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Attila József: Külvárosi éj

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Langue: hongrois


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[1932]
Poesia di Attila József
A poem by Attila József

kulvaSe prendessi il via, temo che questo sito diventerebbe un ricettacolo delle poesie di Attila József; ma almeno una, un'altra sola, ce la voglio e ce la devo mettere. Questa. La „Notte di sobborgo”. Del 1932. Accingendomene a parlare dopo averla tradotta, mi accorgo che mi è molto difficile farlo. Troppe, troppe cose in testa; ma ci proverò.

Quando conobbi questa poesia, avevo circa sedici anni e avevo appena cominciato a imparare l'ungherese nel modo che, in questo sito, raccontai una volta proprio a un magiaro che vi era capitato. L'effetto che una poesia del genere può fare su un ragazzo di quell'età, è facilmente immaginabile, ma c'era di più. Io, certamente, non vivevo allora e non ho mai vissuto in un quartiere operaio e povero; ma mio padre sì. Nato, vissuto e lavorato a partire dai suoi tredici anni. In fabbrica a tredici anni, pensate; una fabbrica di chiavi e serramenti. Era il quartiere di Rifredi, a Firenze, negli anni '30; e leggendo la „Notte di sobborgo”, me lo immaginavo. Rilocavo là quella poesia, la quale ogni tanto torna a farmi visita.

E' stata la poesia che mi ha letteralmente preso per la collottola e mi ha detto: „Bene, Riccardo, ora vediamo se 'sto ungherese lo vuoi davvero imparare”; ma non solo. E' stata la poesia che mi ha fatto odiare il compagno Giuseppe Stalin, gli stalinisti e gli stalinismi. Quando ho cominciato a capire quali speranze di riscatto ha sterminato. Quali e quanti operai che piangevano credendo nella rivoluzione ha massacrato e fatto massacrare. In quali mani ha consegnato tutto questo, in Ungheria e altrove; in quelle dei padroni, naturalmente. E questo non lo potrò mai perdonare al „comunismo” burocratico, al „socialismo reale”, all'autoritarismo di qualunque sorta.

La „Notte di sobborgo” non è, naturalmente, una poesia che possa piacere a tutti. Meglio dirlo subito. Poiché, nel corso degli anni, l'ho fatta leggere a parecchie persone che conosco, ho ricevuto ogni tipo di impressioni. C'è chi l'ha presa per un pezzo di „propaganda”, ci sono naturalmente i „lirici” (quelli dell' „arte per l'arte”, in genere), c'è chi ne è rimasto infastidito perché non ama sentir parlare di miseria nera. A tutti costoro ho cercato di spiegare che Attila József non scriveva né per propaganda, né per sentito dire; la poesia, infatti, inizia a casa sua, nel suo tugurio operaio di Ferencváros, nella sua cucina coi muri cadenti. Attila József, per scriverla, altro non fece che prendere una qualsiasi notte intorno a sé.

ejklLa notte di un sobborgo operaio nella Budapest dei primi anni '30; la quale si trovava sotto la ferrea dittatura clericofascista e ultranazionalista dell'ammiraglio Horthy von Nagybánya, ora naturalmente „riabilitato” nell'Ungheria parafascista di Orbán. Le scene che sono descritte nella poesia sono cose vere, forse di ogni notte; come vera è la repressione, come vera è la circospezione, come vera è la lurida osteria, come vere sono le fabbriche. Per questo dicevo di odiare Stalin: è stato il migliore, il più irripetibile alleato dei fascismi, della reazioni, della pretaglia stile Mindszenty. L'operaio che, nella poesia, piange e inneggia alla rivoluzione, come si sarà sentito (sempre se sopravvissuto alla guerra, alla deportazione, alle Croci Frecciate ora tornate molto in auge) quando la „rivoluzione” gli è stata presentata in forma di Mátyás Rákosi.

Detto questo, non resta altro che accettare questa poesia così com'è, nella sua bellezza terrificante e con tutte le miserie che contiene. Attila József, quella notte, partendo dalla sua casa fece una sorta di volo d'uccello sul suo quartiere immerso nelle tenebre. Vide tutto. La devastazione, le fabbriche, gli animali (meravigliosi i gatti di questa poesia), la disperazione, la lotta clandestina, l'alcool, la polizia; niente è consolatorio. Eppure, ad un certo punto, si avvertono al contempo echi sognanti che fanno da contraltare ai „sogni pericolanti” di chi lavora. Il chiardiluna sembra magico anche sopra quel paesaggio da incubo. Dura un attimo; tutto viene riportato alla realtà. E nulla si salva, neanche il vento. L'albero con le sue foglie non svetta, ma è un relitto schiantato a terra. Persino la luce che filtra è sporcizia. Da tutto questo il poeta, proletario tra i proletari, povero tra i poveri, trae il desiderio di lotta e di cambiamento, prima di addormentarsi con la speranza di non essere tormentato dai pidocchi.

