Zmęczony Piorun - wzrok Parsifala
Biały od żaru kazachskich pól
Ogląda owal Świętego Graala
Krwi Boskiej Kielich - Mądrość i Ból.
Wiecznej się poddał wiedzy katordze
Uczeń Merlina - tułaczy Żyd.
I grał mu Bacha księżyc po drodze,
I szły z nim wierne, więzienne wszy.
Szesnastoletni Kałmuk - Marksista
Girlandy z uszu rzucał na stół,
Doby odmierzał piwniczny wystrzał
I chleb łamany z prowokiem na pół.
I wszystkie śmierci były mu dane,
Ciało drążyła mu każda z kul -
Sól czasu sypał w otwartą ranę
Apostoł wszystkich wiar świata - Ból.
Za kalejdoskop białych salonów,
Za romans z Heglem w Belle époque
Knuty bydlęcych na wschód wagonów,
Pod krzyżem z Chleba ciężki krok.
Z czaszek przyjaciół kapie narkotyk
Sławy, szaleństwa, strachu i zdrad
Przez mały okrągły Historii dotyk,
Który zaciera za sobą ślad.
Ciała przyjaciół - warstewka ziemi,
Pod którą mrowi się trupi ul.
I śni się wielki Sen o Kamieniu,
I zrywa ze snu prawdziwy Ból.
Miłość. Tak, Miłość. Sztuka. Tak, Sztuka,
Lecz Ból, co na pół przecina twarz.
Nikt już Świętego Graala nie szuka
I nikt nie broni Wyniosłych Baszt.
Woń cytrusowa słońc Kalifornii,
W drgających iskrach paryska noc.
Moi umarli milczą pokornie,
Na ziemi tarcza moja - mój koc.
Zmęczony Piorun - wzrok Parsifala
- Światło gasnące z dwóch białych kul -
Ogląda owal Świętego Graala -
I Ból zamienia się w Moc.
Biały od żaru kazachskich pól
Ogląda owal Świętego Graala
Krwi Boskiej Kielich - Mądrość i Ból.
Wiecznej się poddał wiedzy katordze
Uczeń Merlina - tułaczy Żyd.
I grał mu Bacha księżyc po drodze,
I szły z nim wierne, więzienne wszy.
Szesnastoletni Kałmuk - Marksista
Girlandy z uszu rzucał na stół,
Doby odmierzał piwniczny wystrzał
I chleb łamany z prowokiem na pół.
I wszystkie śmierci były mu dane,
Ciało drążyła mu każda z kul -
Sól czasu sypał w otwartą ranę
Apostoł wszystkich wiar świata - Ból.
Za kalejdoskop białych salonów,
Za romans z Heglem w Belle époque
Knuty bydlęcych na wschód wagonów,
Pod krzyżem z Chleba ciężki krok.
Z czaszek przyjaciół kapie narkotyk
Sławy, szaleństwa, strachu i zdrad
Przez mały okrągły Historii dotyk,
Który zaciera za sobą ślad.
Ciała przyjaciół - warstewka ziemi,
Pod którą mrowi się trupi ul.
I śni się wielki Sen o Kamieniu,
I zrywa ze snu prawdziwy Ból.
Miłość. Tak, Miłość. Sztuka. Tak, Sztuka,
Lecz Ból, co na pół przecina twarz.
Nikt już Świętego Graala nie szuka
I nikt nie broni Wyniosłych Baszt.
Woń cytrusowa słońc Kalifornii,
W drgających iskrach paryska noc.
Moi umarli milczą pokornie,
Na ziemi tarcza moja - mój koc.
Zmęczony Piorun - wzrok Parsifala
- Światło gasnące z dwóch białych kul -
Ogląda owal Świętego Graala -
I Ból zamienia się w Moc.
inviata da Krzysztof Wrona - 21/8/2013 - 01:34
Lingua: Italiano
Traduzione italiana / Italian translation / Traduction italienne / Italiankielinen käännös:
Riccardo Venturi, 23-09-2023 20:59
A me la lingua polacca fa uno strano effetto: ogni volta che mi metto a tradurre qualcosa dal polacco (si vedano le canzoni di Szymon Podwin), invariabilmente devo tornare, subito dopo, a Jacek Kaczmarski. Di Kaczmarski abbiamo, su questo sito, parecchie canzoni che non sono state mai tradotte, e non è un caso: addentrarsi in un testo di Kaczmarski è un’impresa molto difficile -penso anche per un polacco stesso, perché qui c’entra poco la “madrelingua” (chissà perché, ma ogni volta che uso questo termine mi vedo mia mamma che mi fa una pernacchia di due metri). C’entra Jacek Kaczmarski che, più passa il tempo, più lo annovero tra i massimi poeti in musica della Storia, e tra i pochissimi degni di essere così chiamati.
