda. Conserviamo gli affetti in scatoloni. Sputiamo opinioni davanti ai caffè. Le facciate si riempiono di buchi, ragnatele e fuoco fresco.
Azzeriamo la distanza tra vita ed arte. Tra pensiero e comunicazione, tra vero e falso. E’ impossibili dipanare un quadro completo. Viviamo in un mondo nel pieno di convulsi post. Perchè queste righe dovrebbero essere chiare? Quale odioso artificio, o semplificazione, bisognerebbe adottare? Qualcuno ha capito cosa sta accadendo? E’ chiaro per qualcuno? Per esser gente che vive in un Paese in pace, in tempo di pace, risulta abbastanza difficile non scrivere di guerra. Bisogna essere risoluti per non parlare di cose post belliche.

Marlene smercia milk and microscope for liverwurst and soap e con gli occhi spalancati chiusi, il latte è di cammella, il liverwurst è kebab, il sapone è olio. L’era post bellica era fredda, oggi il mondo è riarso, umido. Boogie e hip hop, Hendrix per la libera uscita a Saigon, Springsteen per quella a Bassora.

Le donne in bicicletta in Francia. Portano lettere della resistenza. Le donne imbottite di esplosivo in Cecenia e Palestina. Le donne prese a cinghiate nei boulevard di Teheran, i voli radenti dei motociclisti neri. Puttane in Vietnam, boocoo sexy, amole lungo, amole bleve, pochi dollali. Un cappello esplode davanti al restaurant dell’americano tranquillo, una granata fa scempio di corpi a Sarajevo, la prima torre va giù di schianto a Manhattan, Falluja è di fosforo, stanotte, ora, tutto contemporaneamente. Migliaia di soldati si sbracano in brandina, un tonfo all’unisono. Sono stanchi, sono svuotati per sempre, accanto a loro profilattici Trojan, bibbie, corani, caricatori, in bocca sapore di cordite o hamburger. Capelli rasati, barbe clericali. Soldati bianchi. Completi da 500 dollari e foto della fidanzata nello scatolone, auricolari di cellulari. Finanzieri condotti via come gerarchi. Sta accadendo tutto nello stesso momento. La contemporaneità dona verità al delirio.
Siamo in guerra e in pace. Le cose accadute succederanno tutte domani.

E’ ora di dormire. Non sogniamo. E’ già la fuori.
No ceiling, no feeling.
A very smooth routine
You buy my goods, and boy my goods are keen.
Black Market Coocoo clocks and treasures
Thousand little pleasures
Black Market Laces for the missis,
chewing gum for kisses.

Bernart Bartleby - 2015/5/4 - 21:41




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