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Peter Norman

Wu Ming Contingent
Lingua: Italiano


Wu Ming Contingent

Lista delle versioni e commenti


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Coplas de las medallas
(Judith Reyes)
Mr. John Carlos
(Nationalteatern)


[2014]

Album:Bioscop

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Peter George Norman (Melbourne, 15 giugno 1942 – Williamstown, 3 ottobre 2006) è stato un atleta australiano, specializzato nella velocità e vincitore della medaglia d'argento sui 200 metri piani ai Giochi olimpici di Città del Messico 1968. Sulla storia di Peter Norman vedi Mr. John Carlos.

Statue di Tommie Smith e John Carlos alla San Josè state university
Statue di Tommie Smith e John Carlos alla San Josè state university
Nel mondo album c’erano le foto
che credevamo di conoscere bene
La prima impronta dell’uomo sulla luna
Il carroarmato sotto Arbeit Macht Frei
I capelli di Ernesto Che Guevara
La fuga nuda di una bimba dal napalm
I pugni olimpici di Mexico City

Ma c’è vita, oltre la cornice
e una voce che tace fuoricampo

Olimpiadi, ottobre ‘68
Il podio dei duecento metri piani
Tommie Smith è quello al centro
John Carlos è di bronzo,
Giù la testa, pugno al cielo mentre
sventola l’inno stellestrisce.

Il terzo incomodo si chiama Peter Norman
Bianco australiano, braccia lungo i fianchi
posa rigida, diresti a disagio
Emblema, icona, antonomasia
di chi non c’entra e vorrebbe sprofondare
di chi non c’entra ed è costretto ad entrare.

Ma c’è vita, oltre la cornice
e una voce che tace fuoricampo

Ingrandisci lo sguardo pettinato
scivoli sulla tuta vecchio stile
sopra lo stemma col canguro d’Australia
Peter indossa una patacca tonda
Lo stesso tondo che Tommie e John
portano sopra la scritta U-s-a
Olympic Project for Human Rights
un movimento di atleti americani
per ridare il titolo a Muhammed Ali
per pretendere più allenatori black
per escludere le nazioni apartheid
per cacciare il nazi-boss del Comitato Olimpico

Ma ti parlano di un gesto isolato
e la voce tace fuoricampo

Quattro anni dopo, Monaco ‘72
l’Australia non manda velocisti
L’unico a fare la qualificazione
È Peter Norman, ma lo tengono a casa.
A Sidney 2000 non lo invitano nemmeno
ma il suo tempo di ottobre ‘68
è ancora il record nazionale.

Nel mondo album teniamo quelle foto
che credevamo di conoscere bene
molte vite in forma di quadro
ma della nostra non c’è immagine intera
ci sono solo i pezzi di un mosaico.
e la voce che tace fuoricampo

Peter Norman, Peter Norman
Peter Norman, ...

inviata da adriana + DonQuijote82 - 26/4/2014 - 17:34


L’uomo bianco in quella foto

Pubblicato da Qualcosa di Sinistra in Parola d'Autore, Storia 3 settembre 2015

di Riccardo Gazzaniga, scrittore, dal suo profilo facebook

Le fotografie, a volte, ingannano. Prendete questa immagine, per esempio. Racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte.

L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy.

È la foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino.

L’ho considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso. Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro grido silenzioso.

Invece sono stato ingannato.

Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più grande emerso da quella notte del 1968.

Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo.

La vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro settantotto che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi il metro e novanta.

Arrivò la finale e l’outsider Peter Norman corse la gara della vita, migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza.

Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro.

John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore. Fu una gara bellissima, insomma. Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione.

Non passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio. Smith e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti. Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni, tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di famiglie di bianchi.

I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani. Norman rispose di sì. Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì. “Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”. Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza. Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo delle lotte delle Pantere Nere.

Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri. “Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio. Ma poi Norman fece qualcos’altro. “Io credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“ chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”. Smith ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”.

Così gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco,Paul Hoffman, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che avevo: il mio”.

I tre uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto.

“Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman –Ma ho capito che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”. Il capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport. Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva accusato pure lui di cospirazione. Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte.

Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua all’Università di San José. In questa statua non c’è Peter Norman. Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia.

Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e per 5 sotto quello dei 100. Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale.

In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria. Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di depressione e alcolismo.
Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”.

Per anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle Olimpiadi di Sidney 2000.
Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani.

Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un modello e un eroe.
Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato.

Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe. “Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John Carlos.

“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith –Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”.

Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia con queste parole:

“Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano. Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”. Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”.

Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote Matt. “Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era un’ingiustizia sociale per la quale nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo. È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance. Invece è il contrario. Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.

