A Casarsa nell’anno 1499. Dentro il portico della casa dei Colus, con il carro ed altri altrezzi per terra. [La preghiera è intonata da Pauli Colus]
Crist pietàt dal nustri pais.
No par fani pì siors di chel ch'i sin
No par dani ploja
No par dani soreli.
Patì çalt e freit e dutis li tempiestis dal seil al è il nustri distìn. Lu savìn.
Quantis mai voltis ta chista nustra Glisiuta di Santa Cròus i vin ciantàt li litanis, parsè che Tu ti vedis pietàt da la nustra çera!
Vuei i si 'necuarzìn di vèj preàt par nuja:
vuei i si 'necuarzìn qe tu ti sos massa pì in alt da la nustra ploja e dal nustri soreli e dai nustris afàns.
Vuei a è la muart c’a ni speta cà intor.
Cà intor, Crist, dulà q'i sin stas tant vifs da crodi di stà vifs in eterno e qu in eterno Tu ti ves di daighi ploja ai nustris çamps, e salut ai nustris puors cuarps.
Ma di-n-dulà vènia qe muart?
Cui àia clamàt qì zent di un altri mont a puartani la fin da la nustra puora vita, sensa pretesis, sensa ideài, sensa 'na gota di ambisiòn?
Ucà, a si stava, Crist, cu 'l nustri çar, cu la nustra sapa, cu 'l nustri colt, cu la nustra Glisiuta...
Esia pussibul che dut qistu al vedi di finì?
Se miracul èsia, qistu, Signour, che Tu ti vedis di vivi ençamò, quant che dut cà intor, che adès al è vif, coma che s'al ves di stà vif par sempri, al sarà distrut, sparìt, dismintiàt?
[Al si met in zenoglòn]
E tu Verzin Beada?
Sint se bon odour q'al sofla dal nustri paìs...
Odour di fen e di erbis bagnadis;
odour di fogolars;
odour ch'i sintivi di fantassìn tornant dal çamp.
Tu, almancul, Tu, q'i ti vedis pietàt di nu, q'i ti fermis il Turc
Crist pietàt dal nustri pais.
No par fani pì siors di chel ch'i sin
No par dani ploja
No par dani soreli.
Patì çalt e freit e dutis li tempiestis dal seil al è il nustri distìn. Lu savìn.
Quantis mai voltis ta chista nustra Glisiuta di Santa Cròus i vin ciantàt li litanis, parsè che Tu ti vedis pietàt da la nustra çera!
Vuei i si 'necuarzìn di vèj preàt par nuja:
vuei i si 'necuarzìn qe tu ti sos massa pì in alt da la nustra ploja e dal nustri soreli e dai nustris afàns.
Vuei a è la muart c’a ni speta cà intor.
Cà intor, Crist, dulà q'i sin stas tant vifs da crodi di stà vifs in eterno e qu in eterno Tu ti ves di daighi ploja ai nustris çamps, e salut ai nustris puors cuarps.
Ma di-n-dulà vènia qe muart?
Cui àia clamàt qì zent di un altri mont a puartani la fin da la nustra puora vita, sensa pretesis, sensa ideài, sensa 'na gota di ambisiòn?
Ucà, a si stava, Crist, cu 'l nustri çar, cu la nustra sapa, cu 'l nustri colt, cu la nustra Glisiuta...
Esia pussibul che dut qistu al vedi di finì?
Se miracul èsia, qistu, Signour, che Tu ti vedis di vivi ençamò, quant che dut cà intor, che adès al è vif, coma che s'al ves di stà vif par sempri, al sarà distrut, sparìt, dismintiàt?
[Al si met in zenoglòn]
E tu Verzin Beada?
Sint se bon odour q'al sofla dal nustri paìs...
Odour di fen e di erbis bagnadis;
odour di fogolars;
odour ch'i sintivi di fantassìn tornant dal çamp.
Tu, almancul, Tu, q'i ti vedis pietàt di nu, q'i ti fermis il Turc
inviata da Dead End - 11/11/2012 - 14:42
Lingua: Italiano
Traduzione italiana di Luigi Ciceri dalla prima edizione del 1976.