E così, eccoci a questa canzone, che peraltro parla di un altro poeta, Aleksander Wat. Il cui vero cognome era “Chwat”, che in polacco significa sia “aspio, citrino carnivoro” (un pesce d’acqua dolce), sia “persona energica e piena di risorse, praticone” (un prestito dal russo o dall’ucraino хват). “Ebreo ebreo e polacco polacco”, come ebbe a definirsi pur essendosi, ad un certo punto ed in condizioni assai particolari, convertito al cristianesimo probabilmente per senso di comunanza e solidarietà.
Le “condizioni assai particolari” furono per Aleksander Wat, negli anni della guerra, la prigionia e l’esilio nel lontano Kazakhstan (o Cazachistan), colà spedito dai russi e dove rimase fino al 1946 per tornare in Polonia. Nel suo primo livello, questa canzone di Jacek Kaczmarski parla della prigionia di Aleksander Wat, “Ebreo errante” (così si intitola, precisamente, una sua opera che è stata anche tradotta in italiano -da Luigi Marinelli nel 1995), “polacco polacco” e cristiano per comunione spirituale con gli altri prigionieri. Una commistione, pare, di sentimenti e di identità tutte ugualmente forti, assieme alla sua fede politica di comunista antistalinista.
Il secondo livello, è la personale “ricerca del Graal” (che, nella mia traduzione, ho voluto riportare alla sua dizione italiana, “Gradale”, dal latino gradalis di etimologia sconosciuta o quantomeno incerta, probabilmente anche per allontanarmi dalle stantìe “graallate” varie che mi hanno decisamente frantumato le gònadi). Arrivati a tale secondo livello nella poetica di Kaczmarski (i cui componimenti sono costantemente multilivello, multistrato, multi-ognicosa), avrei dovuto fare soltanto una cosa: fermarmi, e mettermi a leggere l’opera capitale di Aleksander Wat, Mój Wiek (“Il mio secolo”), pubblicata in Polonia nel 1977, tradotta in inglese (ma non in italiano, a quanto mi risulta) e, almeno da quanto spulciato qua e là (ho passato quasi tutto questo sabato a fare spulcing perché comunque, in queste cosine, sono un ragazzo coscienzioso e pure parecchio testardo), contenente molte tematiche che sono passate nella canzone kaczmarskiana. Disgraziatamente, non ho mai letto “Il mio secolo” (“My Century”) né in polacco, né in inglese, né in un’altra stracatacàvolo di lingua e, quindi, molti dei riferimenti che ci devono pur essere nella canzone, mi sfuggono disperatamente. In generale, però, questa canzone resta incentrata sulla prigionia, sul lager, su ciò che vi accadeva: la “ricerca del Graal” di Wat significava probabilmente cercare qualcosa che lo guarisse dal Dolore -parola chiave nella canzone di Kaczmarski, Ból. Esiste una poesia di Wat, scritta in età avanzata, in cui esprime ancora una volta il desiderio di cercare il leggendario calice (gradale) in cui erano contenute alcune gocce del sangue del re Salomone: chi ne beve, guarisce dalla sofferenza e, forse, anche dalla morte. Occorre capire da quale razza di esperienza scaturisca questo desiderio: essere segnati a vita dal Campo, dal Lager, dal Gulag.
C’è poi un terzo livello, a mio parere. Cominciamo col dire che anche Jacek Kaczmarski era di discendenza ebraica (sua madre, la pittrice Anna Trojanowska-Kaczmarska, era a sua volta di discendenza ebraica); e poiché, come dovrebbe essere noto, l’ebraismo si trasmette per linea femminile, possiamo dire che pure Jacek era ebreo? Beh, anche se mi fosse risposto di no, sicuramente era polacco; quindi, intrinsecamente ebreo, nonostante le madonne di Częstochowa, papa Wojtyła, l’arcivescovo Glemp e gli ultras cattolici. Infatti, qui, Jacek Kaczmarski ha scritto, sulla base dell’ebreo Aleksander Chwat / Wat, una perfetta canzone di Leonard Cohen. E, in fondo, assieme a Wat, poeti come Jacek Kaczmarski, Leonard Cohen o Fabrizio De André cercavano proprio il Graal dei valori più profondi, senza nessuna paura di guardare nel lato oscuro delle persone. E di guardare anche nella natura più profonda della fede, che è il Dolore. Pare che, per credere, sia necessario patire le pene più infernali.
