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East Timor

Robert Wyatt
Lingua: Inglese


Robert Wyatt

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Originariamente in "Old Rottenhat" (1985) ora la si può trovare nel cd "Mid-eighties" (1993). Poche parole per ricordare una guerra poco conosciuta e molto dimenticata: nel 1985, quando Wyatt pubblica questa canzone, Timor si era proclamata indipendente (10 anni dopo l'invasione indonesiana) e l'Indonesia aveva reagito con una durissima repressione.
Timor
East Timor
Who's your fancy friend, Indonesia?
What did Gillespie do to help you?

inviata da Renato Stecca - 27/10/2006 - 07:06



Lingua: Italiano

Versione italiana
TIMOR ORIENTALE

Timor
Timor Orientale
Chi è il tuo amico capriccioso, Indonesia?
Che ha fatto Gillespie per aiutarti?

inviata da Renato Stecca - 27/10/2006 - 07:08


Vi invio (come commento a questa canzone, dato che non mi viene in mente se ce ne sono altre collegate all'Indonesia) l'articolo di Federico Rampini pubblicato su la Repubblica oggi (28 gennaio 2008) sulla morte del dittatore Suharto; mi sembra interessante per il sito. Ciao.

Morte di un dittatore sangue e corruzione in 30 anni di potere
A Giacarta, aveva 86 anni. Fu alleato degli Stati Uniti contro il “pericolo rosso”
La Banca Mondiale lo ha accusato di aver sottratto 35 miliardi di dollari all’Indonesia