PREGHIERA (CRISTO, PIETÀ DEL NOSTRO PAESE)
Cristo, pietà del nostro paese.
Non per farci più ricchi di quello che siamo.
Non per darci pioggia.
Non per darci sole.
Patire caldo e freddo e tutte le tempeste del cielo, è il nostro destino, Lo sappiamo.
Quante volte in questa nostra Chiesetta di Santa Croce abbiamo cantato le litanìe, perché Tu avessi pietà della nostra terra!
Oggi ci accorgiamo di aver pregato per niente;
oggi ci accorgiamo che Tu sei troppo più in alto della nostra pioggia e del nostro sole e dei nostri affanni.
Oggi è la morte che ci aspetta qua attorno.
Qua attorno, Cristo, dove siamo stati tanto vivi da credere di vivere in eterno e che in eterno Tu dovessi dare pioggia ai nostri campi, e salute ai nostri poveri corpi.
Ma da dove viene quella morte?
Chi ha chiamato qui gente di un altro mondo a portarci la fine della nostra povera vita senza pretese, senza ideali, senza una goccia d'ambizione?
Qui, si stava, Cristo, con il nostro carro, con la nostra zappa, con il nostro concime, con la nostra Chiesetta...
È possibile che tutto questo debba finire?
Che miracolo è, questo, Signore, che Tu debba vivere ancora, quando tutto qua attorno, che
adesso è vivo, come se dovesse rimanere vivo per sempre, sarà distrutto, sparito, dimenticato?
[Si mette in ginocchio]
E Tu Vergine Beata?
Senti che buon odore che soffia dal nostro paese;
odore di fieno e di erbe bagnate,
odore di focolari,
odore che io sentivo da ragazzo tornando dal campo.
Tu, che almeno Tu abbia pietà di noi, che Tu fermi il Turco!
Cristo, pietà del nostro paese.
Non per farci più ricchi di quello che siamo.
Non per darci pioggia.
Non per darci sole.
Patire caldo e freddo e tutte le tempeste del cielo, è il nostro destino, Lo sappiamo.
Quante volte in questa nostra Chiesetta di Santa Croce abbiamo cantato le litanìe, perché Tu avessi pietà della nostra terra!
Oggi ci accorgiamo di aver pregato per niente;
oggi ci accorgiamo che Tu sei troppo più in alto della nostra pioggia e del nostro sole e dei nostri affanni.
Oggi è la morte che ci aspetta qua attorno.
Qua attorno, Cristo, dove siamo stati tanto vivi da credere di vivere in eterno e che in eterno Tu dovessi dare pioggia ai nostri campi, e salute ai nostri poveri corpi.
Ma da dove viene quella morte?
Chi ha chiamato qui gente di un altro mondo a portarci la fine della nostra povera vita senza pretese, senza ideali, senza una goccia d'ambizione?
Qui, si stava, Cristo, con il nostro carro, con la nostra zappa, con il nostro concime, con la nostra Chiesetta...
È possibile che tutto questo debba finire?
Che miracolo è, questo, Signore, che Tu debba vivere ancora, quando tutto qua attorno, che
adesso è vivo, come se dovesse rimanere vivo per sempre, sarà distrutto, sparito, dimenticato?
[Si mette in ginocchio]
E Tu Vergine Beata?
Senti che buon odore che soffia dal nostro paese;
odore di fieno e di erbe bagnate,
odore di focolari,
odore che io sentivo da ragazzo tornando dal campo.
Tu, che almeno Tu abbia pietà di noi, che Tu fermi il Turco!
inviata da Dead End - 11/11/2012 - 14:43
All’interno della chiesa di Santa Croce si trova una lapide votiva che ricorda l’invasione dei Turchi del 1499. La lapide non appartiene a questo luogo sacro della comunità casarsese, ma è stata trasferita qui nell’anno 1880 e proviene dalla piccola chiesa della Beata Vergine delle Grazie, che venne portata a compimento con pitture e decorazioni nel 1529, quando la comunità di Casarsa, in segno di ringraziamento per essere stata risparmiata dalle invasioni turche, adempie a quanto la lapide esprime.
