Saddam Hussein gassed the Kurdish people
Killed thousands in a single day
And twelve long years later
Uncle Sam said: "You can't treat your Kurds this way
And furthermore all Kurds are freedom fighters
Who resist this Iraqi tyranny
And Uncle Sam will give them guns and maybe sometimes ammunition
So the brave Kurds can fight until they're free."
Meanwhile in southeastern Turkey
The Turkish Army had a unique plan:
"We'll go in and burn down three thousand villages
Get rid of what they call Kurdistan."
Well, some of these pesky Kurds decided
That they would rather fight instead of die,
So Uncle Sam said, "You are terrorists
"Because Turkey is our ally."
Geopolitics is confusing
In fact, it can be quite absurd
Especially if you value your freedom
You live in Turkey and you are a Kurd
Yes, when Iraqi Kurds are massacred
We say this is genocide
OK, we armed the Army through the eighties
But now we proudly take the Kurdish side
But in Turkey it's an internal matter
And for us to get involved would be wrong
So we'll sell some tanks and 'copters to Ankara
And hope these poor folks can get along
Yes, geopolitics is confusing
And you can't take the Yankees at their word
At least that's distinctly how it looks
If you live in Turkey and you're a Kurd
So when they talk about American interests
And it somehow seems that they're not yours
Going all over the world
Bombing countries and starting up wars.
You'd better leave it to the experts
Go on back to your Playstations
'Cause our foreign policy only makes sense
To CEO's of multinational corporations
'Cause geopolitics is confusing
And if you feel like you're not being heard
Just imagine how much worse it could be
If you lived in Turkey and you were a Kurd.
Killed thousands in a single day
And twelve long years later
Uncle Sam said: "You can't treat your Kurds this way
And furthermore all Kurds are freedom fighters
Who resist this Iraqi tyranny
And Uncle Sam will give them guns and maybe sometimes ammunition
So the brave Kurds can fight until they're free."
Meanwhile in southeastern Turkey
The Turkish Army had a unique plan:
"We'll go in and burn down three thousand villages
Get rid of what they call Kurdistan."
Well, some of these pesky Kurds decided
That they would rather fight instead of die,
So Uncle Sam said, "You are terrorists
"Because Turkey is our ally."
Geopolitics is confusing
In fact, it can be quite absurd
Especially if you value your freedom
You live in Turkey and you are a Kurd
Yes, when Iraqi Kurds are massacred
We say this is genocide
OK, we armed the Army through the eighties
But now we proudly take the Kurdish side
But in Turkey it's an internal matter
And for us to get involved would be wrong
So we'll sell some tanks and 'copters to Ankara
And hope these poor folks can get along
Yes, geopolitics is confusing
And you can't take the Yankees at their word
At least that's distinctly how it looks
If you live in Turkey and you're a Kurd
So when they talk about American interests
And it somehow seems that they're not yours
Going all over the world
Bombing countries and starting up wars.
You'd better leave it to the experts
Go on back to your Playstations
'Cause our foreign policy only makes sense
To CEO's of multinational corporations
'Cause geopolitics is confusing
And if you feel like you're not being heard
Just imagine how much worse it could be
If you lived in Turkey and you were a Kurd.
envoyé par Riccardo Venturi - 18/8/2006 - 14:11
Langue: italien
Traduzione italiana / Italian translation / Traduction italienne / Italiankielinen käännös:
Riccardo Venturi, 28-4-2022 08:24
Riccardo Venturi, 28-4-2022 08:24
Curdi buoni, Curdi cattivi
Saddam Hussein ha gassato il popolo Curdo,
Ne ha ammazzati a migliaia in un solo giorno,
E dodici lunghi anni dopo
Lo Zio Sam ha detto: “Non potete trattare così i vostri Curdi,
E in più tutti i Curdi sono combattenti per la libertà
Che resistono alla tirannia irachena,
E lo Zio Sam darà loro armi e forse anche un po' di munizioni,
In modo che i coraggiosi Curdi possano combattere finché non saranno liberi.”
Nel frattempo, nella Turchia sudorientale,
L'esercito turco aveva uno e un solo piano:
“Entreremo in campo e bruceremo tremila villaggi,
Ci sbarazzeremo di quel che chiamano Curdistan.”
Beh, qualcuno di questi Curdi scocciatori ha deciso
Che avrebbe combattuto piuttosto di morire,
E così lo Zio Sam ha detto: “Voi siete terroristi
Perché la Turchia è nostra alleata.”
La geopolitica confonde,
In effetti, può essere parecchio assurda
Specialmente se avete cara la vostra libertà
Vivendo da Curdi in Turchia
Sì, quando son massacrati i Curdi iracheni
Noialtri diciamo che è un genocidio,
Ok, abbiamo armato l'Esercito per tutti gli anni '80
Ma ora siamo orgogliosamente dalla parte dei Curdi.
Però in Turchia è una questione interna,
E per noi sarebbe sbagliato intrometterci,
E quindi manderemo ad Ankara un po' di carri armati ed elicotteri,
Sperando che quella povera gente se la cavi
Sì, la geopolitica confonde
E gli Yankees non si posson prendere in parola,
Almeno è come appare chiaro
Vivendo da Curdi in Turchia
E quindi, quando parlano di interessi americani
E non sembra che proprio corrispondano ai vostri,
Allora se ne vanno per tutto il mondo
A bombardare paesi e a incominciare guerre.
Fareste meglio a lasciare che se ne occupino gli esperti
E tornare alle vostre Playstation,
Perché la nostra politica estera è comprensibile
Soltanto ai CEO delle multinazionali
Perché la geopolitica confonde,
E se vi sentite incompresi
Immaginate un po' quanto sarebbe peggio
Vivere da Curdi in Turchia.
Saddam Hussein ha gassato il popolo Curdo,
Ne ha ammazzati a migliaia in un solo giorno,
E dodici lunghi anni dopo
Lo Zio Sam ha detto: “Non potete trattare così i vostri Curdi,
E in più tutti i Curdi sono combattenti per la libertà
Che resistono alla tirannia irachena,
E lo Zio Sam darà loro armi e forse anche un po' di munizioni,
In modo che i coraggiosi Curdi possano combattere finché non saranno liberi.”
Nel frattempo, nella Turchia sudorientale,
L'esercito turco aveva uno e un solo piano:
“Entreremo in campo e bruceremo tremila villaggi,
Ci sbarazzeremo di quel che chiamano Curdistan.”
Beh, qualcuno di questi Curdi scocciatori ha deciso
Che avrebbe combattuto piuttosto di morire,
E così lo Zio Sam ha detto: “Voi siete terroristi
Perché la Turchia è nostra alleata.”
La geopolitica confonde,
In effetti, può essere parecchio assurda
Specialmente se avete cara la vostra libertà
Vivendo da Curdi in Turchia
Sì, quando son massacrati i Curdi iracheni
Noialtri diciamo che è un genocidio,
Ok, abbiamo armato l'Esercito per tutti gli anni '80
Ma ora siamo orgogliosamente dalla parte dei Curdi.
Però in Turchia è una questione interna,
E per noi sarebbe sbagliato intrometterci,
E quindi manderemo ad Ankara un po' di carri armati ed elicotteri,
Sperando che quella povera gente se la cavi
Sì, la geopolitica confonde
E gli Yankees non si posson prendere in parola,
Almeno è come appare chiaro
Vivendo da Curdi in Turchia
E quindi, quando parlano di interessi americani
E non sembra che proprio corrispondano ai vostri,
Allora se ne vanno per tutto il mondo
A bombardare paesi e a incominciare guerre.
Fareste meglio a lasciare che se ne occupino gli esperti
E tornare alle vostre Playstation,
Perché la nostra politica estera è comprensibile
Soltanto ai CEO delle multinazionali
Perché la geopolitica confonde,
E se vi sentite incompresi
Immaginate un po' quanto sarebbe peggio
Vivere da Curdi in Turchia.
SQUADRE DELLA MORTE ANTI-CURDE NEL BASHUR
(Gianni Sartori)
Nel Bashur (il Kurdistan sotto amministrazione irachena), alle ricorrenti operazioni di annientamento nei confronti dei militanti curdi provenienti dal Rojhilat per mano dei servizi iraniani, ora sembrano sovrapporsi analoghe attività dei servizi turchi (il MIT).
Già il 16 settembre si era registrato un inquietante episodio che per poco non è costato la vita al rifugiato Ferhat Bans Kondu, proveniente dal Bakur. Contro di lui venivano esplosi diversi colpi di arma da fuoco da parte di un uomo mascherato. Sopravvissuto alle ferite, il giovane curdo è rimasto presumibilmente vittima di una campagna sia contro i militanti del PKK, sia contro sostenitori e simpatizzanti.
Ma il mattino successivo – 17 settembre - per un altro curdo non c'è stata via di scampo. Yasin Bulut, ugualmente proveniente dal Bakur (era nato nella provincia di Kars nel 1957) e ritenuto un importante quadro del PKK, è stato assassinato con quattro pallottole a Sulaymaniyah (nel Bashur, il Kurdistan “iracheno”). Seriamente ammalato, l'uomo (64 anni) si stava recando a piedi nell'ospedale del distretto di Carcira per ricevere cure adeguate. I responsabili del delitto si sono prontamente dileguati lasciandolo cadavere sulla strada. Per diverse organizzazioni curde che puntano il dito sui servizi segreti turchi si è trattato di un “obiettivo mirato”, non certo casuale.
Conosciuto anche come Şükrü Serhat, nel 1978 Yasin Bulut si era integrato nel PKK. Arrestato con il colpo di Stato del 12 settembre 1980, è stato rinchiuso nel carcere di Diyarbakir (quello conosciuto come “l'inferno di Amed”) fino al 1991. Tornato in libertà, aveva raggiunto la guerriglia sulle montagne. Inoltre, ormai da 15 anni, era molto attivo nel Comitato delle famiglie dei combattenti caduti.
Gianni Sartori
(Gianni Sartori)
Nel Bashur (il Kurdistan sotto amministrazione irachena), alle ricorrenti operazioni di annientamento nei confronti dei militanti curdi provenienti dal Rojhilat per mano dei servizi iraniani, ora sembrano sovrapporsi analoghe attività dei servizi turchi (il MIT).
Già il 16 settembre si era registrato un inquietante episodio che per poco non è costato la vita al rifugiato Ferhat Bans Kondu, proveniente dal Bakur. Contro di lui venivano esplosi diversi colpi di arma da fuoco da parte di un uomo mascherato. Sopravvissuto alle ferite, il giovane curdo è rimasto presumibilmente vittima di una campagna sia contro i militanti del PKK, sia contro sostenitori e simpatizzanti.
Ma il mattino successivo – 17 settembre - per un altro curdo non c'è stata via di scampo. Yasin Bulut, ugualmente proveniente dal Bakur (era nato nella provincia di Kars nel 1957) e ritenuto un importante quadro del PKK, è stato assassinato con quattro pallottole a Sulaymaniyah (nel Bashur, il Kurdistan “iracheno”). Seriamente ammalato, l'uomo (64 anni) si stava recando a piedi nell'ospedale del distretto di Carcira per ricevere cure adeguate. I responsabili del delitto si sono prontamente dileguati lasciandolo cadavere sulla strada. Per diverse organizzazioni curde che puntano il dito sui servizi segreti turchi si è trattato di un “obiettivo mirato”, non certo casuale.
Conosciuto anche come Şükrü Serhat, nel 1978 Yasin Bulut si era integrato nel PKK. Arrestato con il colpo di Stato del 12 settembre 1980, è stato rinchiuso nel carcere di Diyarbakir (quello conosciuto come “l'inferno di Amed”) fino al 1991. Tornato in libertà, aveva raggiunto la guerriglia sulle montagne. Inoltre, ormai da 15 anni, era molto attivo nel Comitato delle famiglie dei combattenti caduti.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 18/9/2021 - 12:39
LE ORGANIZZAZIONI CURDE (KNK, HDP, PKK) INTERVENGONO SULLA CRISI UMANITARIA ALLA FRONTIERA POLACCA
Gianni Sartori
Da giorni circa tremila rifugiati che - invano - cercavano di entrare in Europa attraverso la Polonia, rimangono bloccati alla frontiera, nella foresta.
Molti di quei disperati (in gran parte donne e bambini) sono curdi che provengono dalla regione autonoma dell’Iraq e dal nord della Siria. Ossia da territori sottoposti, se pur in maniera diversa, agli attacchi di Ankara.
Abbandonati da entrambi gli Stati confinanti, sarebbero già una ventina quelli morti di ipotermia, fame o disidratazione. Una dozzina quelli desaparecidos.
Sulla questione è intervenuto il Congresso nazionale del Kurdistan. Rivolgendosi all’Unione europea, il KNK ha definito “disumano e inammissibile” il modo in cui Polonia e Bielorussia trattano i migranti. Con un appello non solo all’Ue ma anche a “tutti i cittadini europei dotati di coscienza” a non restare in silenzio e a trovare una soluzione.
Denunciando inoltre come Erdogan, Lukachenko e Putin stiano “utilizzando i rifugiati come un’arma politica”.
Evidentemente l’astuto presidente turco (che in questi anni aveva già sperimentato l’utilizzo dei migranti come strumento di pressione nei confronti della Ue) ha fatto scuola.
Oggi il suo obiettivo, secondo il KNK, sarebbe quello di “cacciare i curdi dalle loro terre per modificarne la stessa demografia”. Sostituendo i curdi con popolazioni e organizzazioni sotto il suo controllo (turchi, turcomanni, addirittura palestinesi…).
Altro intervento da segnalare, quello del Partito democratico dei Popoli. A nome di HDP, Pervin Buldan e Mithat Sancar si sono rivolti a Josep Borrel (rappresentante dell’Ue per gli affari esteri) affinché, in nome del rispetto dei diritti umani, venga accantonata la soluzione del blocco militare e i rifugiati (tra cui oltre 500 bambini) vengano soccorsi e accolti.
Lo stesso appello è stato rivolto al Segretario generale e al Commissario ai diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa oltre che a varie organizzazioni onusiane.
I portavoce di HDP si son detti “profondamente rattristati dal dover vedere un governo europeo spianare le armi contro i rifugiati invece di distribuire cibo e coperte”.
Non si conosce ancora il tenore della risposta di Josep Borrel all’appello di HDP. In compenso in questi giorni il capo della diplomazia europea ha presentato ai 27 ambasciatori degli Stati membri quella che viene definita la “bussola strategica”. Un progetto che sta per essere esaminato a Bruxelles e che comporta la creazione entro un paio di anni di una forza europea di reazione rapida.
Da parte del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) un accorato invito, un’esortazione alla popolazione curda affinché non fugga dal Bashur (il Kurdistan del Sud, in territorio iracheno) autoesiliandosi. E una richiesta al governo regionale curdo, quella di metter in campo adeguate iniziative per garantire condizioni di vita dignitose alla popolazione. Come in Rojava (dove Ankara sta operando con metodi che ricordano la pulizia etnica), così in Bashur un drastico cambiamento demografico (ossia la sostituzione della popolazione originaria curda) non farebbe altro che gli interessi della Turchia.
Calcolando che almeno 30mila persone hanno lasciato il Bashur in un solo anno, la Commissione Esteri del PKK ha esplicitamente accusato il governo turco e quello della regione autonoma (in pratica il PDK) di esserne responsabili.
Sia del massiccio esodo e spopolamento che della tragedia in corso sulla frontiera tra Polonia e Bielorussia.
Una tragedia legata alla crisi economica, alla disoccupazione, alla disperazione diffusa. Conseguenza dei “30 anni di politiche attuate dalle autorità del Kurdistan del Sud e dai paesi occupanti”. Dalla Turchia in particolare.
Con il rischio che questa parte del Kurdistan divenga “una zona di espansione per il nazionalismo fascista turco e per l’ideologia dell’islamismo radicale”.
Per questo il PKK chiama la popolazione curda e i giovani in particolare a “non abbandonare il Paese utilizzando la propria forza nella lotta per la giustizia, la democrazia e la libertà”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Da giorni circa tremila rifugiati che - invano - cercavano di entrare in Europa attraverso la Polonia, rimangono bloccati alla frontiera, nella foresta.
Molti di quei disperati (in gran parte donne e bambini) sono curdi che provengono dalla regione autonoma dell’Iraq e dal nord della Siria. Ossia da territori sottoposti, se pur in maniera diversa, agli attacchi di Ankara.
Abbandonati da entrambi gli Stati confinanti, sarebbero già una ventina quelli morti di ipotermia, fame o disidratazione. Una dozzina quelli desaparecidos.
