In treno
L’Italia in lungo e in largo
quest’anno ho attraversato.
Al Nord il benessere è davvero disperato,
al Sud ti colpisce l’improvvisa sensazione
di essere piombato in un’altra dimensione.
L’Italia è tutta come un grande monumento
mezzo di terra e mezzo di cemento.
Nel cemento gli uomini stanno infilati
come nel girone degli stupidi beati,
non fanno più risalto, coperti dallo smalto,
mentre nella terra si articolano ancora,
anche se mangiati, corrosi e consumati
come i fichi sull’albero quando hanno le api dentro,
anche se sanno che ogni movimento
può portarli a finire dritti nel cemento.
«Bella cosa, signora», mi diceva un omone
sul treno che correva verso Agrigento,
«la buona famiglia, l’educazione e il nome:
questo fa che per forza la moneta cascherà
con la testa di qua e con la croce dillà,
mi permetta, sono il barone Barillà»
Poggiava su una grande valigia accovacciato,
un piede sulla porta della ritirata,
una mano aggrappata al ferro del corridoietto,
pareva un moderno crocefisso in un diretto.
«Qui non è questione di danaro, signora,
qui è solo questione di predestinazione»
Il treno rallenta: Agrigento stazione.
In Romagna si gioca a briscola e a scopone,
in Toscana c’è la tombola del sabato sera.
«Noi fatichiamo qui al settentrione,
se l’Italia qui finisse noi staremmo benone.
Vede, uno si sente come sistemato
e, anche se non è proprio come voleva,
ora si accorge con soddisfazione
che c’è chi non ha i soldi manco per mangiare
mentre lui al cinema ogni giorno ci può andare.
E creda pure a me, cara la mia signora,
anche se si sente, come dire, un po’ costretto
pensare a questo fa dimenticare ogni dolore»
diceva intoppando un coltivatore diretto.
Mentre mi parlava era in un bagno di sudore,
per la gran fatica la sua voce era in falsetto,
non trovava le parole. Finalmente ha detto:
«Sa, sono concetti difficili da spiegare,
mi deve capire, io non ce la posso fare»
A Bologna, finalmente, trovo un posto a sedere.
Un canuto, bianco, irascibile signore
parla dando grandi pacche dottrinali
sulle gambe accavallate di un giovane occhialuto
che lo ascolta con orecchio riverente ed evoluto.
I militari dormono e cascano in avanti,
il vecchio continua, osceno e vociferante:
«Cos’è la differenza fra teoria e sistema?»,
l’altro lo guarda proprio entusiasmato,
«Ci credi, gli studenti non me lo sanno più dire,
io mi domando: dove andremo a finire?»
La nave
Siamo in alto mare,
su una nave che vola sicura
La guarda il capitano
col berretto e in mano il cannocchiale,
tiene lontano il male,
la ciurma dorme, l’uomo veglia al timone,
la stella polare
non smetterà più di brillare.
Ogni mattina, al levarsi del sole,
la ciurma prepara il rito vitale per la giornata.
Il capitano sta sul ponte, fermo come una statua,
e guarda lontano col cannocchiale in mano,
la ciurma, tenendosi per mano,
compie un gran giro
attorno al capitano e guarda fissa il sole
fino a quando non lo può più sostenere.
Sono soli nel mare, sono
soli nel mare.
Poi, con gli occhi vuoti di luce
e pieni di grandi cerchi neri,
sempre guardando lontano,
toccano il capitano, il berretto, le vesti, la mano.
Infine buttano un uomo in mare,
uno di loro scelto a sorte ogni sera
prima di dormire,
questo tiene lontano la tempesta,
favorisce un‘abbondante pesca.
Il capitano lo guarda affogare
tenendogli le mani sulla testa,
la ciurma assiste poi va a lavorare.
Il capitano dà ordine di fermare,
buttano l’ancora e la nave dondola pian piano.