«1499 ADI30 7BRE NEL SOPRAD. MILESIMO FURONO LI TURCHI IN FRIULI ET PASORONO PER DESOPRA LA VILA ET NOI MATIA DE MONTICO ET ZUANE COLUSO FESIMO AVODO DE FAR QUESTA SANTA CHIESA SE LORO NON NE DAVANO DANO ET PER LA GRATIA DELA NOSTRA DONNA FUSSIMO ESAUDITI ET NOI CON LO COMUN FESSIMO LA PRES ENTE CHIESA NOI CAMERATI BASTI AN DE JACUZ ET ZUAN DE STEFANO GAMBILIN FESSIMO DIPINZER DEL 1529 ADI 7 SETEMBRE»
A questa lapide votiva è ispirato il dramma teatrale I Turcs tal Friûl, un atto unico in friulano scritto da Pasolini durante il corso drammatico della guerra. Questo cammeo drammaturgico è riemerso postumo nel 1976, ma fu composto a Casarsa, nei primi incunaboli forse già dal maggio 1944. Il testo, col suo andamento da “mistero”, tra tragedia greca e sacra rappresentazione, si situa al crocevia di tante e diverse sollecitazioni: la mitologia favolosa dei racconti di casa Colussi, elargiti da Susanna Colussi, madre di Pier Paolo; il fatto storicamente documentato della reale ondata aggressiva dei Turchi che lambirono il Friuli nel 1499, sfiorando e risparmiando il paese di Casarsa; la ferocia contemporanea della seconda guerra mondiale, che in quel 1944 trasformò Casarsa in luogo di pericolo e di allarme, con invasioni naziste, azioni partigiane, bombardamenti anglo-americani che miravano al ponte e alla ferrovia sul Tagliamento.
Sono fonti e fatti diversi, dunque, di cui però nei Turcs non resta traccia documentaria o cronachistica, perché gli spunti valgono solo per sprigionare il senso metaforico di una vicenda archetipica, scandita dal ritmo ternario di dolore, morte e rinascita. Ed ecco che, in questa drammaturgia della minaccia, si accampa l’affresco di una piccola comunità popolare, alla periferia appartata del mondo, che la Storia costringe a confrontarsi con il presagio della violenza, l’ostilità dell’”altro”, la paura. E ancora, di fronte al pericolo incombente della fine, ecco che il coro di paese discute ed elabora al suo interno il diagramma delle possibili reazioni di autodifesa: da un lato, la rassegnazione, di fronte al mistero del destino e al volere imperscrutabile del cielo; dall’altro, lo scatto combattivo, attivo e vitale, anche con aspetti di grido di contestazione. Sugli uomini che dibattono e si dividono in opposte fazioni, sorvegliano le donne, unite da una comune complicità di vestali e soprattutto dall’essere madri, emblemi di Mater Dolorosa, che conoscono il dolore, ne patiscono gli effetti in silenzio e, all’affanno maschile, offrono il viatico straziato della pietà affettuosa. In scala ideale, sono madri di crescente potenza consolatrice: Lussia, con la sua dolcissima fragilità; Anuta Perlina, con la saggezza disincantata di chi ha già patito il pianto; la Vergine invocata, con la sua protezione superiore e ineffabile. Ma, a stornare davvero la minaccia del Turco, giovane e selvaggio, non serve altro mezzo che la morte.
