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Pro Patria

Ascanio Celestini
Lingua: Italiano


Ascanio Celestini

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[2012]
Libro e spettacolo di Ascanio Celestini
propatria



Uno dei brani più significativi del libro, e dell'omonimo spettacolo.
spettacolo
Cittadini!
Il reato è una colpa. Chi lo compie si chiama colpevole e chi ruba una mela finisce in galera, anche se molti pensano che rubare una mela è un reato da poco. Anzi, c’è chi pensa che non è nemmeno un reato. E chi ruba due mele? Chi ne ruba tre? Dieci? Cento? Mille? Quand’è che il furto della mela diventa un reato? C’è un limite? Si tratta di tonnellate o di metri cubi? C’entra qualcosa con la qualità della mela? La mela cotogna è un’aggravante rispetto all’annurca campana? No, cittadini. La legge è uguale per tutti e i giudici non perdono tempo a contare le mele. Davanti al tribunale c’è la statua della giustizia. Ha una bilancia in mano, ma entrambi i piatti sono vuoti. Non è una bilancia per pesare la frutta.
Eppure, cittadini, molti di voi leggeranno un’oggettiva sproporzione tra l’idea di reato e il furto di una misera mela. Allora io vi pongo il quesito in forma diversa. Avere fame è un reato? Certamente no. Perciò in una società nella quale vi fossero mele per tutti, chi ruba una mela lo farebbe per accumulare mele e affamerebbe i poveri derubati. E io sono sicuro che affamare la gente è un reato. Ma in questa società solo una parte dei cittadini possiede la mela, mentre il resto ha solo la fame. Perciò vi dico che in questa società è un reato possedere la mela. E chi ruba la mela compie un atto di giustizia.
Eppure, cittadini, la legge non accetterà mai questa logica. Perché se io rubo una mela, lo stato mi può giudicare, mentre se ho fame, non è piú lo stato che giudica me, ma sono io che giudico lo stato. E lo giudico colpevole di farmi morire di fame o di spingermi a rubare la mela. Perciò lo stato farà il possibile e l’impossibile per nascondere la mia fame e portarmi in tribunale come ladro.
Lo stato giudica per non essere giudicato.
Cittadini!
Perciò non voglio essere giudicato dallo stato. Non voglio essere processato e dunque non voglio l’avvocato. La difesa è un diritto, non è mica un dovere. Mettetemi in galera, ma non voglio il processo.
L’avvocato d’ufficio me l’avete già mandato. M’avete detto che è una prassi e io l’ho incontrato. Dice che ha letto la deposizione e che ho parlato troppo. M’ha detto: «Non è soltanto per quello che hai fatto, ma per le dichiarazioni che hai reso. Il crimine è soprattutto in quello che vai dicendo. Per fortuna che parli in maniera talmente esaltata e sconclusionata che hanno pensato di trovarsi davanti a un matto. Magari riusciamo a farti attribuire la seminfermità».
Che significa? Che sono mezzo matto? E cos’è un mezzo matto? I matti sono quelli che si pensano di essere Napoleone. E i mezzi matti? Che dicono? Io sono Napoleone, ma non proprio lui, quello famoso. Io sono un altro. Io sono mezzo matto, sono Pasquale Napoleone.
No, signor giudice. Io mi rifiuto di farmi giudicare e me ne vado in galera. Sa come dice il dottor Cardullo, quello che fa il direttore del supercarcere e lo chiamano l’imperatore dell’Asinara? I terroristi vogliono colpire lo stato al cuore: il carcere è il cuore dello stato, dice cosí. E ha ragione. Signor giudice, il carcere è il cuore dello stato. In carcere lo stato si dimostra per quello che è veramente, cioè un carceriere.
Dunque me ne vado in galera. E sappia che la reclusione è un’opportunità per il rivoluzionario. Come la fabbrica per i compagni operai, come la terra per i compagni contadini, come la scuola per i compagni studenti.
Colpire il carcere significa colpire lo stato al cuore. Cambiare il carcere è il passo piú importante verso un cambiamento radicale della società. Come cittadino di questa città carceraria posso lottare per i diritti piú elementari. Lo sa, signor giudice, che nella cella del penitenziario che mi ospita posso avere solo dodici fotografie? Chi l’ha deciso questo numero? E da cosa dipende? Sono dodici come gli apostoli? E perché non trentatre come i trentini o sette come i nani? Se mia madre mi porta la foto del matrimonio di mio cugino, le devo ridare indietro quella di mio nipote che ha fatto la cresima. Giochiamo alle figurine.