FEDERICO RAMPINI

Suharto Lo definirono “il più grande cleptocrate della storia”, una classifica della Banca Mondiale gli attribuisce il record della corruzione personale fra tutti i leader del XX secolo: dai 15 ai 35 miliardi di dollari sottratti alle casse dello Stato. Ebbe sulla coscienza almeno mezzo milione di morti nei pogrom anticomunisti del 1965, altre 200mila vittime per l’annessione di Timor orientale nel 1975, e un’ultima strage di 500 studenti nel maggio 1998 durante l’agonia del suo regime.
Haji Muhammad Suharto, morto a Giacarta all’età di 86 anni, nei 32 anni di potere fu uno dei dittatori più brutali e sanguinari dei suoi tempi. Era uno degli alleati strategici dell’America nella guerra fredda, quando per la “teoria del domino” a Washington si paventava il dilagare del comunismo in tutta l’Asia, e pur di arginare il pericolo rosso tutti i metodi erano leciti. Con il suo pugno di ferro seppe tenere insieme la quarta nazione più popolosa del pianeta (200 milioni di abitanti), il più grande paese islamico del mondo e uno dei più frammentati: 300 gruppi etnici, con 250 lingue diverse, distribuiti in un arcipelago di 17.000 isole.
Fu la globalizzazione a segnare il suo tramonto politico, quando la crisi finanziaria asiatica del 1997 spazzò via ogni residuo di consenso verso il regime e aprì la strada alla democrazia. Eppure tuttora il bilancio dell’èra Suharto è un tabù per molti indonesiani e sicuramente per una parte della classe dirigente. Alcuni continuano a chiamarlo “il padre dello sviluppo”, come lui stesso amava definirsi negli anni ’70. Pochi minuti dopo l’annuncio della sua morte, l’attuale presidente Susilo Bambang Yudhoyono ha condotto in diretta televisiva una preghiera nazionale, esordendo con queste parole: «Invito tutto il popolo dell’Indonesia a pregare perché le buone azioni del defunto e la sua dedizione al paese siano gradite ad Allah onnipotente. Suharto ha reso grandi servizi alla nazione».
Nato sull’isola di Giava nel 1921 da una famiglia poverissima, quando l’Indonesia è ancora una colonia dei Paesi Bassi, il giovane Suharto si arruola nell’Esercito Reale delle Indie olandesi nel 1940. Tre mesi dopo Pearl Harbor i giapponesi invadono l’Indonesia e conquistano rapidamente l’appoggio della élite nazionalista locale, in nome di un fronte comune contro l’imperialismo “bianco”. Suharto entra quindi nel corpo dei volontari addestrati sotto il comando nipponico: è il nucleo originario della resistenza armata che dopo la fine della seconda guerra mondiale conquisterà l’indipendenza dall’Olanda.
Nazionalismo e anticomunismo resteranno i due collanti ideologici dell’esercito, la base di potere di Suharto. Il primo ottobre 1965, mentre l’Indonesia è governata dal presidente Sukarno, sei generali di estrema destra vengono catturati e uccisi in un misterioso complotto. Suharto, uno dei pochi leader militari sopravvissuti, indica nel partito comunista il mandante delle esecuzioni e prende il comando delle rappresaglie. In pochi mesi vengono massacrati 500mila cittadini accusati di appartenere al Pc, altre centinaia di migliaia vengono incarcerati o licenziati dal lavoro. Anche l’importante minoranza etnica cinese viene presa di mira dalle persecuzioni perché sospettata di essere la “quinta colonna” di Mao Zedong nell’arcipelago. Due anni dopo Suharto prende anche formalmente il posto di Sukarno. Da quel momento viene”riconfermato” ogni cinque anni attraverso elezioni-farsa, in cui le forze d’opposizione sono messe al bando e 100 seggi parlamentari sono riservati d’ufficio ai militari. Nonostante il suo potere assoluto Suharto disdegna il culto della personalità.
Non vuole statue o piazze intitolate al suo nome, e solo negli ultimi tempi del suo regime il suo volto appare sulle banconote (non porterà fortuna né a lui né all’economia indonesiana). La sua leggenda è costruita sul mistero. Il terrore che regna nel suo Nuovo Ordine è fondato su una fitta rete di agenzie di spionaggio che controllano ogni forma di dissenso e schiacciano la libertà d’espressione. Ma se Suharto è discreto nella sua vita personale, non altrettanto può dirsi del suo entourage familiare. Un vasto clan di parenti controlla l’80 per cento dell’industria di Stato e degli appalti pubblici, prelevando tangenti su ogni affare.
Per molti anni, malgrado la corruzione, il bilancio economico di Suharto suscita invidia. Ha ereditato un paese agricolo e sottosviluppato, lo trasforma in uno dei “dragoni” del sudest asiatico, con tassi di crescita sostenuti. È baciato da due coincidenze fortunate. Anzitutto arriva al potere in piena escalation della guerra del Vietnam. Gli Stati Uniti stravedono per un nemico del comunismo come lui. Gli aiuti ufficiali che Washington gli fornisce annualmente raggiungeranno i 4 miliardi di dollari. La seconda fortuna si chiama crisi energetica: i due choc petroliferi del 1974 e del 1977 sono una manna dal cielo per l’Indonesia che è uno dei grandi produttori di greggio del mondo.
Nel 1986 tuttavia gli abusi perpetrati da Suharto contro i diritti umani diventano una macchia imbarazzante per Ronald Reagan, quando il presidente americano parte per un “viaggio della libertà” in tutta l’Asia, con lo scopo di incalzare ideologicamente il blocco dei paesi comunisti. A poche ore dall’arrivo di Reagan a Bali, Suharto fa espellere dal paese il corrispondente del New York Times e due giornalisti australiani che hanno osato raccontare le ruberie del regime.
Nel 1989 la caduta del Muro di Berlino rende «superflui» e sempre più scomodi per l’Occidente i dittatori come lui. Nell’euforia della nuova economia globale, l’Indonesia è uno dei paesi più esposti ai venti della speculazione internazionale. L’iperinflazione alimenta le proteste sociali e già nel 1996 - anticipando di un anno la «crisi asiatica» - la valuta indonesiana crolla del 30 per cento. Si precipita a Giacarta un task force del Fondo monetario internazionale; esige un piano di austerità per concedere 43 miliardi di dollari che salvino il paese dalla bancarotta. Suharto li asseconda con una sua versione del rigore: tutti devono pagare fuorché la sua famiglia. Nei due anni successivi la situazione precipita, con la disoccupazione alle stelle e scontri sociali sempre più violenti. «Almeno questa crisi economica - commenterà l’intellettuale di opposizione Jusuf Wanandi - Suharto non può ucciderla a fucilate o rinchiuderla in carcere». Nel 1997 la deflagrazione della crisi thailandese scatena la fuga dei capitali da tutta l’area, coinvolge l’Indonesia in un nuovo collasso finanziario, il panico spinge le folle ad assaltare gli sportelli bancari. Suharto è finalmente costretto a ritirarsi. Nel 1999 la nuova Indonesia riconosce l’indipendenza di Timor orientale.
Insieme a una lunga catena di orrori, Suharto avrà lasciato in eredità un certo pluralismo religioso: pur essendo musulmano come l’80 per cento dei suoi concittadini, non volle mai concedere spazio al fondamentalismo. Questo non ha impedito al gruppo terrorista Jemaah Islamiyah di penetrare in Indonesia, “firmando” la strage di Bali del 2002. Il dittatore è uscito di scena senza mai avere subìto un processo (ufficialmente esentato per motivi di salute) e senza mai avere ammesso le sue colpe. I suoi eredi potrebbero perfino intascare 100 milioni di dollari di indennizzo dal settimanale americano Time, condannato per diffamazione da un tribunale indonesiano per aver osato riportare le stime della Banca Mondiale sul bottino della famiglia Suharto.

Renato Stecca - 28/1/2008 - 15:54




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