E la morte, dunque, si porta via Meni, il giovane che ha scelto di reagire all’impotenza fatalista degli altri, come un Cristo, un capro espiatorio o un eroe tragico di tragedia antica che, con il suo sacrificio, sa ricomporre misteriosamente la ferita, riconsentire la rinascita e favorire la catarsi collettiva. Nel suo cuore segreto, questa limpida parabola sul destino degli uomini, colto alla radice di una essenziale verità, tesse di fatto una riflessione sulla morte che rigenera la vita e si organizza come un’educazione ad essa, pedaggio implacabile e ineliminabile che ci fa uscire dall’Eden e ci immette nella fatica della Storia. Soffia il vento, infine, sul piccolo microcosmo paesano miracolato e riacciuffato dal pericolo del buio. E intanto nel rito del testo, sacro e pagano insieme, in cui il giovane Pasolini ha dotato quel mondo di parola scritta, esce il dono dei sentimenti e delle idee universali che sorreggono il mistero del vivere: l’amore, la paura, la pietà materna, il dilemma tra fede e ragione e tra preghiera e protesta, l’utopia della salvezza.
(Dal sito del Centro studi «Pier Paolo Pasolini» di Casarsa della Delizia)
«1499 ADI30 7BRE NEL SOPRAD. MILESIMO FURONO LI TURCHI IN FRIULI ET PASORONO PER DESOPRA LA VILA ET NOI MATIA DE MONTICO ET ZUANE COLUSO FESIMO AVODO DE FAR QUESTA SANTA CHIESA SE LORO NON NE DAVANO DANO ET PER LA GRATIA DELA NOSTRA DONNA FUSSIMO ESAUDITI ET NOI CON LO COMUN FESSIMO LA PRES ENTE CHIESA NOI CAMERATI BASTI AN DE JACUZ ET ZUAN DE STEFANO GAMBILIN FESSIMO DIPINZER DEL 1529 ADI 7 SETEMBRE»
A questa lapide votiva è ispirato il dramma teatrale I Turcs tal Friûl, un atto unico in friulano scritto da Pasolini durante il corso drammatico della guerra. Questo cammeo drammaturgico è riemerso postumo nel 1976, ma fu composto a Casarsa, nei primi incunaboli forse già dal maggio 1944. Il testo, col suo andamento da “mistero”, tra tragedia greca e sacra rappresentazione, si situa al crocevia di tante e diverse sollecitazioni: la mitologia favolosa dei racconti di casa Colussi, elargiti da Susanna Colussi, madre di Pier Paolo; il fatto storicamente documentato della reale ondata aggressiva dei Turchi che lambirono il Friuli nel 1499, sfiorando e risparmiando il paese di Casarsa; la ferocia contemporanea della seconda guerra mondiale, che in quel 1944 trasformò Casarsa in luogo di pericolo e di allarme, con invasioni naziste, azioni partigiane, bombardamenti anglo-americani che miravano al ponte e alla ferrovia sul Tagliamento.
Sono fonti e fatti diversi, dunque, di cui però nei Turcs non resta traccia documentaria o cronachistica, perché gli spunti valgono solo per sprigionare il senso metaforico di una vicenda archetipica, scandita dal ritmo ternario di dolore, morte e rinascita. Ed ecco che, in questa drammaturgia della minaccia, si accampa l’affresco di una piccola comunità popolare, alla periferia appartata del mondo, che la Storia costringe a confrontarsi con il presagio della violenza, l’ostilità dell’”altro”, la paura. E ancora, di fronte al pericolo incombente della fine, ecco che il coro di paese discute ed elabora al suo interno il diagramma delle possibili reazioni di autodifesa: da un lato, la rassegnazione, di fronte al mistero del destino e al volere imperscrutabile del cielo; dall’altro, lo scatto combattivo, attivo e vitale, anche con aspetti di grido di contestazione. Sugli uomini che dibattono e si dividono in opposte fazioni, sorvegliano le donne, unite da una comune complicità di vestali e soprattutto dall’essere madri, emblemi di Mater Dolorosa, che conoscono il dolore, ne patiscono gli effetti in silenzio e, all’affanno maschile, offrono il viatico straziato della pietà affettuosa. In scala ideale, sono madri di crescente potenza consolatrice: Lussia, con la sua dolcissima fragilità; Anuta Perlina, con la saggezza disincantata di chi ha già patito il pianto; la Vergine invocata, con la sua protezione superiore e ineffabile. Ma, a stornare davvero la minaccia del Turco, giovane e selvaggio, non serve altro mezzo che la morte.