No, non è davvero una poesia per tutti. Reca dolore e rabbia. Reca cose che non si vorrebbero né vedere e né sentire, e le reca in diretta, sotto gli occhi. Una quotidianità cruda e senza solacio. Qualcuno potrebbe dire: „Era l'Ungheria, era l'Europa degli anni '30, delle dittature, dei totalitarismi; era un'Europa che non c'è più”. Io non lo credo affatto. La notte di sobborgo è la notte di qualsiasi luogo e di qualsiasi epoca dove regna la miseria, che non è mai dignitosa. È la notte che avvolge tutto. La notte che ottenebra anche le menti di chi, in teoria, dovrebbe essere tuo compagno e che invece si bea della sua lontananza dalla realtà e della sua obbedienza al capo né più e ne meno come quelli che chiama "avversari": già nel 1930, dopo aver scritto un libro intitolato Su, non lamentarti, abbatti il capitale!, censurato e vietato dal regime, Attila József si era sentito attaccare anche dai papaveri del partito comunista clandestino ungherese, che lo avevano definito "socialfascista" (!!!). Così fu accolta anche questa poesia, Külvárosi éj, dagli "intellettuali di sinistra" ungheresi: c'erano dentro, evidentemente, troppa povertà, troppi proletari veri e, soprattutto, tutta la cupezza disperata del "lavoro". Laddove, nell'iconografia comunista ligia a Stalin, la fabbrica era tutto un brulicare di futuri, di allegrie e di bandiere rosse al vento, nella notte di sobborgo le fabbriche sono quel che sono: "arcate di un cimitero". Morte. E fu così che József lasciò anche il partito comunista clandestino, e la sua compagna che ne faceva parte.

Come ultima cosa, prima di lasciare chi vorrà alla lettura, una considerazione. Pare che in Ungheria, per tanti e direi per troppi, non sia esistito che il 1956. Invece è esistita un'Ungheria nazifascista alleata con Hitler e zelante sterminatrice di ebrei e rom; ed esiste l'Ungheria di adesso che, se non sta ripercorrendo quella strada, poco ci manca. In questo sito, alla rivolta del 1956 è stato dato il suo giusto peso, senza turarsi il naso e senza fare come, a suo tempo, fece il „saggio” Giorgio Napolitano. Però, sia all'interno di questo sito come dovunque, non vorrei che „Ungheria” significasse soltanto canzoni di destra, „riabilitazioni” di personaggi come Horthy e Mindszenty (e perché non anche Szalási, oramai?), ronde nazionaliste, „musica alternativa” e quant'altro. Non nascondo affatto che l'inserimento delle due poesie di Attila József deriva anche da questo. Buona lettura, ancora. [RV]


A mellékudvarból a fény
hálóját lassan emeli,
mint gödör a víz fenekén,
konyhánk már homállyal teli.

Csönd, - lomhán szinte lábrakap
s mászik a súroló kefe;
fölötte egy kis faldarab
azon tünődik, hulljon-e.

S olajos rongyokban az égen
megáll, sóhajt az éj;
leül a város szélinél.
Megindul ingón át a téren;
egy kevés holdat gyújt, hogy égjen.

Mint az omladék, úgy állnak
a gyárak,
de még
készül bennük a tömörebb sötét,
a csönd talapzata.

S a szövőgyárak ablakán
kötegbe száll
a holdsugár,
a hold lágy fénye a fonál
a bordás szövőszékeken
s reggelig, míg a munka áll,
a gépek mogorván szövik
szövőnők omló álmait.

S odébb, mint boltos temető,
vasgyár, cementgyár, csavargyár.
Visszhangzó családi kripták.
A komor föltámadás titkát
őrzik ezek az üzemek.

Egy macska kotor a palánkon
s a babonás éjjeli őr
lidércet lát, gyors fényjelet, -
a bogárhátú dinamók
hűvösen fénylenek.

Vonatfütty.

Nedvesség motoz a homályban,
a földre ledőlt fa lombjában
s megnehezíti
az út porát.

Az úton rendőr, motyogó munkás.
Röpcédulákkal egy-egy elvtárs
iramlik át.
Kutyaként szimatol előre
és mint a macska, fülel hátra;
kerülő útja minden lámpa.