Ma dal Dolore non scaturisce soltanto la fede: ricercare il Sacro Gradale significa anche cercare di guarirne, e la guarigione si trasforma in saggezza, in conoscenza, in forza. Aleksander Wat lottò per tutta, la vita, informano biografie più o meno brevi, anche con un inspiegabile e dolorosissimo disturbo che, secondo i medici, aveva origine psicofisica. Si torna quindi al Campo, all’Esilio, al Carcere. Si torna a quelle “ghirlande di orecchie” che il sedicenne Marxista calmucco gettava sul tavolo. Orecchie che più non sentivano, orecchie che forse avevano sentito troppo.
Così sia presa questa mia traduzione, ammesso e non concesso che non vi abbia sbagliato qualcosa. Se così fosse, qualcuno, prima o poi, lo segnalerà e sarà ovviamente il benvenuto. Così vado finalmente a mangiare qualcosa (l'iconografia d'obbligo prevederebbe un "frugale pasto"), rimetto a posto una muraglia di dizionari polacchi e poi mi metto a guardare la mia ultima passione: i video di catastrofi su YouTube. לילה טוב ולהיטראות. [RV]
Riccardo Venturi, 23-09-2023 20:59
A me la lingua polacca fa uno strano effetto: ogni volta che mi metto a tradurre qualcosa dal polacco (si vedano le canzoni di Szymon Podwin), invariabilmente devo tornare, subito dopo, a Jacek Kaczmarski. Di Kaczmarski abbiamo, su questo sito, parecchie canzoni che non sono state mai tradotte, e non è un caso: addentrarsi in un testo di Kaczmarski è un’impresa molto difficile -penso anche per un polacco stesso, perché qui c’entra poco la “madrelingua” (chissà perché, ma ogni volta che uso questo termine mi vedo mia mamma che mi fa una pernacchia di due metri). C’entra Jacek Kaczmarski che, più passa il tempo, più lo annovero tra i massimi poeti in musica della Storia, e tra i pochissimi degni di essere così chiamati.
E così, eccoci a questa canzone, che peraltro parla di un altro poeta, Aleksander Wat. Il cui vero cognome era “Chwat”, che in polacco significa sia “aspio, citrino carnivoro” (un pesce d’acqua dolce), sia “persona energica e piena di risorse, praticone” (un prestito dal russo o dall’ucraino хват). “Ebreo ebreo e polacco polacco”, come ebbe a definirsi pur essendosi, ad un certo punto ed in condizioni assai particolari, convertito al cristianesimo probabilmente per senso di comunanza e solidarietà.
Le “condizioni assai particolari” furono per Aleksander Wat, negli anni della guerra, la prigionia e l’esilio nel lontano Kazakhstan (o Cazachistan), colà spedito dai russi e dove rimase fino al 1946 per tornare in Polonia. Nel suo primo livello, questa canzone di Jacek Kaczmarski parla della prigionia di Aleksander Wat, “Ebreo errante” (così si intitola, precisamente, una sua opera che è stata anche tradotta in italiano -da Luigi Marinelli nel 1995), “polacco polacco” e cristiano per comunione spirituale con gli altri prigionieri. Una commistione, pare, di sentimenti e di identità tutte ugualmente forti, assieme alla sua fede politica di comunista antistalinista.