E la morte, dunque, si porta via Meni, il giovane che ha scelto di reagire all’impotenza fatalista degli altri, come un Cristo, un capro espiatorio o un eroe tragico di tragedia antica che, con il suo sacrificio, sa ricomporre misteriosamente la ferita, riconsentire la rinascita e favorire la catarsi collettiva. Nel suo cuore segreto, questa limpida parabola sul destino degli uomini, colto alla radice di una essenziale verità, tesse di fatto una riflessione sulla morte che rigenera la vita e si organizza come un’educazione ad essa, pedaggio implacabile e ineliminabile che ci fa uscire dall’Eden e ci immette nella fatica della Storia. Soffia il vento, infine, sul piccolo microcosmo paesano miracolato e riacciuffato dal pericolo del buio. E intanto nel rito del testo, sacro e pagano insieme, in cui il giovane Pasolini ha dotato quel mondo di parola scritta, esce il dono dei sentimenti e delle idee universali che sorreggono il mistero del vivere: l’amore, la paura, la pietà materna, il dilemma tra fede e ragione e tra preghiera e protesta, l’utopia della salvezza.
(Dal sito del Centro studi «Pier Paolo Pasolini» di Casarsa della Delizia)
Dead End - 11/11/2012 - 14:48
Lingua: Friulano
La versione di Luigi Maieron
CRIST PIETAT
Crist pietat dal nustri pais no par fani pì siors di chel ch'i sin
no par dani ploja no par dani soreli.
Patì cjalt e freit e dutis li tempiestis dal seil al è il nustri distìn.
Vin ciantat li litanis parsè che Tu ti vedis pietat da la nustra ciera.
Crist pietat dal nustri pais no par fani pì siors di chel ch'i sin
no par dani ploja no par dani soreli.
Vuei i si'necuarzìn di vèj preàt par nuja, tu ti sos massa pì in alt da la nustra ploja, dal nustri soreli, dai nustris afàns
Crist dulà ch'i sin stas tant vifs da crodi di stà vifs in eterno e che in eterno Tu ti ves di daighi ploja ai nuestris ciamps
cui àia clamat chi zent di un altri mont a puartanu la fin da la nustra vita, vita sensa pretesis, sensa ideai, sensa una gota di ambition
Crist dulà ch'i sin stas tant vifs da crodi di stà vifs in eterno
e che in eterno Tu ti ves di daighi ploja ai nuestris ciamps
Sint se bon odor ch'al sofla dal nustri pais
odor di fen e di erbis odor di fogolar
odor ch'i sintivi di fantassin tornant dal ciamp
Crist pietat dal nustri pais no par fani pi siors di chel chi sin
tu almancul tu ch'i ti vedis pietat ch'i ti fermis il Turc
Crist pietat dal nustri pais no par fani pì siors di chel ch'i sin
no par dani ploja no par dani soreli.
Patì cjalt e freit e dutis li tempiestis dal seil al è il nustri distìn.
Vin ciantat li litanis parsè che Tu ti vedis pietat da la nustra ciera.
Crist pietat dal nustri pais no par fani pì siors di chel ch'i sin
no par dani ploja no par dani soreli.