Romlott fényt hány a korcsma szája,
tócsát okádik ablaka;
benn fuldokolva leng a lámpa,
napszámos virraszt egymaga.
Szundít a korcsmáros, szuszog,
ő nekivicsorít a falnak,
búja lépcsőkön fölbuzog,
sír. Élteti a forradalmat.

Akár a hült érc, merevek
a csattogó vizek.
Kóbor kutyaként jár a szél,
nagy, lógó nyelve vizet ér
és nyeli a vizet.

Szalmazsákok, mint tutajok,
úsznak némán az éjjel árján...

A raktár megfeneklett bárka,
az öntőműhely vasladik
s piros kisdedet álmodik
a vasöntő az ércformákba.

Minden nedves, minden nehéz.
A nyomor országairól
térképet rajzol a penész.
S amott a kopár réteken
rongyok a rongyos füveken
s papír. Hogy’ mászna! Mocorog
s indulni erőtlen...

Nedves, tapadós szeled mása
szennyes lepedők lobogása,
óh éj!
Csüngsz az egen, mint kötelen
foszló perkál s az életen
a bú, óh éj!
Szegények éje! Légy szenem,
füstölögj itt a szívemen,
olvaszd ki bennem a vasat,
álló üllőt, mely nem hasad,
kalapácsot, mely cikkan pengve,
- sikló pengét a győzelemre,
óh éj!

Az éj komoly, az éj nehéz.
Alszom hát én is, testvérek.
Ne üljön lelkünkre szenvedés.
Ne csipje testünket féreg.

15/1/2014 - 13:49




Langue: italien

Traduzione italiana di Riccardo Venturi
15 gennaio 2014.

Come avvertito in altra pagina, per evitare ogni tipo di discussione mi sono rifatto da una parte e ho tradotto di persona la "Notte di sobborgo" di Attila József, poesia che del resto so a memoria da venticinqu'anni. Rispetto alle traduzioni esistenti, che sono comunque belle e valide, avrà forse il difetto di essere meno "poetica", e forse anche il pregio di seguire alla lettera il testo ungherese (solo con qualche piccola libertà come la "luna da ardere" e poche altre). Ad ogni modo, non posso fare a meno di inserire il video della recitazione del grande attore Luigi Vannucchi; la traduzione che legge non so di chi sia. Luigi Vannucchi incise parecchie poesie di Attila József; come lui, è morto suicida.

NOTTE DI SOBBORGO

Dalla corte accanto, la luce
ritira lentamente la sua rete,
come l'acqua in fondo a un fosso.
La nostra cucina è già tutta buia.

Tutto tace. Quasi goffo, si allunga
lo spazzolone, e si trascina;
su di esso, un pezzettino di muro
sta pensando se crollare o no.

E in stracci bisunti, sul cielo
si ferma e sospira la notte;
al bordo della città si siede.
Barcollando attraversa la piazza;
accende un po' di luna da ardere.

Come rovine stanno
le fabbriche,
e ancora
vi si produce dentro il buio più fitto,
il piedistallo del silenzio.

Sulla vetrata della fabbrica tessile
si alza in fascio
il chiardiluna,
la soave luce della luna è il filo
incoccato sulle stanghe dei telai;
e fino al mattino, mentre è fermo il lavoro,
i macchinari tessono cupamente
i sogni pericolanti delle tessitrici.

Più avanti, come arcate di un cimitero,
la ferriera, il cementificio, la fabbrica di viti.
Cripte di famiglia risonanti d'echi.
L'oscuro segreto della resurrezione
serbano queste fabbriche.

Un gatto si fa le unghie sulla staccionata;
la guardia notturna, superstiziosa
vede un fuoco fatuo, un vivido barlume, -
le dinamo dal dorso a scarabeo
risplendono fredde.

Fischia un treno.

L'umidità fruga nel grigiore
tra il fogliame dell'albero cascato
e appesantisce ancor di più
la polvere sulla strada.

Per la strada un poliziotto e un operaio che parlotta.
Coi volantini in mano, un qualche compagno
arriva precipitosamente.
Come un cane fiuta davanti a sé,
come un gatto, avverte quel che ha dietro;
si sposta verso i lampioni.

L'osteria vomita luce marcia,
la finestra rigetta pozzanghere;
dentro traballa, soffocando, la lampada;
da solo, un bracciante è ancora sveglio.
L'oste si è addormentato e russa,
l'altro digrigna la parete,
la sua pena zampilla sugli scalini,
piange e urla: viva la rivoluzione.