Sulla questione è intervenuto il Congresso nazionale del Kurdistan. Rivolgendosi all’Unione europea, il KNK ha definito “disumano e inammissibile” il modo in cui Polonia e Bielorussia trattano i migranti. Con un appello non solo all’Ue ma anche a “tutti i cittadini europei dotati di coscienza” a non restare in silenzio e a trovare una soluzione.
Denunciando inoltre come Erdogan, Lukachenko e Putin stiano “utilizzando i rifugiati come un’arma politica”.
Evidentemente l’astuto presidente turco (che in questi anni aveva già sperimentato l’utilizzo dei migranti come strumento di pressione nei confronti della Ue) ha fatto scuola.
Oggi il suo obiettivo, secondo il KNK, sarebbe quello di “cacciare i curdi dalle loro terre per modificarne la stessa demografia”. Sostituendo i curdi con popolazioni e organizzazioni sotto il suo controllo (turchi, turcomanni, addirittura palestinesi…).
Altro intervento da segnalare, quello del Partito democratico dei Popoli. A nome di HDP, Pervin Buldan e Mithat Sancar si sono rivolti a Josep Borrel (rappresentante dell’Ue per gli affari esteri) affinché, in nome del rispetto dei diritti umani, venga accantonata la soluzione del blocco militare e i rifugiati (tra cui oltre 500 bambini) vengano soccorsi e accolti.
Lo stesso appello è stato rivolto al Segretario generale e al Commissario ai diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa oltre che a varie organizzazioni onusiane.
I portavoce di HDP si son detti “profondamente rattristati dal dover vedere un governo europeo spianare le armi contro i rifugiati invece di distribuire cibo e coperte”.
Non si conosce ancora il tenore della risposta di Josep Borrel all’appello di HDP. In compenso in questi giorni il capo della diplomazia europea ha presentato ai 27 ambasciatori degli Stati membri quella che viene definita la “bussola strategica”. Un progetto che sta per essere esaminato a Bruxelles e che comporta la creazione entro un paio di anni di una forza europea di reazione rapida.
Da parte del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) un accorato invito, un’esortazione alla popolazione curda affinché non fugga dal Bashur (il Kurdistan del Sud, in territorio iracheno) autoesiliandosi. E una richiesta al governo regionale curdo, quella di metter in campo adeguate iniziative per garantire condizioni di vita dignitose alla popolazione. Come in Rojava (dove Ankara sta operando con metodi che ricordano la pulizia etnica), così in Bashur un drastico cambiamento demografico (ossia la sostituzione della popolazione originaria curda) non farebbe altro che gli interessi della Turchia.
Calcolando che almeno 30mila persone hanno lasciato il Bashur in un solo anno, la Commissione Esteri del PKK ha esplicitamente accusato il governo turco e quello della regione autonoma (in pratica il PDK) di esserne responsabili.
Sia del massiccio esodo e spopolamento che della tragedia in corso sulla frontiera tra Polonia e Bielorussia.
Una tragedia legata alla crisi economica, alla disoccupazione, alla disperazione diffusa. Conseguenza dei “30 anni di politiche attuate dalle autorità del Kurdistan del Sud e dai paesi occupanti”. Dalla Turchia in particolare.
Con il rischio che questa parte del Kurdistan divenga “una zona di espansione per il nazionalismo fascista turco e per l’ideologia dell’islamismo radicale”.
Per questo il PKK chiama la popolazione curda e i giovani in particolare a “non abbandonare il Paese utilizzando la propria forza nella lotta per la giustizia, la democrazia e la libertà”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 13/11/2021 - 16:25
IN OTTO GIORNI IL NUMERO DEI PRIGIONIERI POLITICI CURDI MORTI IN CARCERE E’ SALITO A QUATTRO
Gianni Sartori
A costo di apparire cinico (ma in realtà disgustato, affranto per questo rosario infinito e ingiusto di morte…) e consapevole che sulla tragedia del popolo curdo l’ironia è fuori luogo, dopo la morte di Halil Güneş (successivo a quelli di Abdülrezzak Şuyur e di Garibe Gezer, tre nel giro di sei giorni) non avevo potuto fare a meno di pensare: “Non c’è due senza tre”.
Ma siccome non c’è limite al peggio, ora la lista si è ulteriormente allungata.
Dopo nemmeno 48 ore l’ennesimo prigioniero politico curdo è deceduto in una maniera che i suoi familiari ritengono perlomeno “sospetta”.
Ilyas Demir (32 anni, condannato all’ergastolo) si trovava in una cella d’isolamento (dove, di fatto, i prigionieri sono completamente in balia dei loro carcerieri) nella prigione di Bolu. La famiglia non è nemmeno stata informata direttamente dalla direzione del carcere, ma soltanto dal muhatar (il rappresentante di quartiere che evidentemente era stato contattato dalle autorità). E senza che venisse fornita qualche spiegazione sulla cause dell’improvvisa morte.
Madie Demir ha dichiarato che suo fratello, da quando venne arrestato nel 2013, era stato rinchiuso in varie prigioni, spesso in isolamento. Inoltre, nonostante patisse di gravi problemi psicologici, non era mai stato curato.
Aggiungendo che “costringerlo in isolamento in tali condizioni è stato un crimine in quanto avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale per venir curato”.
A quanto pare l’amministrazione penitenziaria verrà ora denunciata da parte della famiglia.
Resta purtroppo la macabra contabilità. Quattro prigionieri politici vittime delle condizioni carcerarie (possiamo parlare di "carceri di sterminio"?) in otto giorni nella quasi totale indifferenza dei media internazionali.
Ricordiamoli, almeno noi: Garibe Gezer (9 dicembre); Abdülrezzak Şuyur (14 dicembre); Halil Güneş (15 dicembre). E ora anche Ilyas Demir.
Usque tandem?
Gianni Sartori
Gianni Sartori
A costo di apparire cinico (ma in realtà disgustato, affranto per questo rosario infinito e ingiusto di morte…) e consapevole che sulla tragedia del popolo curdo l’ironia è fuori luogo, dopo la morte di Halil Güneş (successivo a quelli di Abdülrezzak Şuyur e di Garibe Gezer, tre nel giro di sei giorni) non avevo potuto fare a meno di pensare: “Non c’è due senza tre”.
Ma siccome non c’è limite al peggio, ora la lista si è ulteriormente allungata.
Dopo nemmeno 48 ore l’ennesimo prigioniero politico curdo è deceduto in una maniera che i suoi familiari ritengono perlomeno “sospetta”.
Ilyas Demir (32 anni, condannato all’ergastolo) si trovava in una cella d’isolamento (dove, di fatto, i prigionieri sono completamente in balia dei loro carcerieri) nella prigione di Bolu. La famiglia non è nemmeno stata informata direttamente dalla direzione del carcere, ma soltanto dal muhatar (il rappresentante di quartiere che evidentemente era stato contattato dalle autorità). E senza che venisse fornita qualche spiegazione sulla cause dell’improvvisa morte.
Madie Demir ha dichiarato che suo fratello, da quando venne arrestato nel 2013, era stato rinchiuso in varie prigioni, spesso in isolamento. Inoltre, nonostante patisse di gravi problemi psicologici, non era mai stato curato.
Aggiungendo che “costringerlo in isolamento in tali condizioni è stato un crimine in quanto avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale per venir curato”.
A quanto pare l’amministrazione penitenziaria verrà ora denunciata da parte della famiglia.
Resta purtroppo la macabra contabilità. Quattro prigionieri politici vittime delle condizioni carcerarie (possiamo parlare di "carceri di sterminio"?) in otto giorni nella quasi totale indifferenza dei media internazionali.
Ricordiamoli, almeno noi: Garibe Gezer (9 dicembre); Abdülrezzak Şuyur (14 dicembre); Halil Güneş (15 dicembre). E ora anche Ilyas Demir.
Usque tandem?
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 19/12/2021 - 10:37
ANCORA ESPULSIONI DI MILITANTI CURDI DALLA GERMANIA
Gianni Sartori
Stando alle ultime informazioni il trentaduenne Muhammed Tunc si troverebbe ancora nel carcere di Pforzheim, ma la sua espulsione verso la Turchia potrebbe essere questione di giorni. Se non addirittura di ore.
Nonostante il suo avvocato, Thomas Oberhauser, abbia presentato una domanda di rilascio sotto controllo giudiziario al tribunale amministrativo di Sigmaringen così da evitarne la deportazione (. ma finora non ci sono stati riscontri positivi).
Nato e cresciuto in Germania (a Ulm, nel Baden-Wurttemberg) il giovane curdo è in possesso della cittadinanza turca. Per la sua militanza antifascista ha avuto qualche problema con la legge e in almeno un paio di occasioni è stato aggredito e gravemente ferito.
Il suo arresto è stato la conseguenza di una rissa, o meglio di uno scontro, con militanti turchi di estrema destra e con simpatizzanti di Erdogan.
Scontato che in Turchia si troverebbe esposto a persecuzione politica, tortura e imprigionamento per le sue attività a favore del popolo curdo (anche se queste si sono svolte in Germania).
Tuttavia il ministero del Baden-Wurttemberg pare intenzionato a procedere ritendo l'espulsione “giustificabile” in quanto Tunc avrebbe commesso una “infrazione penale”. Come stabilito in sede processuale con due condanne a suo carico appunto per gli scontri con appartenenti all'estrema destra nazionalista turca e con militanti del partito di Recep Tayyip Erdogan. Direi che basta e avanza per farne un “nemico” della Turchia, da neutralizzare in qualche modo.
Due tentativi di espulsione si sono finora dimostrati fallimentari. Nel primo, il 16 febbraio, lo avevano già caricato a bordo di un aereo a Stoccarda. Ma la sua vigorosa resistenza aveva spinto il personale dell'aereo a rifiutarsi di trasportarlo. Analogamente era fallito anche un secondo tentativo il 17 febbraio (direttamente con un aereo di Turkish Airlines).Dato che non c'è due senza tre, è prevedibile che ai danni di Muhammed Tunc ci sarà presto un'altra tentata espulsione. Della massima importanza quindi vigilare e protestare contro questa ennesima violazione dei diritti umani.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Stando alle ultime informazioni il trentaduenne Muhammed Tunc si troverebbe ancora nel carcere di Pforzheim, ma la sua espulsione verso la Turchia potrebbe essere questione di giorni. Se non addirittura di ore.
Nonostante il suo avvocato, Thomas Oberhauser, abbia presentato una domanda di rilascio sotto controllo giudiziario al tribunale amministrativo di Sigmaringen così da evitarne la deportazione (. ma finora non ci sono stati riscontri positivi).
Nato e cresciuto in Germania (a Ulm, nel Baden-Wurttemberg) il giovane curdo è in possesso della cittadinanza turca. Per la sua militanza antifascista ha avuto qualche problema con la legge e in almeno un paio di occasioni è stato aggredito e gravemente ferito.
Il suo arresto è stato la conseguenza di una rissa, o meglio di uno scontro, con militanti turchi di estrema destra e con simpatizzanti di Erdogan.
Scontato che in Turchia si troverebbe esposto a persecuzione politica, tortura e imprigionamento per le sue attività a favore del popolo curdo (anche se queste si sono svolte in Germania).
Tuttavia il ministero del Baden-Wurttemberg pare intenzionato a procedere ritendo l'espulsione “giustificabile” in quanto Tunc avrebbe commesso una “infrazione penale”. Come stabilito in sede processuale con due condanne a suo carico appunto per gli scontri con appartenenti all'estrema destra nazionalista turca e con militanti del partito di Recep Tayyip Erdogan. Direi che basta e avanza per farne un “nemico” della Turchia, da neutralizzare in qualche modo.
Due tentativi di espulsione si sono finora dimostrati fallimentari. Nel primo, il 16 febbraio, lo avevano già caricato a bordo di un aereo a Stoccarda. Ma la sua vigorosa resistenza aveva spinto il personale dell'aereo a rifiutarsi di trasportarlo. Analogamente era fallito anche un secondo tentativo il 17 febbraio (direttamente con un aereo di Turkish Airlines).Dato che non c'è due senza tre, è prevedibile che ai danni di Muhammed Tunc ci sarà presto un'altra tentata espulsione. Della massima importanza quindi vigilare e protestare contro questa ennesima violazione dei diritti umani.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 7/4/2022 - 22:12
Niente da fare. Muhammed Tunc è stato espulso
Gianni Sartori
Questione di giorni, forse di ore scrivevo solo ieri. Sperando di contribuire alla denuncia dell'ignobile espulsione annunciata (e già tentata almeno due volte) di Muhammed Tunc.
E invece era già troppo tardi, la Germania lo stava già spedendo direttamente in Turchia con un volo charter della compagnia aerea Sundair partito da Francoforte.
Malgrado l'antifascista curdo rischi - nella “migliore” delle ipotesi - l'arruolamento forzato nell'esercito turco. Per poi mandarlo dove? Contro i suoi fratelli in Bakur, Bashur o Rojava? Qualche tempo fa, quando aveva richiesto un passaporto al consolato turco di Stoccarda, si era sentito apostrofare con queste parole: “Adesso dovrai andare a sparare contro le tue sorelle e i tuoi fratelli curdi”.
O più probabilmente subirà l'imprigionamento, forse la tortura. Secondo l'avvocato la sua stessa sopravvivenza è a rischio.
Originario di Ulm (dove è nato nel 1989), il giovane dissidente era detenuto a Pforzheim da tre mesi. Qui aveva iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua espulsione. Invano. Ufficialmente il mandato d'arresto emesso nei suoi confronti dalla Turchia (quello in base a cui è stato espulso) riguarda il fatto di non aver completato il servizio militare. Ma in realtà sono state le sue attività filo-curde ad averlo fatto classificare come “elemento nemico” dal regime turco.
Come ha dichiarato l'avvocato Detlef Kröger a Radio Dreyeckland (RDL) “se a Tunc accade qualcosa, il sangue colerà dalle mani del governo”. Riferendosi ovviamente a quello tedesco. Un accordo già sottoscritto dalle autorità con cui Tunc si rendeva disponibile a lasciare volontariamente la Germania recandosi in un paese terzo, era stato ritirato all'ultimo momento senza fornire spiegazioni. Niente male per un governo con ministri “Verdi”. Secondo l'avvocato la Germania “ha tradito i suoi stessi principi in materia di diritti umani, Stato di diritto, giustizia”.
Anche recentemente, prima di essere incarcerato, Tunc era stato aggredito e ferito seriamente da nazionalisti turchi, presumibilmente legati ai “Lupi grigi”. Gli stessi che lo hanno poi minacciato (anche su Facebook) scrivendo “ti aspettiamo in Turchia”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Questione di giorni, forse di ore scrivevo solo ieri. Sperando di contribuire alla denuncia dell'ignobile espulsione annunciata (e già tentata almeno due volte) di Muhammed Tunc.
E invece era già troppo tardi, la Germania lo stava già spedendo direttamente in Turchia con un volo charter della compagnia aerea Sundair partito da Francoforte.
Malgrado l'antifascista curdo rischi - nella “migliore” delle ipotesi - l'arruolamento forzato nell'esercito turco. Per poi mandarlo dove? Contro i suoi fratelli in Bakur, Bashur o Rojava? Qualche tempo fa, quando aveva richiesto un passaporto al consolato turco di Stoccarda, si era sentito apostrofare con queste parole: “Adesso dovrai andare a sparare contro le tue sorelle e i tuoi fratelli curdi”.
O più probabilmente subirà l'imprigionamento, forse la tortura. Secondo l'avvocato la sua stessa sopravvivenza è a rischio.
Originario di Ulm (dove è nato nel 1989), il giovane dissidente era detenuto a Pforzheim da tre mesi. Qui aveva iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua espulsione. Invano. Ufficialmente il mandato d'arresto emesso nei suoi confronti dalla Turchia (quello in base a cui è stato espulso) riguarda il fatto di non aver completato il servizio militare. Ma in realtà sono state le sue attività filo-curde ad averlo fatto classificare come “elemento nemico” dal regime turco.
Come ha dichiarato l'avvocato Detlef Kröger a Radio Dreyeckland (RDL) “se a Tunc accade qualcosa, il sangue colerà dalle mani del governo”. Riferendosi ovviamente a quello tedesco. Un accordo già sottoscritto dalle autorità con cui Tunc si rendeva disponibile a lasciare volontariamente la Germania recandosi in un paese terzo, era stato ritirato all'ultimo momento senza fornire spiegazioni. Niente male per un governo con ministri “Verdi”. Secondo l'avvocato la Germania “ha tradito i suoi stessi principi in materia di diritti umani, Stato di diritto, giustizia”.
