Popolo se m’ascolti
ti spiego la tragedia
del 23 d’agosto
l’orribile commedia:
a raccontarla mi proverò
ma ‘un so se in fondo ci arriverò.
L’umanità tremante
da cannoni e granate
cercò d’andar distante,
dove non eran picchiate.
Le sue capanne ognuno fabbricò
per esser sicuro si rifugiò:
dal Ponte Buggianese
ci avean preso dimora,
da Pieve, il Cintolese
e altri villaggi ancora.
E una mattina corsen laggiù,
per ammazzarla la gioventù:
di fucili e mitraglie
il Padule fu accerchiato,
dall’ìnfame canaglia
del tedesco spietato.
Eran tutti innocenti,
poveri cuori umani,
dissen que’ malviventi:
«Vo’ siete partigiani!»
Vecchi e ragazzi,
donne e bambini,
barbaramente fecen morì.
Teniamo in mente tutti
quell’accaduto atroce,
ci hanno pieni di lutti,
spregiando anche la croce.
Questi misfatti non so’ a scorda’
noi comunisti a vendica’!
ti spiego la tragedia
del 23 d’agosto
l’orribile commedia:
a raccontarla mi proverò
ma ‘un so se in fondo ci arriverò.
L’umanità tremante
da cannoni e granate
cercò d’andar distante,
dove non eran picchiate.
Le sue capanne ognuno fabbricò
per esser sicuro si rifugiò:
dal Ponte Buggianese
ci avean preso dimora,
da Pieve, il Cintolese
e altri villaggi ancora.
E una mattina corsen laggiù,
per ammazzarla la gioventù:
di fucili e mitraglie
il Padule fu accerchiato,
dall’ìnfame canaglia
del tedesco spietato.
Eran tutti innocenti,
poveri cuori umani,
dissen que’ malviventi:
«Vo’ siete partigiani!»
Vecchi e ragazzi,
donne e bambini,
barbaramente fecen morì.
Teniamo in mente tutti
quell’accaduto atroce,
ci hanno pieni di lutti,
spregiando anche la croce.
Questi misfatti non so’ a scorda’
noi comunisti a vendica’!
Contributed by CCG/AWS Staff - 2011/12/6 - 15:00
Poveri cuori umani
di Luca Baiada
da carmilla online
«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i cacciatori del Padule di Fucecchio.
Davvero, eran tutti innocenti, il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e sabotaggio.
Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni. Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà, di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato: così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a sembrare imbelli, contro la loro volontà.
Qual è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittima–caduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen, parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio, come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata – non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema, ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista, si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.
Il percorso tortuoso con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie, costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli assassini.
Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata, Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale, una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però quando si trattava di combattere la differenza era chiara.
La limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato, dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.
Sul piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili: ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani dovrebbero rassegnarsi?
Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».
di Luca Baiada
da carmilla online
«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i cacciatori del Padule di Fucecchio.
Davvero, eran tutti innocenti, il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e sabotaggio.
Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni. Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà, di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato: così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a sembrare imbelli, contro la loro volontà.
Qual è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittima–caduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen, parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio, come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata – non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema, ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista, si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.
Il percorso tortuoso con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie, costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli assassini.
Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata, Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale, una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però quando si trattava di combattere la differenza era chiara.
La limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato, dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.
Sul piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili: ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani dovrebbero rassegnarsi?
Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».
daniela -k.d.- - 2015/8/24 - 08:55
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"Questo canto ricorda l'eccidio nazista del Padule di Fucecchio (FI) , e fu pubblicato nella rivista "Cerreto tra l’Arno e il Padule", a cura dell’amministrazione comunale di Cerreto Guidi, Ottobre 2005. Nella pubblicazione è contenuta questa citazione: "Allora ‘ste canzoncette si cantavano, c’era chi le diceva in poesia come quello che aveva inventato questa qui - era un certo Mazzei, della Colonna di San Rocco, ora è morto... si cantavano a veglia, o quando c’era qualche riunione al partito... (Liduino Tofanelli, 10 giugno 1997)" - Il Deposito
da it:wikipedia
L'eccidio del Padule di Fucecchio fu un crimine di guerra commesso da un reparto della 26ª divisione corazzata tedesca, agli ordini del generale Peter Eduard Crasemann, il 23 agosto 1944. Nella strage persero la vita 175 civili (uomini, donne e bambini. La strage avvenne nella vasta area pianeggiante compresa tra le province di Pistoia e Firenze denominata Padule di Fucecchio.