Dq82 - 30/9/2017 - 15:13



Lingua: Francese

Version française – PETER NORMAN, LE TROISIÈME HOMME – Marco Valdo M.I. – 2021
Chanson italienne – Peter Norman – Wu Ming Contingent – 2014

Peter George Norman (Melbourne, 15 juin 1942 – Williamstown, 3 octobre 2006) était un athlète australien, spécialisé dans la vitesse, qui a remporté la médaille d’argent du 200 mètres plat aux Jeux olympiques de Mexico en 1968. Pour l’histoire de Peter Norman, voir Mr. John Carlos et aussi, Peter Norman (Alberto Cantone).

L’homme blanc sur cette photocopie

Par Riccardo Gazzaniga, écrivain. (Quelque chose à gauche dans Mot d’Auteur, Histoire le 3 septembre 2015 – tiré de L’uomo bianco in quella foto – Pubblicato da Qualcosa di Sinistra in Parola d’Autore, Storia 3 settembre 2015)

Peter NormanLes photographies trompent parfois. Prenez cette image, par exemple. Elle raconte le geste de rébellion de Tommie Smith et John Carlos le jour de la cérémonie de remise des prix du 200 mètres aux Jeux olympiques de Mexico, et elle m’a trompé plusieurs fois.
Je l’ai toujours regardé en me concentrant sur les deux hommes noirs aux pieds nus, la tête baissée et le poing ganté de noir vers le ciel, tandis que retentit l’hymne américain. Un geste symbolique très fort, pour revendiquer la protection des droits des Afro-Américains dans une année de tragédies telles que la mort de Martin Luther King et de Bob Kennedy.
Il s’agit d’une photo du geste historique de deux hommes noirs. C’est pourquoi je n’ai jamais regardé de trop près cet homme, blanc comme moi, qui se tenait immobile sur la deuxième marche.
Je le considérais comme une présence occasionnelle, un figurant, une sorte d’intrus. En fait, j’ai même cru que ce type – ce devait être un Anglais faisant la grimace – représentait, dans son immobilité glaciale, la volonté de résister au changement que Smith et Carlos appelaient de leur cri silencieux.
Au contraire, je m’étais trompé.
Grâce à un vieil article de Gianni Mura, j’ai découvert aujourd’hui la vérité : l’homme blanc sur la photo est, peut-être, le plus grand héros à émerger de cette nuit de 1968.
Il s’appelait Peter Norman, était australien et arriva en finale du 200 mètres après avoir couru un fantastique 20.22 en demi-finale. Seuls les deux Américains Tommie « The Jet » Smith et John Carlos avaient fait mieux : 20.14 pour le premier et 20.12 pour le second.
La victoire se jouera entre eux deux, Norman était un inconnu qui se débrouillait bien. John Carlos, des années plus tard, a dit qu’il se demandait d’où venait ce petit homme blanc. Un homme d’un mètre septante-huit qui courait aussi vite que lui et Smith, qui dépassaient tous deux plus le mètre nonante.
La finale arriva et l’outsider Peter Norman fait la course de sa vie, s’améliorant encore. Il termine en 20.06, sa meilleure performance de toujours et un record australien aujourd’hui encore invaincu, à 47 ans de distance.
Mais ce record ne suffit pas, car Tommie Smith était vraiment « The Jet » et répond avec le record du monde. Il abattit le mur des vingt secondes, premier homme de l’histoire, terminant en 19.82 et remportant l’or.
John Carlos est arrivé troisième d’un souffle, derrière la surprise Norman, le seul homme blanc parmi les champions noirs. Ce fut une belle course. Pourtant, cette course ne sera jamais rappelée autant que de sa remise de prix.
Il ne fallut pas longtemps après la fin de la course pour qu’on comprenne que quelque chose de fort, d’inédit, allait se produire au moment de monter sur le podium. Smith et Carlos avaient décidé de porter face au monde entier leur combat pour les droits de l’homme et la nouvelle circulait parmi les athlètes. Norman était un blanc et venait d’Australie, un pays qui avait des lois d’apartheid presque aussi dures que celles de l’Afrique du Sud. En Australie aussi, il y avait des tensions et des manifestations de rue à la suite des restrictions pesantes imposées à l’immigration non blanche et des lois discriminatoires à l’encontre des Aborigènes, parmi lesquelles les horribles adoptions forcées d’enfants autochtones dans des familles blanches.