Anche recentemente, prima di essere incarcerato, Tunc era stato aggredito e ferito seriamente da nazionalisti turchi, presumibilmente legati ai “Lupi grigi”. Gli stessi che lo hanno poi minacciato (anche su Facebook) scrivendo “ti aspettiamo in Turchia”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 8/4/2022 - 17:38
LEOPARDI IN VIA DI ESTINZIONE NEL KURDISTAN IRACHENO
Gianni Sartori
Vi ricordate dell'indomito leopardo persiano (Panthera pardus tulliana, da me arbitrariamente definito “leopardo curdo”, se non altro per il temperamento) catturato in dicembre nel Bashur (Kurdistan iracheno) e trasportato in uno zoo di Duhok per essere curato? Purtroppo a causa delle ferite provocate dalla trappola (ma non si esclude che sia stato ulteriormente ferito – intenzionalmente – dagli abitanti del villaggio) ha perso in parte l'uso delle zampe e non sembra possibile rimetterlo in libertà.
Un destino il suo analogo ad altri esemplari della sua rara specie. Se – raccontano i curdi – ai loro nonni capitava di vederli anche di giorno, attualmente sono quasi scomparsi. Nella migliore delle ipotesi, secondo l'ecologista curdo Hana Raza, in tutto il territorio curdo situato entro i confini iracheni ne sarebbero rimasti in circolazione poco più di una ventina. Troppo pochi per garantire la sopravvivenza della specie.
Almeno una decina di esemplari sono stati rinvenuti uccisi da colpi di arma da fuoco negli ultimi anni. E' presumibile che altrettanti siano stati ammazzati e poi fatti sparire dopo averli scuoiati.
Classificato come “specie in via di estinzione” dall'UICN (Unione internazionale per la conservazione della natura), complessivamente ne sopravviverebbero in libertà non più di un migliaio (oltre a circa 200 in cattività). Attualmente viene segnalato sia in Iran che in Afghanistan, ma in un non lontano passato viveva anche in Turchia e nel Caucaso.
Due studiosi, i fratelli Bahez e Nabaz Farroq, hanno installato alcune macchine per la “caccia” fotografica sulle pendici del monte Bamo per poterne documentare la presenza in Bashur e avviare una campagna di protezione.
Non solo dei leopardi superstiti, ma anche dell'habitat. Coinvolgendo le comunità locali e organizzando direttamente le campagne contro un ulteriore degrado. Per esempio (recentemente, nel 2020) riuscendo a impedire l'apertura di alcune cave di calcare in questi territori da salvaguardare. Per i due protezionisti “luoghi come la montagna Bamo, se efficacemente protetti, potrebbero diventare un luogo di riproduzione”. Per questo aggiungono “dobbiamo salvarli, in quanto fanno parte della nostra cultura e della nostra identità”.
Oltre che dal bracconaggio (in Iraq la caccia alle specie in via di estinzione è comunque proibita), il leopardo è minacciato dalla perdita di ambiente naturale e dagli “effetti collaterali” delle guerre.
Non dimentichiamo che fino al 1991 questi territori curdi subivano una pesante repressione, con bombardamenti ricorrenti e sistematici (anche con armi chimiche) da parte di Saddam Hussein. Quando gli abitanti sono rientrati nei loro villaggi (ritrovandoli quasi completamente distrutti) per sopravvivere hanno ripreso a cacciare in maniera indiscriminata, soprattutto le capre selvatiche abituali prede dei leopardi.
Inoltre alcune zone - e in particolare proprio sul monte Bamo – sono infestate dalle mine anti-persona (molte di fabbricazione italiana tra l'altro) qui deposte da entrambi i belligeranti negli anni ottanta, all'epoca della guerra Iran-Iraq. Oltre a rendere difficile il lavoro di ricercatori e protezionisti, le mine hanno fatto strage sia di umani che di animali, capre selvatiche e leopardi compresi.
Senza poi dimenticare che il Bashur, stando ai dati forniti dal governo regionale del Kurdistan (KRG), avrebbe perso circa la metà delle sue foreste tra il 1999 e il 2018 (durante quello che viene considerato un periodo di fiorente sviluppo economico, aumento del PIL etc).
Va anche detto che il rispetto per la natura, l'ambiente, la flora e la fauna sembrerebbe in aumento tra gli abitanti del Bashur. Sorgono associazioni per la protezione degli animali e cresce l'indignazione per gli atti di crudeltà nei loro confronti. Soprattutto contro il diffuso bracconaggio ai danni dell'avifauna selvatica e dei rari esemplari di grandi predatori (oltre ai leopardi, anche gli orsi cadono sotto i colpi dei fucili).Ma impedire bracconaggio risulta alquanto difficile, sia per la vastità del territorio da controllare, sia per la scarsità di mezzi a disposizione della polizia forestale. Oltretutto, si lamentava un loro responsabile “i bracconieri hanno armi e fuoristrada migliori dei nostri”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Vi ricordate dell'indomito leopardo persiano (Panthera pardus tulliana, da me arbitrariamente definito “leopardo curdo”, se non altro per il temperamento) catturato in dicembre nel Bashur (Kurdistan iracheno) e trasportato in uno zoo di Duhok per essere curato? Purtroppo a causa delle ferite provocate dalla trappola (ma non si esclude che sia stato ulteriormente ferito – intenzionalmente – dagli abitanti del villaggio) ha perso in parte l'uso delle zampe e non sembra possibile rimetterlo in libertà.
Un destino il suo analogo ad altri esemplari della sua rara specie. Se – raccontano i curdi – ai loro nonni capitava di vederli anche di giorno, attualmente sono quasi scomparsi. Nella migliore delle ipotesi, secondo l'ecologista curdo Hana Raza, in tutto il territorio curdo situato entro i confini iracheni ne sarebbero rimasti in circolazione poco più di una ventina. Troppo pochi per garantire la sopravvivenza della specie.
Almeno una decina di esemplari sono stati rinvenuti uccisi da colpi di arma da fuoco negli ultimi anni. E' presumibile che altrettanti siano stati ammazzati e poi fatti sparire dopo averli scuoiati.
Classificato come “specie in via di estinzione” dall'UICN (Unione internazionale per la conservazione della natura), complessivamente ne sopravviverebbero in libertà non più di un migliaio (oltre a circa 200 in cattività). Attualmente viene segnalato sia in Iran che in Afghanistan, ma in un non lontano passato viveva anche in Turchia e nel Caucaso.
Due studiosi, i fratelli Bahez e Nabaz Farroq, hanno installato alcune macchine per la “caccia” fotografica sulle pendici del monte Bamo per poterne documentare la presenza in Bashur e avviare una campagna di protezione.
Non solo dei leopardi superstiti, ma anche dell'habitat. Coinvolgendo le comunità locali e organizzando direttamente le campagne contro un ulteriore degrado. Per esempio (recentemente, nel 2020) riuscendo a impedire l'apertura di alcune cave di calcare in questi territori da salvaguardare. Per i due protezionisti “luoghi come la montagna Bamo, se efficacemente protetti, potrebbero diventare un luogo di riproduzione”. Per questo aggiungono “dobbiamo salvarli, in quanto fanno parte della nostra cultura e della nostra identità”.
Oltre che dal bracconaggio (in Iraq la caccia alle specie in via di estinzione è comunque proibita), il leopardo è minacciato dalla perdita di ambiente naturale e dagli “effetti collaterali” delle guerre.
Non dimentichiamo che fino al 1991 questi territori curdi subivano una pesante repressione, con bombardamenti ricorrenti e sistematici (anche con armi chimiche) da parte di Saddam Hussein. Quando gli abitanti sono rientrati nei loro villaggi (ritrovandoli quasi completamente distrutti) per sopravvivere hanno ripreso a cacciare in maniera indiscriminata, soprattutto le capre selvatiche abituali prede dei leopardi.
Inoltre alcune zone - e in particolare proprio sul monte Bamo – sono infestate dalle mine anti-persona (molte di fabbricazione italiana tra l'altro) qui deposte da entrambi i belligeranti negli anni ottanta, all'epoca della guerra Iran-Iraq. Oltre a rendere difficile il lavoro di ricercatori e protezionisti, le mine hanno fatto strage sia di umani che di animali, capre selvatiche e leopardi compresi.
Senza poi dimenticare che il Bashur, stando ai dati forniti dal governo regionale del Kurdistan (KRG), avrebbe perso circa la metà delle sue foreste tra il 1999 e il 2018 (durante quello che viene considerato un periodo di fiorente sviluppo economico, aumento del PIL etc).
Va anche detto che il rispetto per la natura, l'ambiente, la flora e la fauna sembrerebbe in aumento tra gli abitanti del Bashur. Sorgono associazioni per la protezione degli animali e cresce l'indignazione per gli atti di crudeltà nei loro confronti. Soprattutto contro il diffuso bracconaggio ai danni dell'avifauna selvatica e dei rari esemplari di grandi predatori (oltre ai leopardi, anche gli orsi cadono sotto i colpi dei fucili).Ma impedire bracconaggio risulta alquanto difficile, sia per la vastità del territorio da controllare, sia per la scarsità di mezzi a disposizione della polizia forestale. Oltretutto, si lamentava un loro responsabile “i bracconieri hanno armi e fuoristrada migliori dei nostri”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 27/4/2022 - 10:34
KURDISTAN DEL SUD: NONOSTANTE TUTTO LA GUERRIGLIA CURDA RESISTE ALL’AGGRESSIONE TURCA
Gianni Sartori
Nell’indifferenza generale, lo Stato turco seguita a massacrare impunemente i curdi nei territori formalmente sotto amministrazione irachena, il Kurdistan del sud (Bashur). Oltre che ovviamente in Bakur e Rojava; è di oggi - 4 agosto - la notizia che un drone turco ha causato una decina di feriti nella città di Tall Rifat nel nord della Siria nei territori gestiti dall’AANES. Proprio qui a Tall Rifat il 19 luglio, in uno dei quasi quotidiani bombardamenti, erano stati colpiti dai droni anche soldati governativi siriani.
Al fine di annientare le basi del PKK tra i monti del Bashur, Ankara non esita a far uso massiccio, oltre che di armi convenzionali, di micidiali gas tossici, letteralmente“sparati” nei tunnel per eliminare i partigiani.
Attualmente sarebbero almeno quattromila i militari turchi impegnati “sul terreno” nel Bashur e almeno un centinaio di postazioni strategicamente rilevanti (tra cui 25 basi militari vere e proprie) sono stabilmente occupate dall’esercito turco. Il tutto ovviamente sotto l’ombrello protettivo dell’aviazione.
Oltre alle operazioni già in atto, recentemente ne è stata avviata un’altra, sempre sotto copertura aerea, nella provincia di Mardin. In particolare nell’area del Monte Bagok. Bombardando sistematicamente con l’artiglieria, l’aviazione e i droni.
Ma non del tutto impunemente. Utilizzando sia lanciagranate (contro gli avamposti) che ordigni rudimentali (per colpire i veicoli militari, i tank come gli Scorpion), la guerriglia curda contrattacca colpo su colpo.
Le ritorsioni dell’esercito turco - anche recentemente - hanno colpito non solo contro i guerriglieri, ma anche la popolazione civile. Come nel distretto di Zakho dove in luglio un raid dell’aviazione turca ha causato una decina di morti (tra cui alcuni bambini) e oltre trenta feriti (in parte si trattava di turisti iracheni provenienti da Bagdad per sfuggire alle ondate di calore che avvolgono la capitale irachena). Al punto che era intervenuto il governo iracheno richiamando il suo incaricato d'affari ad Ankara e dichiarando che avrebbe portato la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Addirittura, ma solo in un primo momento, il premier Mustafa al-Kadhimi aveva minacciato “ritorsioni”.
In realtà ci si era limitati a indire una simbolica “giornata di cordoglio nazionale “(il 21 luglio). Però nel corso di una manifestazione la folla aveva tentato di assalire la sede dell’ ambasciata turca a Bagdad. Strappandone dalla facciata la bandiera e dandola alle fiamme.
Altre manifestazioni si erano svolte il 20 luglio non solo a Kirkuk, ma anche nel sud del paese come a Kerbala e a Najaf (qui organizzate dalla comunità sciita).
Niente di nuovo comunque nell’operato di Ankara. Anche nelle ultime settimane erano già stati attaccati vari villaggi curdi sia nel Bashur che in Rojava, compreso quello cristiano assiro di Tel Tamr (governatorato di Hassaké).
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Nell’indifferenza generale, lo Stato turco seguita a massacrare impunemente i curdi nei territori formalmente sotto amministrazione irachena, il Kurdistan del sud (Bashur). Oltre che ovviamente in Bakur e Rojava; è di oggi - 4 agosto - la notizia che un drone turco ha causato una decina di feriti nella città di Tall Rifat nel nord della Siria nei territori gestiti dall’AANES. Proprio qui a Tall Rifat il 19 luglio, in uno dei quasi quotidiani bombardamenti, erano stati colpiti dai droni anche soldati governativi siriani.
Al fine di annientare le basi del PKK tra i monti del Bashur, Ankara non esita a far uso massiccio, oltre che di armi convenzionali, di micidiali gas tossici, letteralmente“sparati” nei tunnel per eliminare i partigiani.
Attualmente sarebbero almeno quattromila i militari turchi impegnati “sul terreno” nel Bashur e almeno un centinaio di postazioni strategicamente rilevanti (tra cui 25 basi militari vere e proprie) sono stabilmente occupate dall’esercito turco. Il tutto ovviamente sotto l’ombrello protettivo dell’aviazione.
Oltre alle operazioni già in atto, recentemente ne è stata avviata un’altra, sempre sotto copertura aerea, nella provincia di Mardin. In particolare nell’area del Monte Bagok. Bombardando sistematicamente con l’artiglieria, l’aviazione e i droni.
Ma non del tutto impunemente. Utilizzando sia lanciagranate (contro gli avamposti) che ordigni rudimentali (per colpire i veicoli militari, i tank come gli Scorpion), la guerriglia curda contrattacca colpo su colpo.
Le ritorsioni dell’esercito turco - anche recentemente - hanno colpito non solo contro i guerriglieri, ma anche la popolazione civile. Come nel distretto di Zakho dove in luglio un raid dell’aviazione turca ha causato una decina di morti (tra cui alcuni bambini) e oltre trenta feriti (in parte si trattava di turisti iracheni provenienti da Bagdad per sfuggire alle ondate di calore che avvolgono la capitale irachena). Al punto che era intervenuto il governo iracheno richiamando il suo incaricato d'affari ad Ankara e dichiarando che avrebbe portato la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Addirittura, ma solo in un primo momento, il premier Mustafa al-Kadhimi aveva minacciato “ritorsioni”.
In realtà ci si era limitati a indire una simbolica “giornata di cordoglio nazionale “(il 21 luglio). Però nel corso di una manifestazione la folla aveva tentato di assalire la sede dell’ ambasciata turca a Bagdad. Strappandone dalla facciata la bandiera e dandola alle fiamme.
Altre manifestazioni si erano svolte il 20 luglio non solo a Kirkuk, ma anche nel sud del paese come a Kerbala e a Najaf (qui organizzate dalla comunità sciita).
Niente di nuovo comunque nell’operato di Ankara. Anche nelle ultime settimane erano già stati attaccati vari villaggi curdi sia nel Bashur che in Rojava, compreso quello cristiano assiro di Tel Tamr (governatorato di Hassaké).
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 4/8/2022 - 20:30
STRAGE DI ISTANBUL: L’AANES RICHIEDE UN’INCHIESTA INTERNAZIONALE
Gianni Sartori
La strage del 13 novembre 2022, con il suo tragico bilancio di civili massacrati, ha suscitato oltre che sacrosanta indignazione, una ridda di ipotesi. Da quelle improbabili (come la “pista armena, dopo un presunta rivendicazione dell’ASALA, un’organizzazione di cui non si sentiva parlare da circa 30 anni…) ad altre più realistiche (vedi chi ha creduto di riconoscervi i metodi dell’Isis). Altra ipotesi, una deriva terroristica interna al movimento curdo, opera di qualche gruppo “incontrollato”.
O magari potrebbe essere collegata alle recenti difficoltà incontrate da Ankara nel gestire i suoi ascari (a scelta: l’Esercito Nazionale Siriano, l’ex al-Nusra ora Hayat Tahrir al-Sham, Jabhat al-Shamiya, Jaish al-Islam…con episodi di insubordinazione da parte di che teme di essere scaricato).
A parte il classico “cui prodest” (non certo ai Curdi, piuttosto a Erdogan che sembra intenzionato a capitalizzare quanto accaduto), a molti poi sarà venuto in mente il 12 dicembre 1969 e la “pista anarchica” (poi evaporata).
