Quando il ghiaccio striderà
dentro le rive verdi, e romperanno
dai celesti d’aria amara
nelle pozze delle carraie
globi barbari di primavera
noi saremo lontani.
Vorremmo tornare e guardare,
carezzare il trifoglio dei prati,
gli stipiti della casa nuova,
piangere di pietà
dove passò nostra madre:
invece saremo lontani.
Invece noi prigionieri
rideremo senza requie
e odieremo fin dove le lame
dei coltelli s’impugnano.
Maledetto chi ci conduce
lontano, sempre lontano.
E quando saremo tornati
l’erba pazza sarà nei cortili,
e il fiato dei morti nell’aria.
Le rughe sopra le mani,
la ruggine sopra i badili:
e ancora saremo lontani.
Saremo ancora lontani
dal viso che in sogno ci accoglie
qui, stanchi d’odio e d’amore.
Ma verranno nuove le mani
come vengono nuove le foglie
ora ai nostri campi lontani.
Ma la gemma s’aprirà,
e la fonte parlerà, come una volta.
Splenderai, pietra sepolta,
nostro antico cuore umano,
scheggia cruda, legge nuda,
all’occhio del cielo lontano.
dentro le rive verdi, e romperanno
dai celesti d’aria amara
nelle pozze delle carraie
globi barbari di primavera
noi saremo lontani.
Vorremmo tornare e guardare,
carezzare il trifoglio dei prati,
gli stipiti della casa nuova,
piangere di pietà
dove passò nostra madre:
invece saremo lontani.
Invece noi prigionieri
rideremo senza requie
e odieremo fin dove le lame
dei coltelli s’impugnano.
Maledetto chi ci conduce
lontano, sempre lontano.
E quando saremo tornati
l’erba pazza sarà nei cortili,
e il fiato dei morti nell’aria.
Le rughe sopra le mani,
la ruggine sopra i badili:
e ancora saremo lontani.
Saremo ancora lontani
dal viso che in sogno ci accoglie
qui, stanchi d’odio e d’amore.
Ma verranno nuove le mani
come vengono nuove le foglie
ora ai nostri campi lontani.
Ma la gemma s’aprirà,
e la fonte parlerà, come una volta.
Splenderai, pietra sepolta,
nostro antico cuore umano,
scheggia cruda, legge nuda,
all’occhio del cielo lontano.
inviata da Bernart Bartleby - 1/10/2014 - 13:24
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Versi di Franco Fortini, nella raccolta “Foglio di via ed altri versi”, Einaudi, Torino, 1946.
Non so se questa spledida e agghiacciante poesia sia mai stata messa in musica, ma si tratta comunque del canto di un “Coro dei deportati”…