Scendono con le barche
che incomincia a crescere il sole,
affondano le reti in mare
la sera ritornano alla nave
e tirano a sorte per sapere
chi è quello che deve
morire per garantire una giornata
uguale a quella passata.
Sono soli nel mare,
il capitano, con il berretto
e in mano il cannocchiale
tiene lontano il male,
tiene lontano
Nella ciurma c’è un ragazzo
giovane, bello e bruno, lava il ponte,
non va a pescare, non è abbastanza forte.
Ma ogni sera quando tirano a sorte
sta a guardare e lo sa
che un giorno a lui toccherà
di essere buttato in mare.
Ha perso il respiro, questo pensiero
no, non lo lascia ormai più campare
e parla forte nella nave della morte,
non lascia dormire più nessuno
«Così non posso vivere,
aspettando ogni giorno di morire,
non ce la faccio, no»
«Aspetta», dicono gli altri,
«presto a lavorare incomincerai,
sarà naturale, vedrai,
le reti in mare butterai,
e alla nave al mattino
tornerai, la mano al capitano toccherai,
toccherai le vesti e il cannocchiale.
L’affanno di questi giorni perderai,
non ci pensare, vedrai».
Invece lui ci pensava
spinto dalla paura ed alla sera
con l’aria pura decise di fuggire.
Chiamò piano
il vecchio, il suo amico più caro
senza il quale
proprio non sapeva stare:
«Parto, vieni con me, andiamo a
cercare un posto nel mondo
dove non si debba più morire
per vivere e vivere per morire».
«Resta», rispose il vecchio,
«non puoi cambiare quanto è naturale,
prima o poi tocca a tutti noi»
Il giorno dopo il capitano
lo mandò a chiamare
per poterlo iniziare a lavori di mare.
Il ragazzo andò con gli altri
a compiere il rito
e si sentì d’un tratto rassicurato.
Era svanito in un momento
tutto il dolore accumulato dentro,
la paura e il rimpianto
erano svaniti come d’incanto.
Una sera al ritorno
cercò il suo vecchio amico
e non lo trovò più:
la sorte era toccata a lui.
Chiuso in disparte si preparava
alla propria morte.
Il giovane bello e bruno e rassicurato
si svegliò come da un lungo sonno malato
e il vecchio terrore gli ritornò tutto
nella mente e nel cuore,
di colpo si decise
e senza più ragionare
corse nella cabina
foderata di velluto.
Il capitano era lì con il capo
appoggiato sulla mano,
dormiva nella poltrona coi braccioli d’oro.
Il giovane bello e bruno
gli strinse le mani forti attorno ai collo
finché lo sentì freddo per la morte,
poi tolse le vesti al capitano,
le indossò e di mano gli prese il cannocchiale
che tiene lontano il male.
Era mattina, andò sul ponte,
sulle spalle il capitano,
lo calò nel mare
tenendogli le mani sulla testa,
poi fermo, sempre guardando lontano,
sentì la ciurma prendersi per mano,
compiere il largo giro,
guardare fisso il sole,
toccare il cannocchiale che tiene lontano il male.
Quella sera a un altro toccò in sorte la morte.
Il ragazzo con le vesti del capitano
nella cabina foderata di velluto
attese invano un altro giovane forte e bruno
che lo stringesse fino a farlo morire
e al mattino lo buttasse in mare,
lo buttasse in mare.
C’è in Calabria
Al Sud c’è il rituale che fa accettare
la miseria, la fame, la disoccupazione.
Al Nord il rituale che fa accettare il padrone,
è un rito nuovo ma nella sostanza eguale.
Canto la canzone del morto nel cantiere
e penso a quel signore alla televisione,
con l’occhio smorto e con il doppio mento,
padrone di non so quale stabilimento:
«Certo, è un peccato, questa alta percentuale
di morti sul lavoro riduce il personale,
bisogna acquistarne di nuovo e vale meno,
dev’essere istruito, informato e preparato,
mentre quello morto ormai era addestrato;
certo, è una perdita, certo, sicuro,
bisogna che muoiano di meno sul lavoro,
bisogna che muoiano di meno sul lavoro».