In ogni caso si tratta di un gesto orribile, esecrabile e senza alcuna possibile giustificazione.
Il 14 novembre, esprimendo innanzitutto le proprie condoglianze ai parenti delle persone che hanno perso la vita nella strage del 13 novembre e augurando una pronta guarigione ai feriti, il Comando del centro di Difesa del popolo (HSM, la struttura a capo dell’organizzazione militare del PKK) ha dichiarato di non aver assolutamente nessun legame con quanto era accaduto a Istanbul.
Nel comunicato si legge che “il nostro popolo e l’opinione pubblica sono consapevoli che noi non colpiremo mai i civili e che non accettiamo azioni rivolte contro i civili”.
In quanto “operiamo nella prospettiva di un futuro comune, democratico, libero ed egualitario con la società turca”.
Sempre secondo il comunicato di HSM “è evidente che il regime turco incontra serie difficoltà di fronte allo sviluppo della nostra legittima lotta. In particolare di fronte alla denuncia dell’uso di armi chimiche e alla divulgazione di immagini in cui vengono bruciati i corpi dei loro stessi soldati”.
Inoltre, il fatto che dopo questo tragico evento sia stata colpita Kobane indicherebbe senza ombra di dubbio quale sia il prossimo obiettivo di Ankara (utilizzando appunto la strage come un pretesto).
Potrebbe quindi, sempre secondo HSM, trattarsi di un episodi di “guerra sporca” (oppure di “strategia della tensione” all’italiana) funzionale al colonialismo turco.
E questo anche se gli esecutori materiali dovessero risultare siriani o curdi.
Anche l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est (AANES), ovviamente, ha condannato l’attentato e richiesto “l’apertura di una inchiesta internazionale”. Per l’AANES “lo Stato turco e i suoi servizi di intelligence stanno diffondendo notizie false”.
Accusare l’Amministrazione autonoma servirebbe a “distrarre l’attenzione dai problemi interni della Turchia” e rientrerebbe in un piano per giustificare l’ulteriore invasione del Rojava.
Come è stato ricordato da fonti curde, già qualche anno fa, in diretta alla televisione turca, İsmail Hakki Pekin (in passato a capo dell’intelligence turca) faceva l’apologia dell’uso strumentale dei gruppi jihadisti per colpire i curdi in Siria e spezzarne le alleanze con la Coalizione internazionale .
Per cui non si può escludere che “il massacro di Istanbul / Beyoglu del 13 novembre 2022 sia sortito dal cappello del MIT, notoriamente esperti in materia”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
La strage del 13 novembre 2022, con il suo tragico bilancio di civili massacrati, ha suscitato oltre che sacrosanta indignazione, una ridda di ipotesi. Da quelle improbabili (come la “pista armena, dopo un presunta rivendicazione dell’ASALA, un’organizzazione di cui non si sentiva parlare da circa 30 anni…) ad altre più realistiche (vedi chi ha creduto di riconoscervi i metodi dell’Isis). Altra ipotesi, una deriva terroristica interna al movimento curdo, opera di qualche gruppo “incontrollato”.
O magari potrebbe essere collegata alle recenti difficoltà incontrate da Ankara nel gestire i suoi ascari (a scelta: l’Esercito Nazionale Siriano, l’ex al-Nusra ora Hayat Tahrir al-Sham, Jabhat al-Shamiya, Jaish al-Islam…con episodi di insubordinazione da parte di che teme di essere scaricato).
A parte il classico “cui prodest” (non certo ai Curdi, piuttosto a Erdogan che sembra intenzionato a capitalizzare quanto accaduto), a molti poi sarà venuto in mente il 12 dicembre 1969 e la “pista anarchica” (poi evaporata).
In ogni caso si tratta di un gesto orribile, esecrabile e senza alcuna possibile giustificazione.
Il 14 novembre, esprimendo innanzitutto le proprie condoglianze ai parenti delle persone che hanno perso la vita nella strage del 13 novembre e augurando una pronta guarigione ai feriti, il Comando del centro di Difesa del popolo (HSM, la struttura a capo dell’organizzazione militare del PKK) ha dichiarato di non aver assolutamente nessun legame con quanto era accaduto a Istanbul.
Nel comunicato si legge che “il nostro popolo e l’opinione pubblica sono consapevoli che noi non colpiremo mai i civili e che non accettiamo azioni rivolte contro i civili”.
In quanto “operiamo nella prospettiva di un futuro comune, democratico, libero ed egualitario con la società turca”.
Sempre secondo il comunicato di HSM “è evidente che il regime turco incontra serie difficoltà di fronte allo sviluppo della nostra legittima lotta. In particolare di fronte alla denuncia dell’uso di armi chimiche e alla divulgazione di immagini in cui vengono bruciati i corpi dei loro stessi soldati”.
Inoltre, il fatto che dopo questo tragico evento sia stata colpita Kobane indicherebbe senza ombra di dubbio quale sia il prossimo obiettivo di Ankara (utilizzando appunto la strage come un pretesto).
Potrebbe quindi, sempre secondo HSM, trattarsi di un episodi di “guerra sporca” (oppure di “strategia della tensione” all’italiana) funzionale al colonialismo turco.
E questo anche se gli esecutori materiali dovessero risultare siriani o curdi.
Anche l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est (AANES), ovviamente, ha condannato l’attentato e richiesto “l’apertura di una inchiesta internazionale”. Per l’AANES “lo Stato turco e i suoi servizi di intelligence stanno diffondendo notizie false”.
Accusare l’Amministrazione autonoma servirebbe a “distrarre l’attenzione dai problemi interni della Turchia” e rientrerebbe in un piano per giustificare l’ulteriore invasione del Rojava.
Come è stato ricordato da fonti curde, già qualche anno fa, in diretta alla televisione turca, İsmail Hakki Pekin (in passato a capo dell’intelligence turca) faceva l’apologia dell’uso strumentale dei gruppi jihadisti per colpire i curdi in Siria e spezzarne le alleanze con la Coalizione internazionale .
Per cui non si può escludere che “il massacro di Istanbul / Beyoglu del 13 novembre 2022 sia sortito dal cappello del MIT, notoriamente esperti in materia”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 15/11/2022 - 19:43
L'anno scorso perdeva la vita in circostanze poco chiare la prigioniera politica curda Garibe Gezer, purtroppo già nota per le angherie subite in carcere. A distanza di un anno emergono nuove prove sulle violenze a cui era stata sottoposta.
DALLE IMMAGINI VIDEO ULTERIORI CONFERME DEI
DALLE IMMAGINI VIDEO ULTERIORI CONFERME DEI
MALTRATTAMENTI SUBITI DA GARIBE GEZER
Gianni Sartori
Oramai la lista delle vittime curde della repressione in Turchia si va talmente allungando che sinceramente fatico a tenerne il conto. Così come diventa difficile ricordarne tutti i volti, i nomi…
Ma di Garibe Gezer non potrei dimenticarmi.
Me ne ero occupato ancora nell’ottobre 2021 dopo la denuncia da parte dei suoi avvocati di umiliazioni, maltrattamenti, sevizie…nei suoi confronti.
Garibe Gezer sosteneva di essere stata torturata e violentata dai suoi carcerieri in una cella imbottita della prigione di Kandira (Kocaeli). Inoltre, dichiaravano i suoi difensori, le sue ferite (conseguenza oltre che dello stupro e delle torture subiti anche di un tentativo di suicidio) non sarebbero state curate adeguatamente. Nonostante la giovane curda sanguinasse vistosamente dal capo.
Arrestata nel 2016 a Mardin, Gezer aveva già subito ogni sorta di angheria e spesso confinata in isolamento. Rinchiusa nella prigione di tipo F a Kandira (dove era giunta il 15 marzo 2021 dopo un periodo di isolamento a Kayseri) aveva chiesto di essere mandata in una cella comune da tre persone. Richiesta respinta, ovviamente. In compenso - per punizione –il 21 marzo veniva rinchiusa in una cella imbottita subendo maltrattamenti sia da parte dei carcerieri maschi, sia dalle donne che l’avevano trascinata per terra tenendola bloccata per le mani e sfilandole gli abiti (come sembrerebbero confermare le immagini ora diffuse dall'agenzia curda Jinnews).
Per protesta, non potendo ricorrere ad altro che all’autolesionismo, aveva battuto ripetutamente il capo contro la porta della cella. Il 24 marzo veniva nuovamente aggredita dai guardiani, picchiata con gli scarponi e rinchiusa in una cella di tipo particolare, classificata come cella di tortura da alcune Ong (anche se ufficialmente non ne esistono). In quanto interamente ricoperta di polipropilene, un isolante perfetto, da deprivazione totale. Qui sarebbe stata torturata e violentata.
Quando poi aveva cercato di togliere il rivestimento dalle pareti, era stata nuovamente picchiata al punto da provocarne lo svenimento. Ammanettata con le mani dietro la schiena, era stata lasciata in cella in tali condizioni.
Successivamente, come reazione allo stupro subito, la prigioniera aveva tentato il suicidio impiccandosi. Ma la stoffa utilizzata si era spezzata ed era caduta battendo violentemente il capo. Nonostante una vistosa emorragia, veniva lasciata per diverse ora stesa a terra. Quanto alle sue lettere agli avvocati e alla sorella in cui denunciava l’accaduto, alcune non erano state nemmeno spedite, altre pesantemente censurate.
Sempre relegata in una cella singola (nonostante il rischio di un nuovo tentativo di suicidio e nonostante versasse in tali condizioni, quelle di una persona che aveva subito molteplici violenze) il 7 giugno la prigioniera aveva appiccato il fuoco alla cella.
Una protesta, la sua, anche contro la costrizione di dover espletare i propri bisogni sotto lo sguardo di una una camera di sorveglianza. Inoltre i carcerieri immettevano continuamente aria fredda nella cella attraverso il sistema di ventilazione.
Nella denuncia la cella viene descritta come “uno spazio da due a tre metri di lunghezza, interamente imbottita e sotto video-sorveglianza 24 ore al giorno, con escrementi dovunque e con un insopportabile odore di urina ed escrementi (inevitabile ricordare la situazione dei Blocchi H in Irlanda del Nord negli anni settanta e ottanta nda). Nella cella come toilette c’era solo un buco visibile dalla camera di sorveglianza”.
Il 20 settembre 2021 i suoi avvocati (Eren Keskin, Jiyan Tosun e Jiyan Kaya) avevano sporto denuncia appellandosi “alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDH) e alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.
Per gli avvocati i carcerieri andavano incriminati in base agli articoli 86, 94 4 102 del codice penale turco, mentre i medici incorrerebbero nell’articolo 257.
Denunciato anche il direttore del carcere per “negligenza”.
Ma poi, come sappiamo, Garibe Gezer era morta in maniera quantomeno sospetta il 9 dicembre 2021. Ufficialmente per “suicidio”. Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (TUHAY DER) e dell’HDP, si erano riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il corpo della giovane vittima. Avevano poi portato a spalla la bara scandendo slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo. Nella tarda serata del 10 dicembre 2021veniva sepolta a Kerbora, la città dove era nata 28 anni prima.
La versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non aveva convinto Eren Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo (IHD) si chiedeva come la detenuta avesse potuto suicidarsi visto che si trovava in isolamento e sotto lo sguardo perenne delle telecamere.
Ancora nell’ottobre 2021, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento – il 15 marzo 2021 – dalla prigione di Kayseri in quella di Kandira (dove poi ha perso la vita). Il 24 maggio 2021, secondo HDP “agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella sua cella per picchiarla (…). Mentre le guardiane le tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena. I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti maschi”.
Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore su 24”.E qui avrebbe subito, stando all’intervento di HDP “violenze sessuali da parte dei carcerieri”.
A causa delle violenze subite, sempre secondo il rapporto di HDP "la prigioniera aveva cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata. Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state censurate, altre mai spedite".
Nonostante le sue proteste e le denunce degli abusi subiti in carcere fossero note da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata.
Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere all’autopsia.
Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre.
La sua famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione.
Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8 ottobre 2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis. L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate (quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti.
Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati.
Questi i precedenti a cui si va ad aggiungere un ulteriore tassello.
In questi giorni infatti l’agenzia femminista Jinnews ha potuto entrare in possesso di immagini che forniscono ulteriori conferme a quanto dichiarato dagli avvocati.
Inizialmente tali prove erano state secretate dal procuratore generale e invano i difensori della giovane curda avevano fatto richiesta per poterle visionare. Così come era rimasto senza risposta il loro ricorso alla Corte costituzionale turca (AYM) per denunciare la violazione degli articoli 17, 40, 36 e 141 della Costituzione e degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDH).
Quello che Gezer aveva subito in prigione (e che l’agenzia curda Jinnews non esita a definire “torture”) viene in parte ora svelato dalle drammatiche immagini.
Gli avvocati Eren Keskin, Jiyan Kaya, Jiyan Tosun e Elif Taşdöğen denunciano il fatto che l’ufficio del procuratore generale non ritenga di dover procedere a causa della “mancanza di prove”. Prove che invece per i difensori di Gezer sarebbero evidenti.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Oramai la lista delle vittime curde della repressione in Turchia si va talmente allungando che sinceramente fatico a tenerne il conto. Così come diventa difficile ricordarne tutti i volti, i nomi…
Ma di Garibe Gezer non potrei dimenticarmi.
Me ne ero occupato ancora nell’ottobre 2021 dopo la denuncia da parte dei suoi avvocati di umiliazioni, maltrattamenti, sevizie…nei suoi confronti.
Garibe Gezer sosteneva di essere stata torturata e violentata dai suoi carcerieri in una cella imbottita della prigione di Kandira (Kocaeli). Inoltre, dichiaravano i suoi difensori, le sue ferite (conseguenza oltre che dello stupro e delle torture subiti anche di un tentativo di suicidio) non sarebbero state curate adeguatamente. Nonostante la giovane curda sanguinasse vistosamente dal capo.
Arrestata nel 2016 a Mardin, Gezer aveva già subito ogni sorta di angheria e spesso confinata in isolamento. Rinchiusa nella prigione di tipo F a Kandira (dove era giunta il 15 marzo 2021 dopo un periodo di isolamento a Kayseri) aveva chiesto di essere mandata in una cella comune da tre persone. Richiesta respinta, ovviamente. In compenso - per punizione –il 21 marzo veniva rinchiusa in una cella imbottita subendo maltrattamenti sia da parte dei carcerieri maschi, sia dalle donne che l’avevano trascinata per terra tenendola bloccata per le mani e sfilandole gli abiti (come sembrerebbero confermare le immagini ora diffuse dall'agenzia curda Jinnews).
Per protesta, non potendo ricorrere ad altro che all’autolesionismo, aveva battuto ripetutamente il capo contro la porta della cella. Il 24 marzo veniva nuovamente aggredita dai guardiani, picchiata con gli scarponi e rinchiusa in una cella di tipo particolare, classificata come cella di tortura da alcune Ong (anche se ufficialmente non ne esistono). In quanto interamente ricoperta di polipropilene, un isolante perfetto, da deprivazione totale. Qui sarebbe stata torturata e violentata.
Quando poi aveva cercato di togliere il rivestimento dalle pareti, era stata nuovamente picchiata al punto da provocarne lo svenimento. Ammanettata con le mani dietro la schiena, era stata lasciata in cella in tali condizioni.
Successivamente, come reazione allo stupro subito, la prigioniera aveva tentato il suicidio impiccandosi. Ma la stoffa utilizzata si era spezzata ed era caduta battendo violentemente il capo. Nonostante una vistosa emorragia, veniva lasciata per diverse ora stesa a terra. Quanto alle sue lettere agli avvocati e alla sorella in cui denunciava l’accaduto, alcune non erano state nemmeno spedite, altre pesantemente censurate.
Sempre relegata in una cella singola (nonostante il rischio di un nuovo tentativo di suicidio e nonostante versasse in tali condizioni, quelle di una persona che aveva subito molteplici violenze) il 7 giugno la prigioniera aveva appiccato il fuoco alla cella.
Una protesta, la sua, anche contro la costrizione di dover espletare i propri bisogni sotto lo sguardo di una una camera di sorveglianza. Inoltre i carcerieri immettevano continuamente aria fredda nella cella attraverso il sistema di ventilazione.
Nella denuncia la cella viene descritta come “uno spazio da due a tre metri di lunghezza, interamente imbottita e sotto video-sorveglianza 24 ore al giorno, con escrementi dovunque e con un insopportabile odore di urina ed escrementi (inevitabile ricordare la situazione dei Blocchi H in Irlanda del Nord negli anni settanta e ottanta nda). Nella cella come toilette c’era solo un buco visibile dalla camera di sorveglianza”.