Signor giudice, mi svegliano alle sette con la battitura, alle otto passa la colazione, mentre la cena è alle cinque del pomeriggio. Per mangiare di nuovo devo aspettare venti ore. Oppure devo fare la domandina allo spesino e accedere al sopravvitto, ma per quello si deve pagare. E quale carcerato può permettersi di fare la spesa tutti i giorni? C’è gente che passa le due ore d’aria giornaliere a elemosinare monetine e gli bastano solo per fare una telefonata a settimana, perché chiamano in Africa o in Cina. E lo sa perché, signor giudice? Perché quaranta detenuti su cento sono immigrati. Detenuti che hanno commesso reati piccoli e piccolissimi. Perché ottanta immigrati regolari su cento sono stati irregolari e dunque in questo paese per un immigrato essere irregolare è la norma, perciò diventa normale che finisca in galera. A questi bisogna aggiungere altri trenta detenuti su cento che sono tossici. Capisce? Settanta detenuti ogni cento hanno rubato la mela soltanto per fame. E considerando la totalità degli ospiti nelle nostre prigioni, soltanto uno su due è stato condannato in via definitiva, perché quell’altra metà sconta una pena senza aver ricevuto una condanna.
Ma questi sono numeri, vero signor giudice? Allora voglio raccontarle la storia di un detenuto qualunque che, pur essendo condannato in via definitiva, non può avere rapporti sessuali. Ma dove l’avete scritta questa legge? Nessuno m’ha detto ti condanno all’ergastolo e alla masturbazione!
[...]
Signor giudice, la gente qua dentro muore anche per questo. Dopo anni che ti ammazzi di pippe trovi piú serio infilare la testa in un sacchetto e aprire la bomboletta del gas.
Allora il giudice m’ha detto: «Conosciamo tutti queste contraddizioni del sistema carcerario, ma ciò che non accetto è che in un’aula di tribunale si debbano ascoltare tali dichiarazioni di odio nei confronti dello stato e delle sue istituzioni».
Gli ho risposto: «Io non odio. Io lotto». Che sono due secoli che lottiamo. Che la nostra rivoluzione è la storia di tre risorgimenti. Il primo è il risorgimento repubblicano di Mazzini, Felice Orsini, Carlo Pisacane, dei fratelli Bandiera e ancor prima di Ciro Menotti. Quel primo risorgimento, quello repubblicano, rivoluzionario, se non anarchico. Un risorgimento sconfitto ma vero. Il secondo è la lotta partigiana, che per alcuni fu guerra di liberazione nazionale, per altri fu solo guerra civile, ma per altri ancora fu lotta di classe. Una lotta sconfitta, ma profonda e sentita. Il terzo è il nostro.
E questi tre risorgimenti hanno due caratteristiche in comune. La prima è che si tratta di rivoluzioni combattute dai figli e tradite dai padri. Anche da quei padri che erano stati figli rivoluzionari. La seconda consiste nel fatto che tutt’e tre sono storie di galera e lotta armata. Non di bandiere e monumenti di bronzo, ma di galera e lotta armata. Cosí gli ho detto.
Ma il giudice s’è messo a strillare. Diceva: «Questi terroristi vogliono darci lezioni di sociologia e di politica e adesso si mettono a dare anche lezioni di Storia? In queste aule di tribunale finiremo per parlare di chimica e geografia».
M’ha detto: «Pentiti, pentiti, che ti costa? Pentiti, tanto ormai siete stati sconfitti. Pentiti che lo stato ti tende una mano».
E io gli ho detto: «Giudice, lo so che lo stato mi tende una mano. E in quella mano c’è la libertà, ma in quell’altra mano cosa tiene? Lo stato mi dice La vuoi la carota? È buona la carota. Ma in verità mi sta dicendo Ti piace il bastone? Perché se non vuoi il bastone, devi prendere la carota. Lo so che con la carota si esce, ma se lo stato è bastonatore, io pretendo le bastonate. Io mi pento, signor giudice. Mi pento se si pente anche lei».
Ai giudici bisognerebbe imporre un anno di galera come tirocinio. Tanto per capire com’è fatta la merce che vendono. S’è mai visto un macellaio vegetariano? E allora che vadano ad assaggiare il sapore della galera prima di darla in pasto ai condannati.
«Io mi pento se si pente anche lei, signor giudice. Non deve fare nomi, deve solo pentirsi. Si pente di credere in una giustizia fondata sulla galera? Si pente di credere in questa macabra istituzione? Si pente di gestire il monopolio statale della violenza? Si pente di avere la legge dalla parte del manico? Io mi pento se si pente anche lei. Io depongo le armi, se lei depone la legge».
[...]
Cittadini!
In quest’aula di tribunale io mi rifiuto di farmi giudicare perché è l’unica opportunità che ho per giudicare lo stato e i cittadini complici dello stato. Vi giudico colpevoli non solo di credere ancora fermamente in questa istituzione criminale che si chiama carcere. Voi siete colpevoli di voler trasformare la nostra patria in un grande tribunale e di fondare tutta la vostra giustizia sulla tortura della detenzione. Ma voi siete colpevoli non soltanto di chiudere la gente in galera. Voi siete colpevoli perché state fuori. Siete colpevoli perché siete liberi.
Questi filosofi del catenaccio vogliono liberare la società, ma vogliono farlo liberandola dalla libertà e sostituirla con il premio. Il loro intento è di carcerarci tutti per poterci scarcerare tutti e presentarci la libertà come un regalo, un premio, una concessione, non come un diritto. Ma io me ne vado in galera perché il dentro è come il fuori e il fuori è come il dentro. Il dentro è solo un fuori piú piccolo. È un fuori con i muri attorno.

inviata da daniela -k.d.- - 26/12/2012 - 23:26




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