C’è in Calabria una bambina col sarcoma,
la madre ha risparmiato sulla fame,
la madre ha risparmiato sulla fame
per la lapide che ha fatto già intarsiare
e il lenzuolo ricamato per la bara
e il lenzuolo ricamato per la bara.
Gira di notte con la bambina in collo
che sono mesi che ha smesso di dormire
e insieme se ne vanno incontro al sole
che ogni mattina tarda di più a salire.
Il rito costa soldi e sudore,
ma accontenta i nostri pianti.
Giriamo attorno al capitano
e invocando la morte poi moriamo.
Quanto dolore stupido e crudele
accettiamo che potevamo evitare,
abituati come siamo ad accettare
e per non morire farci buttare in mare,
e per non morire farci buttare in mare,
e per non morire farci buttare in mare.
L'Italia gran bel paese
Italia, quanto sei lunga,
Italia, quante chiese!
Sembri dire: «Ogni scherzo vale»
per non farti troppo male.
Italia, quanto sei lunga,
Italia, quante chiese!
«Gran bel paese!», dice in piedi davanti al finestrino
un contadino costretto ad emigrare;
ha due figli in Germania con la sorella
e due al paese con il fratello,
il più piccolo lo porta con sé a Zurigo
nelle bianche baracche di ferro smaltato,
la moglie sta a cottimo da cucitrice,
il bambino lo tiene una vicina a pagamento.
«Solo per vedere una volta l’anno
la famiglia riunita per un momento,
i miei pochi soldi se ne vanno;
passo la vita per un ideale
che dovrebbe essere naturale;
ma perché in questa bella terra nostra
a noi maledetti non ci fanno stare?
Io non ho fatto niente di male,
ma perché proprio a me è toccata questa sorte?
Io non ho fatto niente di male,
ma perché sono nato maledetto fino alla morte?
Io non ho fatto niente di male,
ma perché proprio a me è toccata questa sorte?
In quel pezzo che corre tra Pesaro e Forlì
sono appagati, silenziosi;
come una chioccia la cooperativa
fornisce, dispensa, regola e controlla.
Ma gli sguardi dei braccianti restano opachi,
curve le schiene dei coltivatori diretti;
a vederli piegati con le carte in mano
viene da pensare: «Poveretti!»,
a vederli piegati con le carte in mano
viene da pensare: «Poveretti!».
«Allegria, allegria!», strillava l’ottimistico
altoparlante di una giardinetta
nelle strade deserte di Cesena, all’alba
che seguiva i tragici fatti di Avola.
Il giornale con testata nera cubitale
diceva «lutto nazionale».
Tutti chiusi in sezione a ciclostilare
manifesti e volantini per deprecare,
ma all’alba, nella nebbia della città deserta,
gracchiava tenace la giardinetta:
«Allegria, allegria, tutti a ballare!»
Era la Casa del Popolo, naturale,
che doveva rifare i suoi novanta milioni
di sala da ballo con illuminazione,
doveva rifare i suoi novanta milioni...
Un giorno ci sveglieremo
In treno un militare con gli occhi marroni
mi offre i dolci fatti col vino;
viene da Nuoro, viaggia da ore,
va a Trieste militare:
«Noi», dice piano, «siamo italiani
solo per le tasse o fare il militare»...
«Vai al Nord a lavorare», interrompe un siciliano
con un gran vocione,
«Lavori quindici ore, ti pagano di meno,
c’è gente pagata per pianificare
sulla nostra fame e poterci speculare;
tutto hanno previsto, ma io vi dico questo,
tutto hanno previsto, ma io vi dico questo:
un giorno si sveglieranno che il sole sarà lontano
e noi avremo una terribile forza in mano,
non sentiremo il freddo, già smorti come siamo;
allora piangeranno, mentre noi cammineremo
sui loro freddi corpi foderati di velluto
e imbottiti di stufato,
piangeranno e noi diremo: sopportate
il volere del Signore, perdonate
chi vi offende, fate buon viso,
la ricompensa è il paradiso.