Il 20 settembre 2021 i suoi avvocati (Eren Keskin, Jiyan Tosun e Jiyan Kaya) avevano sporto denuncia appellandosi “alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDH) e alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.
Per gli avvocati i carcerieri andavano incriminati in base agli articoli 86, 94 4 102 del codice penale turco, mentre i medici incorrerebbero nell’articolo 257.
Denunciato anche il direttore del carcere per “negligenza”.
Ma poi, come sappiamo, Garibe Gezer era morta in maniera quantomeno sospetta il 9 dicembre 2021. Ufficialmente per “suicidio”. Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (TUHAY DER) e dell’HDP, si erano riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il corpo della giovane vittima. Avevano poi portato a spalla la bara scandendo slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo. Nella tarda serata del 10 dicembre 2021veniva sepolta a Kerbora, la città dove era nata 28 anni prima.
La versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non aveva convinto Eren Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo (IHD) si chiedeva come la detenuta avesse potuto suicidarsi visto che si trovava in isolamento e sotto lo sguardo perenne delle telecamere.
Ancora nell’ottobre 2021, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento – il 15 marzo 2021 – dalla prigione di Kayseri in quella di Kandira (dove poi ha perso la vita). Il 24 maggio 2021, secondo HDP “agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella sua cella per picchiarla (…). Mentre le guardiane le tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena. I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti maschi”.
Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore su 24”.E qui avrebbe subito, stando all’intervento di HDP “violenze sessuali da parte dei carcerieri”.
A causa delle violenze subite, sempre secondo il rapporto di HDP "la prigioniera aveva cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata. Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state censurate, altre mai spedite".
Nonostante le sue proteste e le denunce degli abusi subiti in carcere fossero note da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata.
Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere all’autopsia.
Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre.
La sua famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione.
Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8 ottobre 2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis. L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate (quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti.
Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati.
Questi i precedenti a cui si va ad aggiungere un ulteriore tassello.
In questi giorni infatti l’agenzia femminista Jinnews ha potuto entrare in possesso di immagini che forniscono ulteriori conferme a quanto dichiarato dagli avvocati.
Inizialmente tali prove erano state secretate dal procuratore generale e invano i difensori della giovane curda avevano fatto richiesta per poterle visionare. Così come era rimasto senza risposta il loro ricorso alla Corte costituzionale turca (AYM) per denunciare la violazione degli articoli 17, 40, 36 e 141 della Costituzione e degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDH).
Quello che Gezer aveva subito in prigione (e che l’agenzia curda Jinnews non esita a definire “torture”) viene in parte ora svelato dalle drammatiche immagini.
Gli avvocati Eren Keskin, Jiyan Kaya, Jiyan Tosun e Elif Taşdöğen denunciano il fatto che l’ufficio del procuratore generale non ritenga di dover procedere a causa della “mancanza di prove”. Prove che invece per i difensori di Gezer sarebbero evidenti.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 26/11/2022 - 22:00
AL MOMENTO E’ ANCORA IMPOSSIBILE STABILIRE CHI ABBIA COLPITO SINAN ATES - TRA LE TANTE VITTIME DEI LUPI GRIGI C’E’ L’IMBARAZZO DELLA SCELTA
Ankara: Sinan Ateş ucciso in un attentato
Gianni Sartori
Ovviamente le ipotesi si sprecano. Gli Armeni? I Curdi? La sinistra rivoluzionaria Turca? Un regolamento di conti interno?
Comunque sia (e standoper ora alle notizie d’agenzia) un noto esponente dei “Lupi Grigi”, Sinan Ateş, è stato ucciso nel quartiere di Kızılırmakad (Ankara).
Nello stesse circostanze veniva ferito anche Selman Bozkurt, politicamente vicino a Sinan Ateş.
I due sono stati colpiti con una pistola dal passeggero di una moto guidata da un altro attentatore.
In passato Sinan Ateş era conosciuto come presidente della Fondazione per l’educazione e la cultura Ülkü Ocakları. Fondata ancora negli anni sessanta, viene considerata dai dissidenti turchi e curdi come una “organizzazione paramilitare fascista”. Un vera e propria squadra della morte i cui membri (i Lupi Grigi, braccio armato dei Servizi segreti turchi) hanno assassinato migliaia di persone. Soprattutto militanti di sinistra ed esponenti delle cosiddette “minoranze”, sia etniche (curdi e armeni in primis) che religiose. Per esempio nel dicembre 1978 si resero responsabile del massacro dei centinaia di alaviti a Maraş (in parte curdi, ma non solo).
Operativi anche a Cipro (contro la comunità greco-cipriota) dopo l’invasione turca dell’isola, nel Nagorno Karabakh contro gli Armeni e in Rojava contro i Curdi.
Per non parlare della “guerra sporca” condotta in Europa contro rifugiati e dissidenti. Solo in Francia ben undici attentati del 1983 contro la comunità armena sono stati attribuiti ai Lupi Grigi (come rappresaglia per le azioni dell’Asala). E ovviamente la loro ombra si proietta anche sul triplice omicidio del 2013 a Parigi contro tre femministe curde e su quello più recente di dicembre.
Gianni Sartori
Ankara: Sinan Ateş ucciso in un attentato
Gianni Sartori
Ovviamente le ipotesi si sprecano. Gli Armeni? I Curdi? La sinistra rivoluzionaria Turca? Un regolamento di conti interno?
Comunque sia (e standoper ora alle notizie d’agenzia) un noto esponente dei “Lupi Grigi”, Sinan Ateş, è stato ucciso nel quartiere di Kızılırmakad (Ankara).
Nello stesse circostanze veniva ferito anche Selman Bozkurt, politicamente vicino a Sinan Ateş.
I due sono stati colpiti con una pistola dal passeggero di una moto guidata da un altro attentatore.
In passato Sinan Ateş era conosciuto come presidente della Fondazione per l’educazione e la cultura Ülkü Ocakları. Fondata ancora negli anni sessanta, viene considerata dai dissidenti turchi e curdi come una “organizzazione paramilitare fascista”. Un vera e propria squadra della morte i cui membri (i Lupi Grigi, braccio armato dei Servizi segreti turchi) hanno assassinato migliaia di persone. Soprattutto militanti di sinistra ed esponenti delle cosiddette “minoranze”, sia etniche (curdi e armeni in primis) che religiose. Per esempio nel dicembre 1978 si resero responsabile del massacro dei centinaia di alaviti a Maraş (in parte curdi, ma non solo).
Operativi anche a Cipro (contro la comunità greco-cipriota) dopo l’invasione turca dell’isola, nel Nagorno Karabakh contro gli Armeni e in Rojava contro i Curdi.
Per non parlare della “guerra sporca” condotta in Europa contro rifugiati e dissidenti. Solo in Francia ben undici attentati del 1983 contro la comunità armena sono stati attribuiti ai Lupi Grigi (come rappresaglia per le azioni dell’Asala). E ovviamente la loro ombra si proietta anche sul triplice omicidio del 2013 a Parigi contro tre femministe curde e su quello più recente di dicembre.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 31/12/2022 - 15:23
Per il recente sisma che ha colpito le regioni curde entro i confini di Turchia e Siria si può parlare di un “massacro annunciato”.
CATASTROFE NATURALE? SOLO IN PARTE….
Gianni Sartori
Certo, quando – giusto un anno fa – ricordando le devastanti alterazioni del tessuto urbano imposte alla città curda di Diyarbakir (“L’urbanistica al servizio della repressione”)* scrivevo:
Non pensavo a scenari apocalittici come quelli derivati dal tremendo sisma (magnitudine di 7,8) che ha colpito il Kurdistan (sud est della Turchia e nord della Siria). Evidenziavo piuttosto il carattere concentrazionario, securitario dell’operazione. Parlando oltre che dall’aspetto immobiliare- edilizio anche di militarizzazione dei territori.
Riandando con la memoria, per analogia “a quanto avveniva nei primi anni ottanta a Derry (vedi Rossville Flats dove vennero ammassati gli abitanti sfrattati del Bogside e di Creggan) o a Belfast (con la “caricatura imperialista del falansterio” denominata Divis Flats)”.
In questi giorni anche i geologi turchi hanno definito i condoni edilizi concessi dalle amministrazioni locali e nazionali come un autentico crimine. Propedeutici al disastro attuale, una “strage annunciata”.
Intanto la neve impietosa va ricoprendo quanto rimane del crollo repentino (“come castelli di carte” denunciava un sopravvissuto,) di centinaia di immobili di decine di piani (in passato definiti “paccottiglia” dagli abitanti). E migliaia, decine di migliaia di persone (già sottoposte da anni a bombardamenti e repressione) rimaste all’addiaccio nelle aree sinistrate. A piangere cercando di estrarre i morti sepolti dalle macerie e qualche scampato. Con la lista delle vittime destinata ad aumentare di ora in ora (sempre più plausibile l’ipotesi di oltre 20mila morti) anche a causa dell’insufficienza (eufemismo per mancanza) dei soccorsi e nella quasi totale assenza di piani di emergenza.
Catastrofe naturale? Solo in parte.
Costruire immobili di molti piani (oltretutto con materiali scadenti e in barba a ogni principio di precauzione) in corrispondenza di faglie sismiche tra le più pericolose del pianeta (stando a quanto dichiarato da alcuni geologi e sismologi rappresentava quanto meno un azzardo. Per non parlare della cattiva gestione, della corruzione diffusa, dell’incompetenza dei politici. O addirittura della loro complicità nel garantire l’impunità (vedi i ripetuti condoni) per imprenditori, costruttori e immobiliaristi, in molti casi esponenti o ex esponenti della casta militare.
Gianni Sartori
* nota 1: https://www.rivistaetnie.com/urbanisti...
CATASTROFE NATURALE? SOLO IN PARTE….
Gianni Sartori
Certo, quando – giusto un anno fa – ricordando le devastanti alterazioni del tessuto urbano imposte alla città curda di Diyarbakir (“L’urbanistica al servizio della repressione”)* scrivevo:
“Inoltre, come denunciano gli architetti, i materiali utilizzati sono di pessima qualità e in futuro non mancheranno problemi”
Non pensavo a scenari apocalittici come quelli derivati dal tremendo sisma (magnitudine di 7,8) che ha colpito il Kurdistan (sud est della Turchia e nord della Siria). Evidenziavo piuttosto il carattere concentrazionario, securitario dell’operazione. Parlando oltre che dall’aspetto immobiliare- edilizio anche di militarizzazione dei territori.
Riandando con la memoria, per analogia “a quanto avveniva nei primi anni ottanta a Derry (vedi Rossville Flats dove vennero ammassati gli abitanti sfrattati del Bogside e di Creggan) o a Belfast (con la “caricatura imperialista del falansterio” denominata Divis Flats)”.
In questi giorni anche i geologi turchi hanno definito i condoni edilizi concessi dalle amministrazioni locali e nazionali come un autentico crimine. Propedeutici al disastro attuale, una “strage annunciata”.
Intanto la neve impietosa va ricoprendo quanto rimane del crollo repentino (“come castelli di carte” denunciava un sopravvissuto,) di centinaia di immobili di decine di piani (in passato definiti “paccottiglia” dagli abitanti). E migliaia, decine di migliaia di persone (già sottoposte da anni a bombardamenti e repressione) rimaste all’addiaccio nelle aree sinistrate. A piangere cercando di estrarre i morti sepolti dalle macerie e qualche scampato. Con la lista delle vittime destinata ad aumentare di ora in ora (sempre più plausibile l’ipotesi di oltre 20mila morti) anche a causa dell’insufficienza (eufemismo per mancanza) dei soccorsi e nella quasi totale assenza di piani di emergenza.
Catastrofe naturale? Solo in parte.
Costruire immobili di molti piani (oltretutto con materiali scadenti e in barba a ogni principio di precauzione) in corrispondenza di faglie sismiche tra le più pericolose del pianeta (stando a quanto dichiarato da alcuni geologi e sismologi rappresentava quanto meno un azzardo. Per non parlare della cattiva gestione, della corruzione diffusa, dell’incompetenza dei politici. O addirittura della loro complicità nel garantire l’impunità (vedi i ripetuti condoni) per imprenditori, costruttori e immobiliaristi, in molti casi esponenti o ex esponenti della casta militare.
Gianni Sartori
* nota 1: https://www.rivistaetnie.com/urbanisti...
Gianni Sartori - 8/2/2023 - 10:32
NEL KURDISTAN SOTTO OCCUPAZIONE, SIA DI ANKARA (Bakur) CHE DI TEHERAN (Rojhilat), AVERE 14 ANNI E’ COMUNQUE PERICOLOSO…
Gianni Sartori
Un quattordicenne curdo picchiato e torturato in Bakur, un suo coetaneo preso a fucilate sulla frontiera tra Iran e Iraq...vita dura per gli adolescenti curdi in un Paese "che non c'è" (almeno per ora)
Cosa hanno in comune, oltre al fatto di avere entrambi l’età di 14 anni, i due adolescenti vittime rispettivamente di torture da parte della polizia turca e di ferite da colpi di arma da fuoco esplosi dai militari iraniani?
Il fatto (per i loro carnefici forse la “colpa”) di essere curdi.
A Lice, nella provincia di Diyarbakir, un ragazzo curdo quattordicenne (di cui l’agenzia Mezopotamya, per la sua sicurezza, ha fornito solo le iniziali: YD) ha denunciato di essere stato maltrattato e torturato da quattro poliziotti che lo hanno costretto a dire “Io sono turco”. Dato che si rifiutava, veniva nuovamente colpito con l’impugnatore dei fucili e minacciato per obbligarlo a “insultare i Curdi e imparare l’inno nazionale turco”.
Aggiungendo che “se lo dimentichi, torniamo per spararti unapallottola in testa”.
Per poi abbandonarlo, imbavagliato e con le mani legate, in uno stagno dove fortunosamente è stato individuato da un abitante del luogo che lo ha tratto in salvo. Ricoverato in ospedale a Dicle, rischia comunque di perdere un occhio a causa delle percosse subite. Il ragazzo era stato sequestrato mentre rientrava a casa per una strada di campagna nella serata del 21 marzo, primo giorno dell’anno nella tradizione curda (Newroz).
Le cose non sono andate certo meglio per un altro quattordicenne curdo, Mani Habibi, ferito dai militari iraniani che avevano aperto il fuoco contro un gruppo di kolbar (spalloni curdi).
Il fatto (stando a quanto riportava Kolbarnews) sarebbe avvenuto nella notte del 15 marzo nella regione di Nawsoud (distretto di Hawraman, provincia di Kermanshah).
Il ragazzo era stato poi trasportato nell’ospedale di Paveh.
Sempre in base a quanto denunciava Kolbarnews, sono almeno tre i minorenni uccisi dalle guardie di frontiera iraniane dall’inizio del 2023. Altri tre kolbar sono deceduti in febbraio a causa di incidenti sulle impervie vie montuose del contrabbando e una dozzina sono rimasti feriti (e almeno uno ammazzato) a causa dei colpi di arma da fuoco esplosi dai militari.
Sarebbero inoltre 43 i kolbar che hanno perso la vita nel 2022 e oltre 200 quelli rimasti feriti. Di cui 189 direttamente dalle forze di sicurezza. Tra quello deceduti, si è potuto accertare che 29 sono stati ammazzati dai Pasdaran iraniani e uno dai militari turchi. In altri casi finora non si è potuto risalire alle responsabilità. Non mancano infatti incidenti mortali dovuti ai percorsi impervi e alle condizioni meteorologiche inclementi, alle cadute o a crisi cardiache a causa dello sforzo. Trasportano infatti pesanti carichi (sigarette, telefoni cellulari, articoli casalinghi, talvolta, ma raramente, anche alcolici) tra il Kurdistan del Sud (Bashur in territorio iracheno) e il Kurdistan dell’Est ( Rojhilat).
Ogni anno sono decine i kolbar e kasibkar (coloro che ricevono dai kolbar la mercanzia e si incaricano di rivenderla nelle città)presi di mira (non solo metaforicamente purtroppo) dalle forze di sicurezza. E se qualcuno di loro viene ammazzato non risulta vi siano inchieste, tantomeno misure punitive, nei confronti dei responsabili.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Un quattordicenne curdo picchiato e torturato in Bakur, un suo coetaneo preso a fucilate sulla frontiera tra Iran e Iraq...vita dura per gli adolescenti curdi in un Paese "che non c'è" (almeno per ora)
Cosa hanno in comune, oltre al fatto di avere entrambi l’età di 14 anni, i due adolescenti vittime rispettivamente di torture da parte della polizia turca e di ferite da colpi di arma da fuoco esplosi dai militari iraniani?