Il secondo livello, è la personale “ricerca del Graal” (che, nella mia traduzione, ho voluto riportare alla sua dizione italiana, “Gradale”, dal latino gradalis di etimologia sconosciuta o quantomeno incerta, probabilmente anche per allontanarmi dalle stantìe “graallate” varie che mi hanno decisamente frantumato le gònadi). Arrivati a tale secondo livello nella poetica di Kaczmarski (i cui componimenti sono costantemente multilivello, multistrato, multi-ognicosa), avrei dovuto fare soltanto una cosa: fermarmi, e mettermi a leggere l’opera capitale di Aleksander Wat, Mój Wiek (“Il mio secolo”), pubblicata in Polonia nel 1977, tradotta in inglese (ma non in italiano, a quanto mi risulta) e, almeno da quanto spulciato qua e là (ho passato quasi tutto questo sabato a fare spulcing perché comunque, in queste cosine, sono un ragazzo coscienzioso e pure parecchio testardo), contenente molte tematiche che sono passate nella canzone kaczmarskiana. Disgraziatamente, non ho mai letto “Il mio secolo” (“My Century”) né in polacco, né in inglese, né in un’altra stracatacàvolo di lingua e, quindi, molti dei riferimenti che ci devono pur essere nella canzone, mi sfuggono disperatamente. In generale, però, questa canzone resta incentrata sulla prigionia, sul lager, su ciò che vi accadeva: la “ricerca del Graal” di Wat significava probabilmente cercare qualcosa che lo guarisse dal Dolore -parola chiave nella canzone di Kaczmarski, Ból. Esiste una poesia di Wat, scritta in età avanzata, in cui esprime ancora una volta il desiderio di cercare il leggendario calice (gradale) in cui erano contenute alcune gocce del sangue del re Salomone: chi ne beve, guarisce dalla sofferenza e, forse, anche dalla morte. Occorre capire da quale razza di esperienza scaturisca questo desiderio: essere segnati a vita dal Campo, dal Lager, dal Gulag.
C’è poi un terzo livello, a mio parere. Cominciamo col dire che anche Jacek Kaczmarski era di discendenza ebraica (sua madre, la pittrice Anna Trojanowska-Kaczmarska, era a sua volta di discendenza ebraica); e poiché, come dovrebbe essere noto, l’ebraismo si trasmette per linea femminile, possiamo dire che pure Jacek era ebreo? Beh, anche se mi fosse risposto di no, sicuramente era polacco; quindi, intrinsecamente ebreo, nonostante le madonne di Częstochowa, papa Wojtyła, l’arcivescovo Glemp e gli ultras cattolici. Infatti, qui, Jacek Kaczmarski ha scritto, sulla base dell’ebreo Aleksander Chwat / Wat, una perfetta canzone di Leonard Cohen. E, in fondo, assieme a Wat, poeti come Jacek Kaczmarski, Leonard Cohen o Fabrizio De André cercavano proprio il Graal dei valori più profondi, senza nessuna paura di guardare nel lato oscuro delle persone. E di guardare anche nella natura più profonda della fede, che è il Dolore. Pare che, per credere, sia necessario patire le pene più infernali.
Ma dal Dolore non scaturisce soltanto la fede: ricercare il Sacro Gradale significa anche cercare di guarirne, e la guarigione si trasforma in saggezza, in conoscenza, in forza. Aleksander Wat lottò per tutta, la vita, informano biografie più o meno brevi, anche con un inspiegabile e dolorosissimo disturbo che, secondo i medici, aveva origine psicofisica. Si torna quindi al Campo, all’Esilio, al Carcere. Si torna a quelle “ghirlande di orecchie” che il sedicenne Marxista calmucco gettava sul tavolo. Orecchie che più non sentivano, orecchie che forse avevano sentito troppo.
Così sia presa questa mia traduzione, ammesso e non concesso che non vi abbia sbagliato qualcosa. Se così fosse, qualcuno, prima o poi, lo segnalerà e sarà ovviamente il benvenuto. Così vado finalmente a mangiare qualcosa (l'iconografia d'obbligo prevederebbe un "frugale pasto"), rimetto a posto una muraglia di dizionari polacchi e poi mi metto a guardare la mia ultima passione: i video di catastrofi su YouTube. לילה טוב ולהיטראות. [RV]
Aleksander Wat
Tuono Stanco – lo sguardo di Parsifal
Bianco della vampa dei campi cazachi
Guarda l’ovale del Sacro Gradale,
Calice del Sangue Divino – Saggezza e Dolore.
Si sottopose all’eterna tortura della conoscenza
L’Apprendista di Merlino: un Ebreo Errante.
E la luna gli suonava Bach lungo la strada,
E lo accompagnavano i fedeli pidocchi del carcere.
Un Calmucco sedicenne, Marxista,
Gettò sulla tavola ghirlande di orecchie,
Le giornate erano scandite da spari nel sottosuolo
E dal pane spezzato a metà con un provocatore.
E ogni tipo di morte gli fu data,
Ogni proiettile gli perforava il corpo -
Il sale del tempo si riversò nella ferita aperta
Apostolo di tutte le fedi del mondo – Il Dolore.
Per il caleidoscopio dei salotti bianchi,
Per la storia d’amore con Hegel nella Belle époque
Sferze di carri bestiame diretti ad est,
Passo pesante sotto una croce fatta di Pane.