Così diremo e cresceremo -
e cresceremo di peso
e avremo i figli belli, biondi, ricciuti
e la mattina andremo a lavorare -
andremo a lavorare
e con la moglie devota a casa a cucinare.
Quand’è la sera con la camicia appena lavata
andremo a fare quattro passi in paese,
saluteremo e ci faremo -
e ci faremo salutare.
La sera all’osteria, dopo la partita a scopone,
guardandoci le mani chiameremo il cameriere
e con la voce forte potremo offrire da bere,
guardandoci le mani chiameremo il cameriere
e con la voce forte potremo offrire da bere.
Un giorno si sveglieranno che il sole sarà lontano
e noi avremo una terribile forza in mano,
non sentiremo il freddo, già smorti come siamo;
allora piangeranno, mentre noi cammineremo,
allora piangeranno, mentre noi cammineremo».
Siamo arrivati
Siamo arrivati: «Addio compare!»,
vado alla Casa del Popolo a cantare,
questa sera non si balla per colpa mia,
c’è un’atmosfera di carestia,
non dibattono, scappano: non si può sapere
cosa ci può venire in mente di dire;
finire bollati per sempre da cinesi
sono scherzi da preti, proprio in questi paesi.
«Dio can! signore, fate presto a uscire:
chi è quell’incosciente che ha intoppato la porta?
Permesso, permesso, fate passare
sono un lavoratore, devo andare a dormire,
sono un lavoratore, devo andare a dormire».
Penso a Cagliari, dove i lavoratori
hanno passato sette notti di fila
a discutere, parlare delle lotte da organizzare;
penso in Sicilia, che volevano imparare
tutte le canzoni «perché possono servire»;
in Puglia che di notte incontro un ragazzetto
visto prima a teatro:
«Ancora in giro, non vai a dormire?».
«Vado a lavorare, di giorno ho da fare
il lavoro politico e la scuola serale»
E finalmente mi viene da dire:
ma allora è proprio vero che ci vuole la fame,
lo spettro della morte per lottare?
Niente da perdere, questo ci vuole,
niente da perdere, questo ci vuole.
È arrivato il papa a sant’Elia,
circondato dalla polizia
è arrivata l’Italsider nel meridione,
schiaccia una cultura, sfrutta una situazione.
Niente è cambiato, da bracciante affamato
passi intanto a operaio sfruttato,
niente è cambiato, niente è cambiato,
niente è cambiato, niente è cambiato!
Siamo in Romagna, comincio a cantare:
pochi e distratti, non stanno a sentire:
allora dico: «Che ci state a fare?»
«Compagna», mi risponde un vecchietto risentito,
«io sono qui per disciplina di partito»
«Compagna», mi risponde un vecchietto risentito,
«io sono qui per disciplina di partito»
Allora è proprio vero che ci vuole la fame,
lo spettro della morte per lottare
niente da perdere, questo ci vuole,
niente da perdere, questo ci vuole.
Il corteo si muoveva lentamente,
quelli in testa si voltano per dire
lo slogan deciso da strillare,
e tutti insieme aprendo la bocca:
«Il diritto di sciopero non si tocca!
il diritto di sciopero non si tocca!»;
ma quando alla coda è arrivato
per la strada s’era cambiato:
«Diritto o non diritto lo sciopero non si tocca»
era mano a mano diventato,
«diritto o non diritto lo sciopero non si tocca»
così s’era lo slogan trasformato.
C’è a Giulianova
C’è a Giulianova una donna senza latte,
il bambino le muore di fame.