Vuei i si'necuarzìn di vèj preàt par nuja, tu ti sos massa pì in alt da la nustra ploja, dal nustri soreli, dai nustris afàns
Crist dulà ch'i sin stas tant vifs da crodi di stà vifs in eterno e che in eterno Tu ti ves di daighi ploja ai nuestris ciamps
cui àia clamat chi zent di un altri mont a puartanu la fin da la nustra vita, vita sensa pretesis, sensa ideai, sensa una gota di ambition
Crist dulà ch'i sin stas tant vifs da crodi di stà vifs in eterno
e che in eterno Tu ti ves di daighi ploja ai nuestris ciamps
Sint se bon odor ch'al sofla dal nustri pais
odor di fen e di erbis odor di fogolar
odor ch'i sintivi di fantassin tornant dal ciamp
Crist pietat dal nustri pais no par fani pi siors di chel chi sin
tu almancul tu ch'i ti vedis pietat ch'i ti fermis il Turc
inviata da Dead End - 11/11/2012 - 16:15
Lingua: Italiano (Piemontese langarolo)
Traduzione in lingua di Mombarcaro, paese situato nell’Alta Langa, sud Piemonte, provincia di Cuneo, di un brano tratto dall’incipit dell’opera teatrale “I Turcs tal Friûl” (I Turchi in Friuli) di Rino Giachino, da Margutte
Trascrizione in grafia standard piemontese (Pacotto/Viglongo o Grafia dei Brandé) di Nicola Duberti
Oratsion
Trascrizione in grafia standard piemontese (Pacotto/Viglongo o Grafia dei Brandé) di Nicola Duberti
Oratsion
ORATSION
Nòst Ësgnó, pietò pëř ëř nòstr paìs.
Naint pëř fene ciù rich ëd lò ch’e soma.
Naint pëř dene la cieuvia. Naint pëř dene o so.
Patì còd, fřagg e tute ëř tampeste dëř cel o ř’é o nostř dëstén.
Řo soma.
Quante mai vòte ent řa nòstřa Gesiëtta ëd Santa Cřos i oma cantò ëř lòdi, përché té ti àissi pietò dřa nòstřa tèra.
Encheù capioma d’avaj přegò për niente.
Encheù capioma che té t’é tròp ciù òt dřa nòstřa cieuvia, do nòstr so e di nòs-cc afänn.
Encheù a ř’é la mòrt ch’a në speta tsé entorna.
Tsé entorna, Nòst Ësgnó, and’e soma stò tant viv da chërzi ëd restè viv en eterno,
e che en eterno té ët dovòvi dé cieuvia ai nòstř camp e salute ai nòstr còrp.
Ma da landi a ven sa mòrt?
Chi o i hä ciamò se giaint d’in òtr mònd a portene řa fén dřa nòstřa pòvřa vita, santsa përtaise, santsa ideòl, santsa na stitsa d’ambitsion?
Tsé, tsé stòva, Nòst Ësgnó, còn ëř nòstr chèr,
còn řa nòstra sapa, còn řa nòstr concim, còn řa nòstra gesiëtta…
O ř’élo poscìbil che tut lò o dòva finì?
Che miròcol o ř’élo s-lè, Nòst Ësgnó,
che té ‘t dòvi vivi encó, quandi tut tsé entorna, che adess vivo come dovàisso vivi për saimpre, sarà dësfacc, sparì, desmantiò?
E Té, Vérgine Beata, saint che bon odó che es saint dař nòstr paìs.
Odó ëd fagn e d’erba bagnò, odó ëd feu visch, odó ch’e saintiva da masnò tornandi dai camp.
Té, armeno té, che ti hò pietò ëd niòcc, che ‘t fermi ëř Turch.
Nòst Ësgnó, pietò pëř ëř nòstr paìs.
Naint pëř fene ciù rich ëd lò ch’e soma.
Naint pëř dene la cieuvia. Naint pëř dene o so.
Patì còd, fřagg e tute ëř tampeste dëř cel o ř’é o nostř dëstén.
Řo soma.
Quante mai vòte ent řa nòstřa Gesiëtta ëd Santa Cřos i oma cantò ëř lòdi, përché té ti àissi pietò dřa nòstřa tèra.
Encheù capioma d’avaj přegò për niente.
Encheù capioma che té t’é tròp ciù òt dřa nòstřa cieuvia, do nòstr so e di nòs-cc afänn.
Encheù a ř’é la mòrt ch’a në speta tsé entorna.
Tsé entorna, Nòst Ësgnó, and’e soma stò tant viv da chërzi ëd restè viv en eterno,
e che en eterno té ët dovòvi dé cieuvia ai nòstř camp e salute ai nòstr còrp.
Ma da landi a ven sa mòrt?