Il fatto (per i loro carnefici forse la “colpa”) di essere curdi.
A Lice, nella provincia di Diyarbakir, un ragazzo curdo quattordicenne (di cui l’agenzia Mezopotamya, per la sua sicurezza, ha fornito solo le iniziali: YD) ha denunciato di essere stato maltrattato e torturato da quattro poliziotti che lo hanno costretto a dire “Io sono turco”. Dato che si rifiutava, veniva nuovamente colpito con l’impugnatore dei fucili e minacciato per obbligarlo a “insultare i Curdi e imparare l’inno nazionale turco”.
Aggiungendo che “se lo dimentichi, torniamo per spararti unapallottola in testa”.
Per poi abbandonarlo, imbavagliato e con le mani legate, in uno stagno dove fortunosamente è stato individuato da un abitante del luogo che lo ha tratto in salvo. Ricoverato in ospedale a Dicle, rischia comunque di perdere un occhio a causa delle percosse subite. Il ragazzo era stato sequestrato mentre rientrava a casa per una strada di campagna nella serata del 21 marzo, primo giorno dell’anno nella tradizione curda (Newroz).
Le cose non sono andate certo meglio per un altro quattordicenne curdo, Mani Habibi, ferito dai militari iraniani che avevano aperto il fuoco contro un gruppo di kolbar (spalloni curdi).
Il fatto (stando a quanto riportava Kolbarnews) sarebbe avvenuto nella notte del 15 marzo nella regione di Nawsoud (distretto di Hawraman, provincia di Kermanshah).
Il ragazzo era stato poi trasportato nell’ospedale di Paveh.
Sempre in base a quanto denunciava Kolbarnews, sono almeno tre i minorenni uccisi dalle guardie di frontiera iraniane dall’inizio del 2023. Altri tre kolbar sono deceduti in febbraio a causa di incidenti sulle impervie vie montuose del contrabbando e una dozzina sono rimasti feriti (e almeno uno ammazzato) a causa dei colpi di arma da fuoco esplosi dai militari.
Sarebbero inoltre 43 i kolbar che hanno perso la vita nel 2022 e oltre 200 quelli rimasti feriti. Di cui 189 direttamente dalle forze di sicurezza. Tra quello deceduti, si è potuto accertare che 29 sono stati ammazzati dai Pasdaran iraniani e uno dai militari turchi. In altri casi finora non si è potuto risalire alle responsabilità. Non mancano infatti incidenti mortali dovuti ai percorsi impervi e alle condizioni meteorologiche inclementi, alle cadute o a crisi cardiache a causa dello sforzo. Trasportano infatti pesanti carichi (sigarette, telefoni cellulari, articoli casalinghi, talvolta, ma raramente, anche alcolici) tra il Kurdistan del Sud (Bashur in territorio iracheno) e il Kurdistan dell’Est ( Rojhilat).
Ogni anno sono decine i kolbar e kasibkar (coloro che ricevono dai kolbar la mercanzia e si incaricano di rivenderla nelle città)presi di mira (non solo metaforicamente purtroppo) dalle forze di sicurezza. E se qualcuno di loro viene ammazzato non risulta vi siano inchieste, tantomeno misure punitive, nei confronti dei responsabili.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 22/3/2023 - 19:00
IN MEMORIA DI Xwiska Nesrîn
Gianni Sartori
“Xwiska Nesrîn” (Sorella Nesrîn) è stata sepolta il 24 marzo al Père-Lachaise. Il luogo più indicato per questa militante internazionalista che per tutta la vita ha difeso la causa curda da Praga a Baghdad a Parigi…
L’estremo approdo di ribelli e rivoluzionari (spesso nella condizione di migranti, clandestini, profughi erranti…) di ogni genere e tendenza.Dal libertario ucraino Nestor Makhno allo scrittore stalinista (per quanto in buona fede e morto nel 1935, quindi prima della tragedia rivelatrice del maggio ’37 a Barcelona) Henri Barbusse. Ultima trincea comunarda nel 1871 dove, davanti al muro sud esterno (destinato a passare alla Storia come “muro dei Federati”) il 28 maggio vennero fucilati gli ultimi insorti sopravvissuti (147).
Hélène Ghassemlou se n’era andata il 10 marzo all’età di 89 anni.
Nata a Praga (Cecoslovacchia, all’epoca) nel dicembre 1933, all’università, aveva conosciuto Abdul Rahman Ghassemlou. Sposandolo nel 1952 si era unita anima e corpo anche alla causa curda.
Conobbe la clandestinità in Iran con il marito esponente dell’opposizione curda contro la monarchia di Mohammad Reza Pahlavi. A cui seguì l’esilio a Bagdad per rientrare a Praga come insegnante di inglese all’università (mentre in quel periodo Abdul Rahman Ghassemlou insegnava economia politica). Rientrata a Bagdad dopo gli accordi di pace tra la resistenza curda e il governo iracheno, aveva collaborato con il marito divenuto segretario generale del Partito Democratico del Kurdistan d’Iran. Tornati ancora a Praga nel 1974 (a causa dell’inasprirsi dei rapporti tra curdi e Bagdad), i due coniugi dovevano scoprire di non essere più bene accetti, presumibilmente per i loro buoni rapporti con dissidenti legati alla “Primavera di Praga” di Alexandre Dubcek.
Espulsi dalla Cecoslovacchia nel 1975, si trasferirono a Parigi. Nel 1978 Ghassemlou rientrava clandestinamente in Iran per partecipare alle mobilitazioni dei curdi contro lo scià. Con la caduta del regime e la liberazione di molte città curde, quella parte del Kurdistan denominata Rojhilat conobbe un periodo - per quanto breve - di autonomia e libertà.
Ma nell’agosto 1979 il nuovo regime degli ayatollah dichiarava la jihad contro i Curdi ponendovi fine.
In quanto leader della resistenza politico-militare del PDKI, Abdul Rahman Ghassemlou venne assassinato a Vienna nel luglio 1989. Qui si era recato per “colloqui di Pace”, ma quelli che in teoria erano rappresentati del governo disponibili al dialogo e alle trattative risultarono assassini prezzolati del regime.
Nel corso degli anni successivi all’assassinio del marito Hélène Ghassemlou si era mantenuta vicina sia al PDKI che all’Institut kurde di Parigi e solidale con la comunità curda della diaspora.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
“Xwiska Nesrîn” (Sorella Nesrîn) è stata sepolta il 24 marzo al Père-Lachaise. Il luogo più indicato per questa militante internazionalista che per tutta la vita ha difeso la causa curda da Praga a Baghdad a Parigi…
L’estremo approdo di ribelli e rivoluzionari (spesso nella condizione di migranti, clandestini, profughi erranti…) di ogni genere e tendenza.Dal libertario ucraino Nestor Makhno allo scrittore stalinista (per quanto in buona fede e morto nel 1935, quindi prima della tragedia rivelatrice del maggio ’37 a Barcelona) Henri Barbusse. Ultima trincea comunarda nel 1871 dove, davanti al muro sud esterno (destinato a passare alla Storia come “muro dei Federati”) il 28 maggio vennero fucilati gli ultimi insorti sopravvissuti (147).
Hélène Ghassemlou se n’era andata il 10 marzo all’età di 89 anni.
Nata a Praga (Cecoslovacchia, all’epoca) nel dicembre 1933, all’università, aveva conosciuto Abdul Rahman Ghassemlou. Sposandolo nel 1952 si era unita anima e corpo anche alla causa curda.
Conobbe la clandestinità in Iran con il marito esponente dell’opposizione curda contro la monarchia di Mohammad Reza Pahlavi. A cui seguì l’esilio a Bagdad per rientrare a Praga come insegnante di inglese all’università (mentre in quel periodo Abdul Rahman Ghassemlou insegnava economia politica). Rientrata a Bagdad dopo gli accordi di pace tra la resistenza curda e il governo iracheno, aveva collaborato con il marito divenuto segretario generale del Partito Democratico del Kurdistan d’Iran. Tornati ancora a Praga nel 1974 (a causa dell’inasprirsi dei rapporti tra curdi e Bagdad), i due coniugi dovevano scoprire di non essere più bene accetti, presumibilmente per i loro buoni rapporti con dissidenti legati alla “Primavera di Praga” di Alexandre Dubcek.
Espulsi dalla Cecoslovacchia nel 1975, si trasferirono a Parigi. Nel 1978 Ghassemlou rientrava clandestinamente in Iran per partecipare alle mobilitazioni dei curdi contro lo scià. Con la caduta del regime e la liberazione di molte città curde, quella parte del Kurdistan denominata Rojhilat conobbe un periodo - per quanto breve - di autonomia e libertà.
Ma nell’agosto 1979 il nuovo regime degli ayatollah dichiarava la jihad contro i Curdi ponendovi fine.
In quanto leader della resistenza politico-militare del PDKI, Abdul Rahman Ghassemlou venne assassinato a Vienna nel luglio 1989. Qui si era recato per “colloqui di Pace”, ma quelli che in teoria erano rappresentati del governo disponibili al dialogo e alle trattative risultarono assassini prezzolati del regime.
Nel corso degli anni successivi all’assassinio del marito Hélène Ghassemlou si era mantenuta vicina sia al PDKI che all’Institut kurde di Parigi e solidale con la comunità curda della diaspora.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 24/3/2023 - 09:09
UN PRIGIONIERO POLITICO CURDO CHE AVEVA TRASCORSO 30 IN PRIGIONE MUORE A 51 GIORNI DALLA SUA SCARCERAZIONE
ABDULHALIM KIRTAY LIBERO ALLA FINE
Gianni Sartori
Marzo 2023
A 51 giorni dalla sua “liberazione” (il 22 marzo, dopo trent’anni di carcere e quando ormai da tempo era da considerare un malato in fase terminale) Abdulhalim Kırtay è deceduto a causa delle numerose patologie contratte in prigione (nel corso degli anni aveva subito anche numerosi interventi operatori).
Arrestato a Silvan nel 1993 per “attività separatista”, veniva rinchiuso nella prigione Farqîn di Amed (Diyarbakır). Giudicato dalla Corte di sicurezza dello Stato per aver “minacciato l’unità e l’integrità dello Stato” e in quanto esponente del PKK, era stato condannato all’ergastolo aggravato, ossia senza prospettiva di liberazione. Una forma di punizione in contrasto con le convenzioni internazionali sui diritti umani in quanto nega il “diritto alla speranza” e che in Turchia viene emessa soprattutto contro i prigionieri politici curdi e della sinistra rivoluzionaria turca.
Da molto tempo il suo nome era inserito nella lista dei prigionieri gravemente ammalati dell’Associazione dei diritti dell’uomo (IHD).
Al momento della sua tardiva (e per certi aspetti ormai inutile) rimessa in libertà si trovava rinchiuso nel carcere di Balıkesir Burhaniye.
Ad accoglierlo all’uscita alcuni familiari provenienti da Yalova. Date le gravi condizioni di salute, nel novembre del 2022 era stato ricoverato per quattro giorni all’ospedale di Stato Menemen di İzmir. Ma nonostante il suo stato (non era nemmeno in grado di alzarsi), qui veniva maltrattato e ammanettato al letto per tutto il tempo della permanenza ospedaliera.
E’ stato seppellito nel cimitero di Yeniköy, in Amed / Bağlar.
Con un comunicato il PKK gli ha reso onore.
Gianni Sartori
ABDULHALIM KIRTAY LIBERO ALLA FINE
Gianni Sartori
Marzo 2023
A 51 giorni dalla sua “liberazione” (il 22 marzo, dopo trent’anni di carcere e quando ormai da tempo era da considerare un malato in fase terminale) Abdulhalim Kırtay è deceduto a causa delle numerose patologie contratte in prigione (nel corso degli anni aveva subito anche numerosi interventi operatori).
Arrestato a Silvan nel 1993 per “attività separatista”, veniva rinchiuso nella prigione Farqîn di Amed (Diyarbakır). Giudicato dalla Corte di sicurezza dello Stato per aver “minacciato l’unità e l’integrità dello Stato” e in quanto esponente del PKK, era stato condannato all’ergastolo aggravato, ossia senza prospettiva di liberazione. Una forma di punizione in contrasto con le convenzioni internazionali sui diritti umani in quanto nega il “diritto alla speranza” e che in Turchia viene emessa soprattutto contro i prigionieri politici curdi e della sinistra rivoluzionaria turca.
Da molto tempo il suo nome era inserito nella lista dei prigionieri gravemente ammalati dell’Associazione dei diritti dell’uomo (IHD).
Al momento della sua tardiva (e per certi aspetti ormai inutile) rimessa in libertà si trovava rinchiuso nel carcere di Balıkesir Burhaniye.
Ad accoglierlo all’uscita alcuni familiari provenienti da Yalova. Date le gravi condizioni di salute, nel novembre del 2022 era stato ricoverato per quattro giorni all’ospedale di Stato Menemen di İzmir. Ma nonostante il suo stato (non era nemmeno in grado di alzarsi), qui veniva maltrattato e ammanettato al letto per tutto il tempo della permanenza ospedaliera.
E’ stato seppellito nel cimitero di Yeniköy, in Amed / Bağlar.
Con un comunicato il PKK gli ha reso onore.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 14/5/2023 - 11:00
AMNESTY INTERNATIONAL ACCUSA I CURDI DI VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEI CONFRONTI DEI PRIGIONIERI DI AL-HOL
Gianni Sartori
Un corto circuito, inevitabile per chi oltre a essersi occupato per anni della questione curda in generale (e del Rojava in particolare) è anche socio sostenitore della benemerita organizzazione umanitaria.
Questo ho percepito leggendo il rapporto di Amnesty International sulle - per me ancora presunte - violazioni dei diritti umani, compresi omicidi e torture, opera di esponenti delle FDS (le Forze Democratiche Siriane, un’alleanza di curdi, arabi e assiro-siriaci dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est) nei campi di detenzione di al-Hol e di Roj. Dove sono ancora rinchiusi (controllati, segregati?) migliaia di esponenti di Daesh (qualcuno magari solo presunto). - Per saperne di più e direttamente dalla fonte
Per quanto mi riguarda ero al corrente delle difficile, drammatica, insostenibile situazione di al-Hol nel cantone di Hesekê.
Già quattro anni fa venivano avanzati sospetti sui metodi delle forze a guardia del campo (la sicurezza interna - Asayish - e le FDS). Da ulteriori indagini si appurava come le violenze ai danni delle donne internate fossero opera per lo più di altre donne, in massima parte di origine “russa” (non meglio precisata – forse da interpretare come “cecene” o comunque caucasiche) che si ostinano a difendere, applicare e imporre la legge islamica. Punendo duramente quelle che non si sottopongono alla sharia. Inoltre queste “russe” riceverebbero cospicui finanziamenti dall’esterno, anche se per ora non è stato possibile individuare i canali.
Questo almeno è quanto aveva potuto verificare un corrispondente dell’agenzia Hawar che aveva visitato il campo. Ovvero: le donne venivano - e probabilmente vengono ancora - effettivamente punite, maltrattate, picchiate, ma appunto dalle donne rimaste devote a Daesh e alla legge islamica. Non dai guardiani del campo. *
Da tempo l'AANES (Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est) chiede che i prigionieri vengano giudicati da un tribunale internazionale o almeno che i vari stati di provenienza dei miliziani jihadisti se li riprendano insieme alle loro famiglie. Ma senza ricevere risposta. Meglio evidentemente (anche per gli Stati europei da cui una parte proviene) lasciarli qui parcheggiati. Non solo. I curdi hanno liberato molti di questi miliziani, in particolare quelli arabi di nazionalità siriana dopo aver condotto trattative con i capi tribali i quali si sono impegnati a impedirne un nuovo arruolamento in Daesh.
Per ragioni evidenti non possono adottare la medesima soluzione per ceceni, francesi, iracheni, britannici etc. I quali, se rimessi in circolazione, forse non avrebbero altra alternativa che tornare a integrarsi in qualche formazione jihadista.
A chiunque non sia in malafede dovrebbe apparire scontato che ai partigiani curdi – rivoluzionari e libertari – la funzione di secondini va alquanto stretta. Coerentemente con i principi umanitari del Confederalismo democratico, i Curdi in Rojava avevano già abolito la pena di morte. Perfino per i tagliagole seriali di Daesh/Isis..