Dai teschi degli amici sgocciola droga
Di gloria, di follia, di paura e tradimenti
Con un tocchetto rotondo di Storia
Che cancella ogni traccia dietro di sé.
I corpi degli amici: uno strato di terra
Sotto cui la strada brulica di cadaveri.
E si sogna il grande Sogno della Pietra [1]
E desta dal sogno l’autentico Dolore.
Amore. Sì, Amore. Arte. Sì, Arte, [2]
Solo che il Dolore taglia in due la faccia.
Nessuno cerca più il Sacro Gradale,
E nessuno difende le Torreggianti Torri.
Profuman d’agrumi i sóli della California, [3]
Notte parigina tra scintille vibranti.
I miei morti tacciono umilmente,
A terra c’è il mio scudo: il mio plaid.
Tuono Stanco – lo sguardo di Parsifal,
Luce sbiadita di due globetti bianchi. [4]
Guarda l’ovale del Sacro Gradale,
E il dolore si trasforma in Potenza.
Tuono Stanco – lo sguardo di Parsifal
Bianco della vampa dei campi cazachi
Guarda l’ovale del Sacro Gradale,
Calice del Sangue Divino – Saggezza e Dolore.
Si sottopose all’eterna tortura della conoscenza
L’Apprendista di Merlino: un Ebreo Errante.
E la luna gli suonava Bach lungo la strada,
E lo accompagnavano i fedeli pidocchi del carcere.
Un Calmucco sedicenne, Marxista,
Gettò sulla tavola ghirlande di orecchie,
Le giornate erano scandite da spari nel sottosuolo
E dal pane spezzato a metà con un provocatore.
E ogni tipo di morte gli fu data,
Ogni proiettile gli perforava il corpo -
Il sale del tempo si riversò nella ferita aperta
Apostolo di tutte le fedi del mondo – Il Dolore.
Per il caleidoscopio dei salotti bianchi,
Per la storia d’amore con Hegel nella Belle époque
Sferze di carri bestiame diretti ad est,
Passo pesante sotto una croce fatta di Pane.
Dai teschi degli amici sgocciola droga
Di gloria, di follia, di paura e tradimenti
Con un tocchetto rotondo di Storia
Che cancella ogni traccia dietro di sé.
I corpi degli amici: uno strato di terra
Sotto cui la strada brulica di cadaveri.
E si sogna il grande Sogno della Pietra [1]
E desta dal sogno l’autentico Dolore.
Amore. Sì, Amore. Arte. Sì, Arte, [2]
Solo che il Dolore taglia in due la faccia.
Nessuno cerca più il Sacro Gradale,
E nessuno difende le Torreggianti Torri.
Profuman d’agrumi i sóli della California, [3]
Notte parigina tra scintille vibranti.
I miei morti tacciono umilmente,
A terra c’è il mio scudo: il mio plaid.
Tuono Stanco – lo sguardo di Parsifal,
Luce sbiadita di due globetti bianchi. [4]
Guarda l’ovale del Sacro Gradale,
E il dolore si trasforma in Potenza.
[1] Secondo una comune interpretazione dei sogni, sognare una pietra (preziosa o meno) può significare sia cercare un mezzo per costruire o edificare qualcosa, sia -specie per chi soffre di calcoli- presagire una possibile colica renale.
[2] Da tenere presente che sztuka in polacco può significare anche “spettacolo teatrale”. Il significato principale è del resto quello di “pezzo”, esattamente come pièce.
[3] Arbitrariamente ho messo l’accento acuto su “sóli” per chiarire meglio che si tratta del plurale di “sole”.
[4] Probabilmente, qui, le lampadine della cella o della stanza. Ma il termine significa anche “pallottole, proiettili”.
[2] Da tenere presente che sztuka in polacco può significare anche “spettacolo teatrale”. Il significato principale è del resto quello di “pezzo”, esattamente come pièce.
[3] Arbitrariamente ho messo l’accento acuto su “sóli” per chiarire meglio che si tratta del plurale di “sole”.
[4] Probabilmente, qui, le lampadine della cella o della stanza. Ma il termine significa anche “pallottole, proiettili”.
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Dall'disco "Arka Noego" - versione mini [2007]
"La canzone e' un ricordo dedicato ad Aleksader Wat, un poeta e scrittore polacco scampato ai lager russi, ma la cui vita e' stata stravolta (a dire poco), da quest'esperienza." [KW]