Les deux Américains demandèrent à Norman s’il croyait aux droits humains. Norman répondit que oui. Ils lui demandèrent s’il croyait en Dieu et lui, qui avait un passé dans l’Armée du Salut, répondit encore oui. « Nous savions que nous allions faire quelque chose qui dépassait de loin toute compétition sportive et il a dit 'Je serai avec vous'", se souvient John Carlos, « Je m’attendais à voir de la peur dans les yeux de Norman, au contraire j’y vis de l’amour ». Smith et Carlos avaient décidé de monter sur le podium en portant un emblème du Projet olympique pour les droits humains, un mouvement d’athlètes solidaires des batailles pour l’égalité. Ils allaient aller chercher leurs médailles pieds nus, pour représenter la pauvreté des hommes noirs. Et ils porteraient les fameux gants de cuir noir, symbole des luttes des Panthères noires.
Mais avant de monter sur le podium, ils ont réalisé qu’ils n’avaient qu’une seule paire de gants noirs. « Prenez-en un chacun », a suggéré le coureur blanc, et ils ont suivi son conseil. Mais ensuite Norman a fait quelque chose d’autre. « Je crois en ce que vous croyez. Vous en avez un pour moi aussi ? » demanda-t-il en montrant l’emblème du Human Rights Project sur la poitrine des deux autres. « Ainsi je peux montrer ma solidarité avec votre cause. » Smith a admis qu’il était resté stupéfait et avait pensé : « Que veut cet Australien blanc ? Il a gagné sa médaille d’argent, qu’il la prenne et basta ! ».
Il lui répondit non, notamment parce qu’il ne voulait pas se priver de son blason. Mais avec eux se trouvait un rameur américain blanc, Paul Hoffman, un militant du Projet olympique pour les droits de l’homme. Il avait tout entendu et pensait que « si un Australien blanc voulait un de ces badges, par Dieu, il devait l’avoir ! ». Hoffman n’a pas hésité : « Je lui ai donné le seul que j’avais : le mien. »
Les trois sortirent sur le terrain et montèrent sur le podium : le reste est passé à l’histoire, avec la puissance de cette photo.
« Je n’ai pas vu ce qui se passait derrière moi », raconta Norman, « mais j’ai su que tout se passait comme ils l’avaient prévu lorsqu’une voix dans la foule commença à chanter l’hymne américain, puis elle s’arrêta. Le stade devint silencieux. Le chef de la délégation américaine jura que ses athlètes paieraient toute leur vie entière qui n’avait rien à voir avec le sport. Immédiatement, Smith et Carlos furent exclus de l’équipe américaine et chassés du village olympique, tandis que le rameur Hoffman était lui accusé de conspiration. Rentrés chez eux, les deux coureurs ont subi de très lourdes répercussions et des menaces de mort.
Mais le temps, à la fin, leur a donné raison et ils sont devenus des paladins de la lutte pour les droits humains. Ils ont été réhabilités, en collaboration avec l’équipe d’athlétisme américaine, et une statue leur a été érigée à l’université de San José. Dans cette statue, il n’y a pas Peter Norman. Cette place vide ressemble à l’épitaphe d’un héros que personne n’a jamais remarqué. Un athlète oublié, même, effacé, et avant tout par son pays, l’Australie.
Quatre ans plus tard Mexico 1968, à l’occasion des Olympiades de Munich, Norman ne fut pas appelé dans l’équipe australienne de coureurs, bien qu’il ait couru 13 fois sous le temps de qualification des 200 mètres et 5 fois sous celui des 100 mètres. En raison de cette déception, il abandonna l’athlétisme de compétition, continuant à courir en amateur.
Chez lui, dans l’Australie blanche qui voulait résister au changement, il fut traité comme un paria, sa famille discréditée, le travail presque impossible à trouver. Il devient professeur de gymnastique, poursuit ses luttes en tant que syndicaliste et travaille occasionnellement dans une boucherie. Une blessure lui a causé une grave gangrène et il a souffert de dépression et d’alcoolisme.
Comme l’a dit John Carlos : « Si nous deux, nous nous sommes fait botter le cul à tour de rôle, Peter affronta un pays entier et souffrit seul ».
Pendant des années, Norman eut une seule chance de se sauver : il fut invité à condamner les actions de ses collègues Tommie Smith et John Carlos, en échange du pardon du système qui l’avait ostracisé. Un pardon qui lui aurait permis de trouver un emploi stable au sein du Comité olympique australien et de participer à l’organisation des Jeux olympiques de Sydney 2000.
Mais il ne faiblit pas et ne condamna jamais le choix des deux Américains.