Come freddo metallo è rigida
l'acqua che schiocca.
Come un cane randagio il vento va,
la sua lingua, grossa e pendula
lecca e inghiotte l'acqua.

Pagliericci, come zattere
nuotano muti sulla corrente della notte...

Il magazzino è una barca incagliata,
la fonderia un battello di ferro,
e un bimbo rosso sogna
il fonditore d'avere negli stampi.

Tutto è umido. Tutto è pesante.
La muffa disegna
la carta dei paesi di miseria.
E là, su prati stenti
e su un po' d'erba strappata, cimici
e carta. Si alzasse! Si riscuote
e s'incammina senza forze...

Lenzuole sporche sventolano,
è il tuo vento umido, appiccicoso,
notte!
Penzoli dal cielo come dalla corda
il percalle sfilacciato, e dalla vita
la tristezza, notte!
Notte dei poveri! Sii il mio carbone,
riempi di fumo il mio cuore,
dentro di me fondi il ferro,
rendimi fucina che non si spezza,
un martello che batte e lavora,
una svelta lama per la vittoria,
notte!

Notte grave, notte pesante.
Ma dormo anch'io, fratelli.
L'anima non sia in preda alla pena,
addosso non ci mordano i pidocchi.

15/1/2014 - 15:11




Langue: anglais

La traduzione inglese di Michael Hamburger
English translation by Michael Hamburger

Da/from: Hundred Hungarian Poems, Albion Editions, Manchester
NIGHT ON THE OUTSKIRTS

Slowly the light’s net is lifted
Out of the yard, and our kitchen
Fills with darkness
Like the hollows deep in a pool.

Silence -
The scrubbing brush creeps to life,
Above it, a patch of wall
Hesitates, hangs, not sure
Whether to stay or fall.

A night that wears oily rags
Heaves a sigh,
Halts in the sky;
Then settles on the outskirts,
Waddles over the square
And lights a bit of moon to see by.

Like ruins the factories loom.
But inside them a denser gloom
Even now is being produced. It sets,
A foundation for silence.

Through the windows of textile mills
Fly moonbeams in sheaves -
Moon thread till morning weaves
On motionless looms a fabric
Of girl workers’ dreams.

Farther on, like a cloistered graveyard,
The foundry, bolt makers, cement works –
Echoing family crypts.
Too well these workshops keep
The secret of resurrection.

A cat’s claws on the fence:
And the simple night-watchman sees
A ghost, a flashing signal.
Coolly gleam
The beetle-backed dynamos.

A train whistle blows.

Dampness seeps into
The shadows, the boughs
Of a fallen tree.
The dust on the road grows heavy.

In the street a policeman,
A muttering workman, pass.
Now and then a comrade
Flits past with leaflets -
Keen as a dog on the track ahead,
Listening, cat-like, for noises behind him;
avoiding the lamps.

The tavern door belches out
A tainted light, its windows
Vomit, leaving puddles.
Inside, a half-stifled lamp
Slowly swings,
A solitary labourer keeps awake.
While the inn-keeper snores and wheezes,
He bares his teeth at the wall,
His grief climbs the stairs. He weeps,
Cries out for the revolution.

Cold metal, the water clinks.
A stray mongrel, the wind
Wanders. Its great tongue hangs
To touch the water, and laps it.
Straw mattresses are the rafts
That drift on night’s currents.

The warehouse’s hulk is aground.
In the foundry’s iron dinghy
The smelter dreams red babies
Into the metal moulds.

All is damp, and heavy.
Mildew draws a map
Of misery’s regions.
And there, on the dry meadows,
Rags and paper litter
The ragged, papery grass.
How they would whirl and fly!
They stir, but inertia holds them.

Night, your sluggish breeze
Is a flapping of soiled sheets.
Like frayed muslin to cord
You cling to the old sky,
As wretchedness clings to life.
Night of the poor, be my coal,
Smoulder here on my heart,
Melt the iron in me, to make
An anvil that never will split,
A hammer that clangs and glints,
A smooth blade for victory, night!

Grave this night is, and heavy.
I too shall sleep now, my brothers.
May our souls not be smothered by want.
Nor our bodies be bitten by vermin.

envoyé par Riccardo Venturi - 15/1/2014 - 23:32


After Crying: Külvárosi éj



Per puro caso ho trovato questo brano strumentale della progressive band ungherese After Crying (proveniente dall'album De Profundis del 1996), sicuramente ispirato alla poesia di Attila Jószef (di cui reca il titolo esatto).

Riccardo Venturi - 15/1/2014 - 23:41




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