Chi o i hä ciamò se giaint d’in òtr mònd a portene řa fén dřa nòstřa pòvřa vita, santsa përtaise, santsa ideòl, santsa na stitsa d’ambitsion?
Tsé, tsé stòva, Nòst Ësgnó, còn ëř nòstr chèr,
còn řa nòstra sapa, còn řa nòstr concim, còn řa nòstra gesiëtta…
O ř’élo poscìbil che tut lò o dòva finì?
Che miròcol o ř’élo s-lè, Nòst Ësgnó,
che té ‘t dòvi vivi encó, quandi tut tsé entorna, che adess vivo come dovàisso vivi për saimpre, sarà dësfacc, sparì, desmantiò?
E Té, Vérgine Beata, saint che bon odó che es saint dař nòstr paìs.
Odó ëd fagn e d’erba bagnò, odó ëd feu visch, odó ch’e saintiva da masnò tornandi dai camp.
Té, armeno té, che ti hò pietò ëd niòcc, che ‘t fermi ëř Turch.
inviata da DonQuijote82 - 25/6/2016 - 17:20
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Parole di Pier Paolo Pasolini, dall’incipit dell’opera teatrale «I Turcs tal Friûl» («I Turchi in Friuli»)
Musica composta da Luigi Nono nel 1976, per coro femminile (3 soprani, 3 contralti) e coro maschile (tenori, bassi) con timpani e percussioni (campane, gran cassa, piatti sospesi)
La prima dell’opera andò in scena nel novembre del 1976 nella chiesa di San Lorenzo a Venezia con il coro del teatro la Fenice, un anno esatto dopo l’assassinio di Pasolini ad Ostia.
La partitura andò perduta nel 1996 nel corso del’incendio doloso che devastò il teatro la Fenice. Fu ricostruita nel 2000 a cura di Daniele Zanettovich
Interpretata anche da 'Zuf de Žur, Giovanna Marini e da Luigi Maieron
Ma c’è dell’altro, di molto più intimo.
E’ proprio in quei mesi che il fratello più giovane di Pasolini, Guido, entrò nella Resistenza in Carnia, mentre Pier Paolo decise di no, decise che non faceva per lui e di restare con la famiglia che nel frattempo aveva lasciato Casarsa e si era stabilita a Versuta, nei dintorni, dove Pasolini e la madre Susanna cominciarono a fare gratuitamente scuola ai bambini del paese. E Guido, combattente nella Brigata partigiana Osoppo con il nome di battaglia di Ermes, morirà a Porzûs il 7 febbraio del 1945, massacrato insieme ai suoi compagni da altri partigiani, quelli comunisti di Mario Toffanin detto «Giacca», per ordine del PCI di Udine, i cui dirigenti erano erroneamente convinti che gli osoviani fossero dei traditori perchè rifiutavano l’ordine di mettersi ai comandi dell’Esercito di Tito (trascuro però qui di soffermarmi sul controverso episodio nel quale c’entra anche la guerra - non solo fredda - che comunisti e non comunisti si combatterono fin da prima della fine del conflitto).
Certo, Pasolini non poteva allora immaginare del destino del fratello ma in «I Turcs tal Friûl» Pier Paolo è il protagonista Pauli, che rifiuta l’azione isolandosi nella preghiera con i vecchi del paese, mentre Guido è Meni, che a differenza del fratello Pauli decide di andare a combattere l’invasore e muore eroicamente in battaglia.
C’è quindi forse, anche nella dolorosa prefigurazione poetica, tutto il senso di colpa di Pasolini per non aver avuto il coraggio o l’intenzione di partecipare alla Resistenza.
Non mi è chiaro perchè subito dopo la guerra Pasolini abbia aderito al Partito comunista, il mandante dell’assassinio di suo fratello ed il sostenitore delle calunnie nei confronti dei partigiani dell’Osoppo... Fatto sta che «I Turcs tal Friûl» rimase in un cassetto dal quale riemerse solo una trentina d’anni più tardi, subito dopo la tragica morte di Pasolini.