Il était le plus grand sprinter australien jamais vu et le détenteur du record du 200 m, et pourtant, il n’eut même pas une invitation aux Olympiades de Sydney. C’est le Comité olympique américain, une fois connue la nouvelle, qui lui demanda de se joindre son groupe et l’a invité à la fête d’anniversaire du champion Michael Johnson pour qui Peter Norman était un modèle et un héros.
Norman est mort subitement d’une crise cardiaque en 2006, sans que son pays l’ait jamais réhabilité.
Lors des funérailles, Tommie Smith et John Carlos, les amis de Norman depuis ce lointain 1968, portèrent son cercueil sur leurs épaules, le saluant comme un héros. « Peter a été un soldat solitaire. Il a consciemment choisi d’être un agneau sacrificiel au nom des droits humains. Il n’y a personne plus que lui que l’Australie devrait honorer, reconnaître et apprécier », a déclaré John Carlos.
« Il a payé le prix de son choix », a expliqué Tommie Smith, « Ce ne fut pas simplement un geste pour nous aider nous deux, ce fut SON combat. C’était un homme blanc, un Australien blanc entre deux hommes de couleur, debout au moment de la victoire, tous au nom de la même chose. »
Seulement en 2012, le Parlement australien a adopté une déclaration tardive présentant des excuses à Peter Norman et le réhabiliter dans l’histoire avec ces mots :
« Ce Parlement reconnaît le résultat athlétique extraordinaire de Peter Norman, qui remporta la médaille d’argent du 200 mètres à Mexico, en un temps de 20.06, encore valable aujourd’hui record australien. Il reconnaît le courage de Peter Norman d’avoir endossé le symbole de l’Olympic Human Rights Project sur le podium en solidarité avec Tommie Smith et John Carlos, qui ont fait le salut du « black power ». Il s’excuse tardivement vis-à-vis de Peter Norman pour l’erreur commise en ne l’envoyant pas aux Olympiades de Munich en 1972, alors qu’il s’était qualifié à plusieurs reprises, et il reconnaît le rôle très puissant que Peter Norman a joué dans la poursuite de l’égalité raciale. »
Mais, peut-être, les mots qui rappellent le mieux Peter Norman sont ceux, simples mais définitifs, avec lesquels il a expliqué les raisons de ses actions, à l’occasion du film documentaire tourné par son petit-fils Matt. « Je ne voyais pas pourquoi un homme noir ne pouvait pas boire la même eau à la fontaine, prendre le même bus ou aller à la même école qu’un homme blanc. C’était une injustice sociale à laquelle je ne pouvais rien faire de là où j’étais, mais certainement je la détestais. Il a été dit que le fait de partager mon argent avec tout ce qui s’est passé ce soir-là lors de la remise des prix a éclipsé ma performance. Au lieu de cela, c’est le contraire. Je dois avouer que j’étais plutôt fier d’en faire partie. »
PETER NORMAN, LE TROISIÈME HOMME

Dans ce monde album, il y avait les photos
Que nous pensions bien connaître :
La première empreinte de l’homme sur la lune,,
Le char sous Arbeit Macht Frei,
Les cheveux d’Ernesto Che Guevara,
La fuite nue d’une petite fille devant le napalm,
Les poings olympiques de Mexico.

Mais il y a une vie au-delà du cadre
Et une voix qui est silencieuse hors écran.

Olympiades, octobre 68.
Le podium du deux cents mètres
Tommie Smith est celui qui est au centre.
John Carlos est le bronze,
Tête basse, poing en l’air,
La bannière étoilée flotte…

Le troisième intrus s’appelle Peter Norman,
Un Australien blanc, les bras le long du corps :
Pose raide, on dirait contre son gré
Emblème, icône, antonomase,
Qui n’en a rien à faire et qui voudrait couler,
Qui n’en a rien à faire et est forcé à jouer.

Mais il y a une vie, au-delà du cadre
Et une voix qui se tait hors écran.

Agrandissez votre vision
Glissez sur la salopette hors saison
Au-dessus du kangourou australien.
Peter porte un macaron rond
Le même que Tommie et John
Portent par-dessus le badge
Projet olympique pour les droits humains.
Un mouvement d’athlètes américains
Pour rendre son titre à Mohamed Ali.
Pour exiger plus d’entraîneurs noirs
Pour exclure les nations de l’apartheid
Pour chasser le patron nazi du comité olympique.

Mais ils vous parlent d’un geste isolé
Et leur voix se tait hors du terrain.

Quatre ans plus tard, Munich 72,
L’Australie n’envoie pas de coureurs ;
Le seul à s’être qualifié
Est Peter Norman, mais ils le retiennent au pays.
Il n’a même pas été invité à Sydney 2000.
Mais son temps d’octobre 1968
Est toujours le record national.

Dans le monde album, nous gardons ces photos
Que nous pensions connaître si bien
De nombreuses vies en images, mais
Pour nous, il n’y a pas de tableau complet,
Il n’y a que les pièces d’une mosaïque
Et la voix qui se tait hors écran :

Peter Norman, Peter Norman,
Peter Norman…

inviata da Marco Valdo M.I. - 2/5/2021 - 16:04




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