Nell'estate 1944 a causa dei bombardamenti molte famiglie provenienti dalle province di Pistoia e Firenze lasciarono le proprie abitazioni per andare a rifugiarsi nel padule. Alcuni gruppi si unirono in bande di partigiani capeggiate dal professor Benedetti di Ponte Buggianese e si diressero verso l'interno, luogo palustre ed incolto considerato impenetrabile da parte dei tedeschi. Per le caratteristiche del luogo, anche molti uomini fuggiti dai rastrellamenti nazisti nelle ore notturne raggiungevano la parte centrale, considerata più sicura. Altri gruppi di famiglie, soprattutto donne, vecchi e bambini, preferirono invece rifugiarsi nei casali e nelle capanne di pastori e contadini situate ai margini del padule.
Le bande partigiane durante tutto il mese di luglio attaccarono sporadicamente il battaglione tedesco dislocato nei pressi di Ponte Buggianese e Monsummano, senza infliggere gravi perdite all'esercito, ma causando ordini di rappresaglie ai danni della popolazione civile residente nei villaggi e nelle campagne circostanti. Spesso vennero fucilati ed impiccati innocenti, solo per avvertire la popolazione di ciò che succedeva a chi sparava contro tedeschi, o semplicemente proteggeva o non denunciava partigiani di passaggio.
In tutta l'area circostante al padule erano dislocati soldati appartenenti alle 26ª divisione corazzata tedesca, il cui comando era situato a Chiesina Uzzanese. Il 22 agosto molti soldati partirono dal villaggio diretti verso il padule, al loro ritorno, 2 giorni dopo il massacro, dichiararono di aver ucciso 200 partigiani, omettendo che in realtà il totale dei morti era composto esclusivamente da civili. Da Monsummano il 23 agosto partirono i membri del 26º Reparto Esploratori comandato dal capitano Josef Strauch, affermando di andar a combattere le bande nascoste nel padule.
Risulta che altri piccoli gruppi di soldati appartenenti a varie unità della 26ª corazzata, dislocata nell'area, vennero impiegati nella rappresaglia. Intorno alle 6.00 del 23 agosto truppe tedesche si diressero verso la "Tabaccaia" dove alloggiavano molti sfollati, per lo più donne e bambini: li constrinsero a uscire e li fucilarono sul posto. Nei dintorni altri ufficiali tedeschi fucilarono uomini che scappavano o si rifugiavano fra i campi; tra questi ufficiali sembra che fosse presente anche il capitano Strauch. Nell'area di Ponte Buggianese vennero uccise 29 persone tra cui anche adolescenti e bambini.
Colpevole della strage è sospettato anche il 9º Reggimento Granatieri Corazzati, il cui comandante, colonnello Erwin von Witzleben (con alcuni ufficiali del suo stato maggiore), alloggiava nella residenza della Baronessa Banchieri. La mattina del 23, dopo le sette, si sentirono spari proveniente dal casale di Silvestri, poco lontano da lì. Il colonnello fece aprire il fuoco con un cannone dalla villa verso il casale e gli spari cessarono. Successivamente venne inviata (verso l'abitazione) una pattuglia di soldati tedeschi che, dopo aver ordinato agli occupanti di uscire, aprì il fuoco ed anche chi cercò di scappare venne ucciso. Tra le vittime 8 donne, 2 uomini, un bambino di 8 anni e 2 di 17 e 27 mesi, molti altri feriti. Altri corpi vennero portati alla villa della Baronessa Banchieri dalle case in cui si erano verificati episodi simili.
I tedeschi continuarono il massacro avanzando nel padule ed uccidendo allo stesso modo altri civili indifesi. Molti altri corpi vennero trovati in altre località uccisi allo stesso modo; in alcuni casi non ci furono testimoni superstiti, ma non c'è alcun dubbio che gli omicidi siano avvenuti per mano tedesca. Alcuni feriti per salvarsi si diressero alla villa Banchieri, in cui trovarono gran confusione nel comando tedesco a causa dell'uccisione di così tanti innocenti: Von Witzleben mandò dei corrieri con l'ordine di far cessare il fuoco, affermando di essere all'oscuro di ciò che stava accadendo e di aver ordinato la rappresaglia contro bande partigiane, perché alcuni soldati tedeschi erano stati uccisi.