Non arrivava quindi inaspettata nell’ottobre 2020 la notizia che avrebbero potuto tornare in libertà circa 25mila internati siriani (di cui 17mila minori) del campo di al-Hol. Seduta stante per amnistia generale. Un modo per alleggerire la situazione – divenuta soffocante, invivibile – del campo e dare una risposta positiva alle richieste delle comunità arabe locali. O almeno questa sarebbe stata l’intenzione, stando alle dichiarazioni di Elham Ahmad, esponente del Consiglio democratico siriano.
Hol veniva definito un “pesante fardello” per l’AANES. Per cui, aveva spiegato Elham Ahmad “non si sente obbligata a pagare ancora somme esorbitanti per fornire cibo e ogni cosa necessaria a queste persone". Per non parlare dei gravi problemi che quotidianamente turbano la vita del campo". E non si parlava solo di risse o litigi, ma di “stupri e uccisioni”.
Da qui il progetto, poi realizzato solo in parte, di cominciare a svuotare al-Hol degli internati di cittadinanza siriana. Rinviati per contingenti nei loro villaggi su richiesta delle autorità tribali (dopo i disordini scoppiati a Deir-ez-Zor) per rendere il campo almeno vivibile. Inoltre “non sarebbero più sotto la responsabilità dell’AANES e quelli che vi rimarranno saranno considerati detenuti a tutti gli effetti”.
Polemicamente vorrei qui ricordare il risalto dato dai siti filo-Assad (rosso-bruni, fascisti, neostalinisti…) agli scontri tra le YPG e le popolazioni arabe appoggiate da Damasco. Parlandone come di una rivolta popolare spontanea contro la prepotenza dei curdi e dei loro alleati. Ora si scoprono gli altarini: i tribali rivolevano soltanto indietro i loro compaesani arruolatisi – volontariamente o meno – nelle bande integraliste. Umanamente anche comprensibile (volerli riportare a casa intendo, non certo integrarsi in Daesh), ma politicamente alquanto discutibile. Già prima del 2020 oltre 4mila internati siriani avevano potuto lasciare il campo di Hol e quello di Deir-ez-Zor, dietro la garanzia – fornita sempre da sceicchi tribali – che non si sarebbero arruolati con Daesh.
Si calcola che nel campo vi siano almeno 30mila iracheni (tra cui 20mila minori) di cui il governo iracheno sembra volersi disinteressare totalmente (nonostante le richiesta dell’AANES di poterli rimpatriare) e almeno altri diecimila stranieri di diverse nazionalità (tra cui 7mila minori).
Dato che la comunità internazionale da tempo va manifestando un sostanziale disinteresse per la sorte di questi prigionieri (tra i membri di Daesh/Isis non mancano nemmeno quelli con cittadinanza europea), in alcune occasioni l’AANES aveva espresso l’intenzione di processarli direttamente in proprio. Oppure che venisse istituita una Corte di Giustizia internazionale con il contributo - almeno - dei Paesi della coalizione anti-Isis.
Già allora tra omicidi e tentati omicidi (in genere all’arma bianca per mano delle donne dei miliziani di Daesh), stupri, incendi e abusi di ogni genere, la situazione nel campo era diventata insostenibile. E in seguito non ha potuto altro che peggiorare.
Un degrado ancora peggiore di quello generale, caratterizzato da sistematiche e molteplici violazioni dei diritti umani, operate praticamente da parte di tutti i soggetti coinvolti nel conflitto siriano.
Così almeno stabiliva, sempre nel 2020, un rapporto della Commissione internazionale indipendente di inchiesta sulla repubblica araba siriana. Rapporto che però accusava - a mio avviso ingiustamente - soprattutto le Forze democratiche siriane (FDS) per le lunga detenzione dei miliziani catturati, compresi quelli di Daesh. Non prendendo in considerazione il fatto che i loro governi mostravano chiaramente di non volerli rimpatriare (inevitabile notare la sintonia con il recentissimo rapporto di A.I.).
Mazlum Abdi, comandante delle FDS, aveva contestato alcune delle affermazioni contenute nel rapporto del 2020 in quanto sembravano “ignorare la complessità di dimensioni internazionali del campo di Hol”. Un campo che al momento dell’inchiesta ospitava da parecchi mesi forse 65mila persone “provenienti da decine di paesi differenti (oltre una cinquantina nda), tra cui migliaia di membri di Daesh e le loro famiglie catturati dalle FDS”.
Ma in buona sostanza, come era stato strutturato il campo di Hol?
Al-Hol è diviso in otto zone. Nella zona uno, due e tre si trovano persone di Mosul che avevano disertato da Daesh ancora nel 2014, mentre nella zona quattro sono stati raccolti soprattutto sfollati siriani.
Invece jihadisti e loro familiari sono rinchiusi nelle zone cinque, sei e sette.
Altri jihadisti – in particolare gli stranieri – nel Muhajarad (la zona dei “Migranti”).
Purtroppo nel campo si era ricostituita più o meno clandestinamente l’organizzazione del califfato. Soprattutto per opera delle donne impegnate sia nell’indottrinamento dei bambini, sia nell’eliminazione di chi vorrebbe tirarsene fuori (quelli definiti “rinnegati”). Per esempio - notizia del 6 ottobre 2020 – alcune donne aderenti allo Stato Islamico avevano assassinato un rifugiato iracheno e tentato di assassinarne un altro, un barbiere (ma riuscendo, soltanto a ferirlo gravemente ).
Il gruppo si era organizzato come una vera e propria milizia per controllare, terrorizzandole, le persone rinchiuse nel campo. A peggiorare ulteriormente la situazione, con l’invasione turca del 2019 i tentativi di evasione si sono moltiplicati. Almeno 700 (in buona parte riusciti) tra il 2019 e il 2020 (dati forniti dalle forze di sicurezza presenti nel campo).
Parlando di evasioni dei detenuti jihadisti in Siria, ci tocca ricordare l’assalto di due anni fa al carcere di Sina (pare propiziato da Ankara e forse anche da Damasco) per consentire la fuga di jihadisti (presumibilmente legati a formazioni filo-turche). Un attacco - ricordo - che era costato la vita a centinaia di esponenti delle FDS.**
Nel suo rapporto poi A.I. punta il dito sul fatto che qui vi sarebbero anche donne ezide fatte prigioniere dallo Stato islamico. Come se questo dipendesse dai curdi, già in grande difficoltà nel controllare la riorganizzazione (grazie soprattutto alle mogli dei combattenti di Daesh) dell’organizzazione islamista. Ma forse Amnesty International non ha colto un fatto drammatico.
I prigionieri ezidi (soprattutto donne) nel campo non possono contattare le forze di sicurezza (se non a proprio grave rischio e pericolo) in quanto la stragrande maggioranza degli internati è comunque legata all’Isis (i curdi distinguono tra appartenenza “attiva” e quella “passiva”, la quale non viene considerata un reato) che all’interno del campo ha in qualche modo saputo ricostituirsi (anche procurandosi armi). Da parte loro i curdi si impegnano quotidianamente (diciamo che “fanno gli straordinari”) per ritrovare le donne ezide sequestrate da Daesh e liberarle.
Anche recentemente (marzo 2024), proseguendo nell’operazione Umanità e Sicurezza, le YPJ (Unità di protezione delle donne) in collaborazione con la Casa Ezida avevano potuto individuare, liberare e riconsegnare alla famiglia un’altra giovane ezida, Kovan Aidi Khourto. Catturata da Daesh, era ancora trattenuta contro la sua volontà nel campo di al-Hol. Come lei sono già alcune centinaia le donne ezide liberate dai combattenti curdi.
Nel loro comunicato le YPJ informano che “rinnoviamo il nostro impegno irremovibile a difendere e liberare le donne , in particolare le donne ezide dalla schiavitù dello Stato islamico e nell’aiutarle ritrovar le proprie famiglie”.
Per ora concludo, ma è ovvio che il rapporto di A. I. merita un approccio più approfondito. Molto più di queste mie prime considerazioni”a caldo!”.
Per cui sicuramente bisognerà ritornarci sopra.
Gianni Sartori
*nota 1: https://www.rivistaetnie.com/al-hol-un...
** nota 2: https://ogzero.org/assalto-al-carcere-...
Gianni Sartori
Un corto circuito, inevitabile per chi oltre a essersi occupato per anni della questione curda in generale (e del Rojava in particolare) è anche socio sostenitore della benemerita organizzazione umanitaria.
Questo ho percepito leggendo il rapporto di Amnesty International sulle - per me ancora presunte - violazioni dei diritti umani, compresi omicidi e torture, opera di esponenti delle FDS (le Forze Democratiche Siriane, un’alleanza di curdi, arabi e assiro-siriaci dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est) nei campi di detenzione di al-Hol e di Roj. Dove sono ancora rinchiusi (controllati, segregati?) migliaia di esponenti di Daesh (qualcuno magari solo presunto). - Per saperne di più e direttamente dalla fonte
Per quanto mi riguarda ero al corrente delle difficile, drammatica, insostenibile situazione di al-Hol nel cantone di Hesekê.
Già quattro anni fa venivano avanzati sospetti sui metodi delle forze a guardia del campo (la sicurezza interna - Asayish - e le FDS). Da ulteriori indagini si appurava come le violenze ai danni delle donne internate fossero opera per lo più di altre donne, in massima parte di origine “russa” (non meglio precisata – forse da interpretare come “cecene” o comunque caucasiche) che si ostinano a difendere, applicare e imporre la legge islamica. Punendo duramente quelle che non si sottopongono alla sharia. Inoltre queste “russe” riceverebbero cospicui finanziamenti dall’esterno, anche se per ora non è stato possibile individuare i canali.
Questo almeno è quanto aveva potuto verificare un corrispondente dell’agenzia Hawar che aveva visitato il campo. Ovvero: le donne venivano - e probabilmente vengono ancora - effettivamente punite, maltrattate, picchiate, ma appunto dalle donne rimaste devote a Daesh e alla legge islamica. Non dai guardiani del campo. *
Da tempo l'AANES (Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est) chiede che i prigionieri vengano giudicati da un tribunale internazionale o almeno che i vari stati di provenienza dei miliziani jihadisti se li riprendano insieme alle loro famiglie. Ma senza ricevere risposta. Meglio evidentemente (anche per gli Stati europei da cui una parte proviene) lasciarli qui parcheggiati. Non solo. I curdi hanno liberato molti di questi miliziani, in particolare quelli arabi di nazionalità siriana dopo aver condotto trattative con i capi tribali i quali si sono impegnati a impedirne un nuovo arruolamento in Daesh.
Per ragioni evidenti non possono adottare la medesima soluzione per ceceni, francesi, iracheni, britannici etc. I quali, se rimessi in circolazione, forse non avrebbero altra alternativa che tornare a integrarsi in qualche formazione jihadista.
A chiunque non sia in malafede dovrebbe apparire scontato che ai partigiani curdi – rivoluzionari e libertari – la funzione di secondini va alquanto stretta. Coerentemente con i principi umanitari del Confederalismo democratico, i Curdi in Rojava avevano già abolito la pena di morte. Perfino per i tagliagole seriali di Daesh/Isis..
Non arrivava quindi inaspettata nell’ottobre 2020 la notizia che avrebbero potuto tornare in libertà circa 25mila internati siriani (di cui 17mila minori) del campo di al-Hol. Seduta stante per amnistia generale. Un modo per alleggerire la situazione – divenuta soffocante, invivibile – del campo e dare una risposta positiva alle richieste delle comunità arabe locali. O almeno questa sarebbe stata l’intenzione, stando alle dichiarazioni di Elham Ahmad, esponente del Consiglio democratico siriano.
Hol veniva definito un “pesante fardello” per l’AANES. Per cui, aveva spiegato Elham Ahmad “non si sente obbligata a pagare ancora somme esorbitanti per fornire cibo e ogni cosa necessaria a queste persone". Per non parlare dei gravi problemi che quotidianamente turbano la vita del campo". E non si parlava solo di risse o litigi, ma di “stupri e uccisioni”.
Da qui il progetto, poi realizzato solo in parte, di cominciare a svuotare al-Hol degli internati di cittadinanza siriana. Rinviati per contingenti nei loro villaggi su richiesta delle autorità tribali (dopo i disordini scoppiati a Deir-ez-Zor) per rendere il campo almeno vivibile. Inoltre “non sarebbero più sotto la responsabilità dell’AANES e quelli che vi rimarranno saranno considerati detenuti a tutti gli effetti”.
Polemicamente vorrei qui ricordare il risalto dato dai siti filo-Assad (rosso-bruni, fascisti, neostalinisti…) agli scontri tra le YPG e le popolazioni arabe appoggiate da Damasco. Parlandone come di una rivolta popolare spontanea contro la prepotenza dei curdi e dei loro alleati. Ora si scoprono gli altarini: i tribali rivolevano soltanto indietro i loro compaesani arruolatisi – volontariamente o meno – nelle bande integraliste. Umanamente anche comprensibile (volerli riportare a casa intendo, non certo integrarsi in Daesh), ma politicamente alquanto discutibile. Già prima del 2020 oltre 4mila internati siriani avevano potuto lasciare il campo di Hol e quello di Deir-ez-Zor, dietro la garanzia – fornita sempre da sceicchi tribali – che non si sarebbero arruolati con Daesh.
Si calcola che nel campo vi siano almeno 30mila iracheni (tra cui 20mila minori) di cui il governo iracheno sembra volersi disinteressare totalmente (nonostante le richiesta dell’AANES di poterli rimpatriare) e almeno altri diecimila stranieri di diverse nazionalità (tra cui 7mila minori).
Dato che la comunità internazionale da tempo va manifestando un sostanziale disinteresse per la sorte di questi prigionieri (tra i membri di Daesh/Isis non mancano nemmeno quelli con cittadinanza europea), in alcune occasioni l’AANES aveva espresso l’intenzione di processarli direttamente in proprio. Oppure che venisse istituita una Corte di Giustizia internazionale con il contributo - almeno - dei Paesi della coalizione anti-Isis.
Già allora tra omicidi e tentati omicidi (in genere all’arma bianca per mano delle donne dei miliziani di Daesh), stupri, incendi e abusi di ogni genere, la situazione nel campo era diventata insostenibile. E in seguito non ha potuto altro che peggiorare.
Un degrado ancora peggiore di quello generale, caratterizzato da sistematiche e molteplici violazioni dei diritti umani, operate praticamente da parte di tutti i soggetti coinvolti nel conflitto siriano.
Così almeno stabiliva, sempre nel 2020, un rapporto della Commissione internazionale indipendente di inchiesta sulla repubblica araba siriana. Rapporto che però accusava - a mio avviso ingiustamente - soprattutto le Forze democratiche siriane (FDS) per le lunga detenzione dei miliziani catturati, compresi quelli di Daesh. Non prendendo in considerazione il fatto che i loro governi mostravano chiaramente di non volerli rimpatriare (inevitabile notare la sintonia con il recentissimo rapporto di A.I.).
Mazlum Abdi, comandante delle FDS, aveva contestato alcune delle affermazioni contenute nel rapporto del 2020 in quanto sembravano “ignorare la complessità di dimensioni internazionali del campo di Hol”. Un campo che al momento dell’inchiesta ospitava da parecchi mesi forse 65mila persone “provenienti da decine di paesi differenti (oltre una cinquantina nda), tra cui migliaia di membri di Daesh e le loro famiglie catturati dalle FDS”.
Ma in buona sostanza, come era stato strutturato il campo di Hol?
Al-Hol è diviso in otto zone. Nella zona uno, due e tre si trovano persone di Mosul che avevano disertato da Daesh ancora nel 2014, mentre nella zona quattro sono stati raccolti soprattutto sfollati siriani.
Invece jihadisti e loro familiari sono rinchiusi nelle zone cinque, sei e sette.
Altri jihadisti – in particolare gli stranieri – nel Muhajarad (la zona dei “Migranti”).
Purtroppo nel campo si era ricostituita più o meno clandestinamente l’organizzazione del califfato. Soprattutto per opera delle donne impegnate sia nell’indottrinamento dei bambini, sia nell’eliminazione di chi vorrebbe tirarsene fuori (quelli definiti “rinnegati”). Per esempio - notizia del 6 ottobre 2020 – alcune donne aderenti allo Stato Islamico avevano assassinato un rifugiato iracheno e tentato di assassinarne un altro, un barbiere (ma riuscendo, soltanto a ferirlo gravemente ).
Il gruppo si era organizzato come una vera e propria milizia per controllare, terrorizzandole, le persone rinchiuse nel campo. A peggiorare ulteriormente la situazione, con l’invasione turca del 2019 i tentativi di evasione si sono moltiplicati. Almeno 700 (in buona parte riusciti) tra il 2019 e il 2020 (dati forniti dalle forze di sicurezza presenti nel campo).