Così con un’amica fanno la fattura
a un’altra donna che ci ha la creatura
bella e grassa di qualche mese
e il latte che le corre da buttare,
e insieme si mettono a cantare:
«Creatura, creatura de lu Signore,
ti guardo a lu mattine
e questo latte che ci dai a lo tue bambine
da oggi, domani e sempre non ce lo puoi cchiù dare;
vieni latte da me, lassa la donna mora,
vieni latte da me farmi signora.
Vieni latte da me, lassa la donna mora,
vieni latte da me farmi signora».
Invece di rubarci il latte fra di noi,
facendo un gran giro attorno al capitano,
perché non giriamo attorno alla centrale
che almeno il soggetto sia un po' più diretto?
A Canosa un vecchietto mi canta questa canzone:
«Guarda la ragazza, quella che vuoi pigghiare,
metti la sausizza, mettila ‘nt’a lu pane,
così ti vede ricco, ti vede gran signore,
metti la camicia come lo tuo padrone.
Guarda la ragazza, quella che vuoi pigghiare,
metti la sausizza, mettila ‘nt’a lu pane,
così ti vede ricco, ti vede gran signore,
metti la camicia come lo tuo padrone».
Un po’ di qua e un po’ di là
A Gonzaga c’è l’accelerato sgangherato,
sale una donna con due bambini,
vede la chitarra, chiede della Daffini;
proprio l’anno scorso c’era il suo funerale:
dietro l’argine del fiume
un po’ di qua e un po’ di là
e davanti noi in due file
un po’ di qua e un po’ di là
e la bara con il prete
un po’ di qua e un po’ di là
i nipoti, i figli e il marito
un po’ di qua e un po' di là
e i compagni del partito
un po’ di qua e un po' di là
le orfanelle delle suore
un po’ di qua e un po’ di là
le corone con i fiori
un po’ di qua e un po' di là.
Dice il prete:
«Accogli, Signore, l'anima della tua serva Giovanna».
«Mai fatto la serva a nessuno», dice il marito.
«Taci papà, non vuol dire niente,
è una pura formalità»,
dice il figlio emigrante.
È una pura formalità che si fa
un po’ di qua, un po’ di là.
È una pura formalità che si fa
un po’ di qua, un po’ di là.
Certo, si sa,
ma non è vero che non vuol dire niente,
vuol dire secoli di miseria, di morte e di dolore
accettati come se fosse una cosa naturale.
È una pura formalità che si fa
un po’ di qua, un po’ di là,
È una pura formalità che si fa
ma finché un giorno cambierà.
Quel giorno ci sveglieremo che il sole sarà lontano
e noi avremo una terribile forza in mano,
non sentiremo il freddo, già smorti come siamo,
e allora piangeranno, mentre noi cammineremo.
Quel giorno ci sveglieremo che il sole sarà lontano
e noi avremo una terribile forza in mano,
non sentiremo il freddo, già smorti come siamo,
allora piangeranno, mentre noi cammineremo,
allora piangeranno, mentre noi cammineremo,
allora piangeranno, mentre noi cammineremo.
envoyé par Dead End - 11/11/2012 - 00:02
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«La nave», con sottotitolo «È una pura formalità» è una cantata resoconto dei viaggi della Marini su e giù per l’Italia di allora.
Il disco fu pubblicato da I Dischi del Sole e poi ristampato da Alabianca Records.
Sul lato B, «La creatora (ovvero in nome della madre)»
Credo che in seguito questa lunga cantata sia stata inclusa nello spettacolo intitolato «L'aria concessa è poca» organizzato dall’ARCI di Terni nel 1973.
Testo trovato su La musica de L’Altra Italia
e noi avremo una terribile forza in mano,
non sentiremo il freddo, già smorti come siamo;
allora piangeranno, mentre noi cammineremo
sui loro freddi corpi foderati di velluto
e imbottiti di stufato,
allora piangeranno, mentre noi cammineremo...»