Parlando di evasioni dei detenuti jihadisti in Siria, ci tocca ricordare l’assalto di due anni fa al carcere di Sina (pare propiziato da Ankara e forse anche da Damasco) per consentire la fuga di jihadisti (presumibilmente legati a formazioni filo-turche). Un attacco - ricordo - che era costato la vita a centinaia di esponenti delle FDS.**
Nel suo rapporto poi A.I. punta il dito sul fatto che qui vi sarebbero anche donne ezide fatte prigioniere dallo Stato islamico. Come se questo dipendesse dai curdi, già in grande difficoltà nel controllare la riorganizzazione (grazie soprattutto alle mogli dei combattenti di Daesh) dell’organizzazione islamista. Ma forse Amnesty International non ha colto un fatto drammatico.
I prigionieri ezidi (soprattutto donne) nel campo non possono contattare le forze di sicurezza (se non a proprio grave rischio e pericolo) in quanto la stragrande maggioranza degli internati è comunque legata all’Isis (i curdi distinguono tra appartenenza “attiva” e quella “passiva”, la quale non viene considerata un reato) che all’interno del campo ha in qualche modo saputo ricostituirsi (anche procurandosi armi). Da parte loro i curdi si impegnano quotidianamente (diciamo che “fanno gli straordinari”) per ritrovare le donne ezide sequestrate da Daesh e liberarle.
Anche recentemente (marzo 2024), proseguendo nell’operazione Umanità e Sicurezza, le YPJ (Unità di protezione delle donne) in collaborazione con la Casa Ezida avevano potuto individuare, liberare e riconsegnare alla famiglia un’altra giovane ezida, Kovan Aidi Khourto. Catturata da Daesh, era ancora trattenuta contro la sua volontà nel campo di al-Hol. Come lei sono già alcune centinaia le donne ezide liberate dai combattenti curdi.
Nel loro comunicato le YPJ informano che “rinnoviamo il nostro impegno irremovibile a difendere e liberare le donne , in particolare le donne ezide dalla schiavitù dello Stato islamico e nell’aiutarle ritrovar le proprie famiglie”.
Per ora concludo, ma è ovvio che il rapporto di A. I. merita un approccio più approfondito. Molto più di queste mie prime considerazioni”a caldo!”.
Per cui sicuramente bisognerà ritornarci sopra.
Gianni Sartori
*nota 1: https://www.rivistaetnie.com/al-hol-un...
** nota 2: https://ogzero.org/assalto-al-carcere-...
Gianni Sartori - 19/4/2024 - 22:08
UNA DELEGAZIONE DEL PARTITO DEM RICEVUTA A LIVELLO DIPLOMATICO IN GERMANIA
Gianni Sartori
Una delegazione del Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli (DEM) rappresentata da Tülay Hatimoğulları, da Ebru Günay (Commissione dei rapporti con l’estero del partito), dal rappresentante europeo Eyyüp Doru e dalla rappresentante tedesca Leyla Imret, ha potuto incontrarsi a vario titolo e in diverse occasioni con esponenti politici e della società civile in Germania.
In particolare con esponenti di Friedrich Ebert Stiftung (FES) e con Max Lucks, presidente del Gruppo di Amicizia Turchia- Germania. Oltre che con diversi deputati, tra cui il portavoce al parlamento tedesco del Partito Socialdemocratico (SPD), Nils Schmid e altri esponenti di SPD.
Infine con alcuni rappresentanti del think tank Science and Policy Foundation (SWP).
Tra gli argomenti di cui si è discusso, i risultati delle recenti elezioni (31 marzo) in Turchia e Bakur (territori curdi sotto amministrazione turca) e le iniziative dell’opposizione per una soluzione politica della questione curda.
Oltre ai possibili sviluppi alle relazioni tra Germania e Turchia (talvolta “sbilanciate” a sfavore dei curdi, v. le recenti estrazioni di dissidenti curdi).
Sempre intervenendo sull’analisi delle recenti elezioni in Turchia, Tülay Hatimoğulları aveva partecipato all' incontro organizzato dalla Fondazione Rosa Luxemburg e da CENÎ Women's Peace Bureau. Altri incontri sono previsti per i prossimi giorni.
Ricordo che il Partito DEM in Turchia rimane costantemente “sotto pressione” (eufemismo).
Pochi giorni fa, nella notte tra l’8 e il 9 maggio (presumibilmente verso le ore 3,30), la sede del Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli nel distretto di Birecik (provincia di Urfa, a prevalenza curda) è stata nuovamente attaccata. Come era già accaduto nella notte precedente e provocando (in entrambi i casi) solo danni materiali. Qui, come in altri distretti a maggioranza curda, il partito islamista al governo (AKP) il 31 marzo aveva subito un’evidente batosta elettorale. Infatti il Partito DEM aveva ottenuto oltre il 54% dei voti mentre l’AKP era rimasto al palo con il 28%.
Altri attacchi simili avevano purtroppo registrato alcune vittime, così come era accaduto con il suo predecessore HDP (Partito democratico dei Popoli). Basti citare l’assassinio di Deniz Poyraz, militante curda assassinata nella sede di HDP di Izmir nel giugno 2021.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Una delegazione del Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli (DEM) rappresentata da Tülay Hatimoğulları, da Ebru Günay (Commissione dei rapporti con l’estero del partito), dal rappresentante europeo Eyyüp Doru e dalla rappresentante tedesca Leyla Imret, ha potuto incontrarsi a vario titolo e in diverse occasioni con esponenti politici e della società civile in Germania.
In particolare con esponenti di Friedrich Ebert Stiftung (FES) e con Max Lucks, presidente del Gruppo di Amicizia Turchia- Germania. Oltre che con diversi deputati, tra cui il portavoce al parlamento tedesco del Partito Socialdemocratico (SPD), Nils Schmid e altri esponenti di SPD.
Infine con alcuni rappresentanti del think tank Science and Policy Foundation (SWP).
Tra gli argomenti di cui si è discusso, i risultati delle recenti elezioni (31 marzo) in Turchia e Bakur (territori curdi sotto amministrazione turca) e le iniziative dell’opposizione per una soluzione politica della questione curda.
Oltre ai possibili sviluppi alle relazioni tra Germania e Turchia (talvolta “sbilanciate” a sfavore dei curdi, v. le recenti estrazioni di dissidenti curdi).
Sempre intervenendo sull’analisi delle recenti elezioni in Turchia, Tülay Hatimoğulları aveva partecipato all' incontro organizzato dalla Fondazione Rosa Luxemburg e da CENÎ Women's Peace Bureau. Altri incontri sono previsti per i prossimi giorni.
Ricordo che il Partito DEM in Turchia rimane costantemente “sotto pressione” (eufemismo).
Pochi giorni fa, nella notte tra l’8 e il 9 maggio (presumibilmente verso le ore 3,30), la sede del Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli nel distretto di Birecik (provincia di Urfa, a prevalenza curda) è stata nuovamente attaccata. Come era già accaduto nella notte precedente e provocando (in entrambi i casi) solo danni materiali. Qui, come in altri distretti a maggioranza curda, il partito islamista al governo (AKP) il 31 marzo aveva subito un’evidente batosta elettorale. Infatti il Partito DEM aveva ottenuto oltre il 54% dei voti mentre l’AKP era rimasto al palo con il 28%.
Altri attacchi simili avevano purtroppo registrato alcune vittime, così come era accaduto con il suo predecessore HDP (Partito democratico dei Popoli). Basti citare l’assassinio di Deniz Poyraz, militante curda assassinata nella sede di HDP di Izmir nel giugno 2021.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 16/5/2024 - 14:06
I NUOVI ACCORDI TRA ANKARA E BAGHDAD SULLA PELLE DEI CURDI
Gianni Sartori
Se il “buon giorno si giudica da mattino” in Iraq stiamo freschi.
Con i recenti accordi intercorsi tra governi turco e iracheno, le truppe di Ankara potrebbero presto entrare anche a Baghdad.
Presentandoli come un passo avanti per la sicurezza (“avanzamento significativo nei rapporti bilaterali”) e contro il terrorismo (un riferimento neanche tanto velato al PKK), i ministri degli Esteri dei due paesi non parlavano certo a vanvera.
Infatti ora gli accordi cominciano a dare i loro frutti.
Le nuove relazioni tra Ankara e Bagdad (il “progetto del percorso di sviluppo” basato sul “Memorandum di accordo”) non sono rimaste a livello di semplici dichiarazioni o di intenti. Si vanno sviluppando soprattutto in ambito militare pianificando l'apertura di vari fronti. In particolare contro il movimento curdo, aprendo la strada all'invio di soldati turchi, già presenti e operativi nel nord dell'Iraq (Kurdistan del Sud, Bashur) anche a Baghdad. Legittimando non solo il dispiegamento di truppe turche in Iraq, ma anche ulteriori evacuazioni forzate delle popolazioni nei villaggi del nord del paese. Per qualche osservatore particolarmente critico si starebbe “legittimando una vera e propria politica di annessione territoriale”.
A rendere di pubblico dominio tali accordi, il ministro degli esteri iracheno, l'esponente del PDK Fuad Hussein. Con cui il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, aveva recentemente emesso un comunicato congiunto esprimendo “profonda preoccupazione per l’aumento della tensione in Medio Oriente, che minaccia l’intera regione”.
Ma si riferivano alla Palestina. Pare proprio che l'aggressiva politica anti-curda di Erdogan, l'escalation degli attacchi (centinaia, sia aerei che di terra) al di fuori dei confini turchi non preoccupi più di tanto i nostri politici.
Già in atto la realizzazione di un Centro congiunto di coordinamento della sicurezza a Bagdad e di un Centro congiunto di addestramento e cooperazione a Bashiqa. Nel nord, dove i turchi erano già insediati, ma ora formalmente affidata a Baghdad (“l’onere ricadrà sulle forze armate irachene”) forse per non esporsi a ulteriori attacchi sciiti.
Appare evidente che è stata avviata una nuova fase di iniziative congiunte - a livello sia diplomatico che militare - sulla questione curda. Con un preciso cambio di prospettiva da parte del governo iracheno che in precedenza aveva definito le operazioni militari turche in territorio iracheno “violazione territoriale e della propria sovranità”. Del resto già in marzo aveva classificato come “organizzazione vietata” il PKK. Andando incontro, ma non completamente, alle richieste di Erdogan che avrebbe voluto venisse definita “terrorista” tout court.
In base poi ad un altro articolo (il 5°) dell'accordo si è stabilito che “le due parti condividano informazioni di intelligence”. Nel complesso si ha l'impressione che si voglia far rientrare (direi forzatamente) nell'ambito del Diritto internazionale sia il trasferimento di soldati turchi (con la realizzazioni di basi militari nel Kurdistan del Sud, all'interno dei confini iracheni), sia l'evacuazione forzata (deportazione?) delle popolazioni (per non parlare delle devastazioni ambientali, dell'uso di armi interdette dalla Convenzione di Ginevra...).
Il ministro degli esteri turco, Hakan Fidan, aveva così commentato: “Attraverso i centri di coordinamento e addestramento congiunti previsti dall’accordo, crediamo di poter portare la nostra cooperazione a un livello superiore. Vogliamo far progredire l’intesa che stiamo sviluppando con l’Iraq sull’antiterrorismo con passi concreti sul campo”.
Alle riunioni delle “operazioni congiunte” avrebbero preso parte, oltre ai rispettivi ministri degli esteri (Hakan Fidan e Fuad Hüseyin), anche funzionari di alto livello dei servizi segreti turchi (il sottosegretario del MIT, Ibrahim Kalın), il ministro degli esteri della regione “autonoma” del Kurdistan (Rêber Ehmed), il ministro iracheno della Difesa (Sabit Abbasi) e alcuni esponenti dei Servizi iracheni (Waqqas Muhammed Hüseyin al-Hadith).
Non si esclude che in futuro Erdogan intenda applicare lo stesso modello (qualora risultasse vincente) anche nel Nord della Siria.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Se il “buon giorno si giudica da mattino” in Iraq stiamo freschi.
Con i recenti accordi intercorsi tra governi turco e iracheno, le truppe di Ankara potrebbero presto entrare anche a Baghdad.
Presentandoli come un passo avanti per la sicurezza (“avanzamento significativo nei rapporti bilaterali”) e contro il terrorismo (un riferimento neanche tanto velato al PKK), i ministri degli Esteri dei due paesi non parlavano certo a vanvera.
Infatti ora gli accordi cominciano a dare i loro frutti.
Le nuove relazioni tra Ankara e Bagdad (il “progetto del percorso di sviluppo” basato sul “Memorandum di accordo”) non sono rimaste a livello di semplici dichiarazioni o di intenti. Si vanno sviluppando soprattutto in ambito militare pianificando l'apertura di vari fronti. In particolare contro il movimento curdo, aprendo la strada all'invio di soldati turchi, già presenti e operativi nel nord dell'Iraq (Kurdistan del Sud, Bashur) anche a Baghdad. Legittimando non solo il dispiegamento di truppe turche in Iraq, ma anche ulteriori evacuazioni forzate delle popolazioni nei villaggi del nord del paese. Per qualche osservatore particolarmente critico si starebbe “legittimando una vera e propria politica di annessione territoriale”.
A rendere di pubblico dominio tali accordi, il ministro degli esteri iracheno, l'esponente del PDK Fuad Hussein. Con cui il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, aveva recentemente emesso un comunicato congiunto esprimendo “profonda preoccupazione per l’aumento della tensione in Medio Oriente, che minaccia l’intera regione”.
Ma si riferivano alla Palestina. Pare proprio che l'aggressiva politica anti-curda di Erdogan, l'escalation degli attacchi (centinaia, sia aerei che di terra) al di fuori dei confini turchi non preoccupi più di tanto i nostri politici.
Già in atto la realizzazione di un Centro congiunto di coordinamento della sicurezza a Bagdad e di un Centro congiunto di addestramento e cooperazione a Bashiqa. Nel nord, dove i turchi erano già insediati, ma ora formalmente affidata a Baghdad (“l’onere ricadrà sulle forze armate irachene”) forse per non esporsi a ulteriori attacchi sciiti.
Appare evidente che è stata avviata una nuova fase di iniziative congiunte - a livello sia diplomatico che militare - sulla questione curda. Con un preciso cambio di prospettiva da parte del governo iracheno che in precedenza aveva definito le operazioni militari turche in territorio iracheno “violazione territoriale e della propria sovranità”. Del resto già in marzo aveva classificato come “organizzazione vietata” il PKK. Andando incontro, ma non completamente, alle richieste di Erdogan che avrebbe voluto venisse definita “terrorista” tout court.
In base poi ad un altro articolo (il 5°) dell'accordo si è stabilito che “le due parti condividano informazioni di intelligence”. Nel complesso si ha l'impressione che si voglia far rientrare (direi forzatamente) nell'ambito del Diritto internazionale sia il trasferimento di soldati turchi (con la realizzazioni di basi militari nel Kurdistan del Sud, all'interno dei confini iracheni), sia l'evacuazione forzata (deportazione?) delle popolazioni (per non parlare delle devastazioni ambientali, dell'uso di armi interdette dalla Convenzione di Ginevra...).
Il ministro degli esteri turco, Hakan Fidan, aveva così commentato: “Attraverso i centri di coordinamento e addestramento congiunti previsti dall’accordo, crediamo di poter portare la nostra cooperazione a un livello superiore. Vogliamo far progredire l’intesa che stiamo sviluppando con l’Iraq sull’antiterrorismo con passi concreti sul campo”.
Alle riunioni delle “operazioni congiunte” avrebbero preso parte, oltre ai rispettivi ministri degli esteri (Hakan Fidan e Fuad Hüseyin), anche funzionari di alto livello dei servizi segreti turchi (il sottosegretario del MIT, Ibrahim Kalın), il ministro degli esteri della regione “autonoma” del Kurdistan (Rêber Ehmed), il ministro iracheno della Difesa (Sabit Abbasi) e alcuni esponenti dei Servizi iracheni (Waqqas Muhammed Hüseyin al-Hadith).
Non si esclude che in futuro Erdogan intenda applicare lo stesso modello (qualora risultasse vincente) anche nel Nord della Siria.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 22/8/2024 - 10:22
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Lyrics and music by David Rovics
Testo e musica di David Rovics
From/Da "Hang A Flag In The Window"
David Rovics' Official Website
"I wrote this after watching a documentary of the same name. There may not be a more glaring example of the contradictions in US foreign policy than our policy towards the Kurdish nation." -David Rovics.