Dalle parti della località Stabbia, unità appartenenti alla 26ª divisione Corazzata effettuarono una simile rappresaglia: partite il 22 agosto dal comune di Larciano, il 23 mattina verso le 6.00 arrivarono a Stabbia e fecero fuoco in modo indiscriminato. I civili furono arrestati e uccisi, oppure uccisi mentre svolgevano il proprio lavoro quotidiano, senza dare alcuna motivazione. Lo stesso accadde a Massarella dove si aprì il fuoco verso il padule, e successivamente furono trovati morti 8 uomini. In totale nella zona del Padule di Fucecchio vennero trovate 175 vittime civili probabilmente non appartenenti a bande partigiane; tra queste, molte donne e ragazzi compresi tra un mese e 16 anni.
Le cause che spinsero l'esercito tedesco ad un simile atto sono incerte. Da un lato ci fu una cattiva informazione che indicò la presenza di bande di partigiani nel padule, ma durante la strage vennero uccisi solo civili innocenti. Infatti, mentre inizialmente era stato programmato un concentramento partigiano all'interno del padule, che sarebbe diventato la base operativa degli attacchi, nel momento in cui fu tutto pronto per la partenza ci furono defezioni di molti componenti provenienti da gran parte dei comuni circostanti. Benedetti quindi fu costretto a dirigersi in padule solo con il suo gruppo male armato e disorganizzato. Dall'altro, contribuirono sia le direttive provenienti da Berlino, sia in particolar modo gli ordini emanati dal Feldmaresciallo Albert Kesselring comandante del Gruppo dell'Armate "C", OB Südwest, che più di ogni altro aveva dimostrato l'intenzione di compiere una dura lotta contro le bande, anche a discapito della popolazione civile, se questo fosse servito a fermarle. Le sue intenzioni furono appoggiate in parte dalle direttive emesse per la "lotta contro le bande": esse spiegavano quali tipi di combattimento erano consentiti, ed affermavano che le popolazioni che avessero appoggiato i partigiani o si fossero trovate nei luoghi di conflitto avrebbero subito misure punitive. Le direttive ordinavano inoltre di arrestare e trattare come prigionieri di guerra gli esponenti della resistenza, senza ucciderli.
Kesselring non applico mai l'ultima parte della direttiva, ma anzi ordinò di agire con azioni pianificate ed in caso di attacco aprire immediatamente il fuoco senza preoccuparsi dei passanti o di eventuali civili nei dintorni. Dette ad ogni soldato la possibilità di uccidere chiunque fosse sospettato di complicità con i partigiani. Infine dichiarò che a qualsiasi tipo di intervento non sarebbe conseguita alcuna punizione, dando così "carta bianca" ai singoli comandanti.
La cooperazione del comando dei carabinieri di Monsummano con le commissioni di inchiesta angloamericane permise la raccolta e la messa agli atti di 169 testimonianze fornite da coloro che assistettero alla strage. Tali testimonianze pur dolorose da ripercorrere per gli interrogati, furono essenziali nella raccolta del maggior numero di informazioni riguardanti in particolare le armi utilizzate, il non coinvolgimento della popolazione civile nel movimento partigiano e soprattutto l'identificazione dei responsabili. Durante gli interrogatori venne usata una stessa struttura di domande basilari: veniva chiesto perché i testimoni si trovassero nel padule, cosa avessero visto o fatto e se fossero partigiani. Le deposizioni furono tutte molto simili: i superstiti interrogati dai carabinieri e/o dai responsabili delle commissioni di inchiesta, affermarono in linea generale di trovarsi in padule per rifugiarsi dai bombardamenti o dai rastrellamenti nazisti. Alcuni scamparono alla rappresaglia perché tornati temporaneamente nelle proprie case nei villaggi, altri perché potendo vedere da lontano i soldati tedeschi riuscirono a nascondersi nei fossi o a penetrare nelle zone più interne. Altri ancora riuscirono a fuggire o vennero lasciati liberi da alcuni soldati, mentre altri, feriti e non, finsero di essere morti per evitare la fucilazione.
Quasi tutti affermarono che né loro né i loro familiari morti, erano partigiani o avevano prestato soccorso a organizzazioni partigiane. Raccontarono spesso di non aver avuto tempo né per parlare né per scappare: le uccisioni avvenivano direttamente all'interno delle abitazioni, o di fronte ad esse, dopo che tutti gli abitanti erano usciti.
Sulla strage vennero aperte due commissioni di inchiesta, una Inglese ed un'Americana. Per quanto il luogo si fosse trovato sul territorio di competenza della V armata Americana, fu uno dei pochi casi in Italia, in cui le indagini furono molto approfondite da parte dalla commissione d'inchiesta britannica. Quest'ultima, a differenza di quella americana, creò una branca investigativa speciale, al fine di indagare sui presunti crimini di guerra commessi dalla Wehrmacht contro la popolazione civile italiana. Dopo aver accertato i fatti la commissione inglese istituì il processo di Venezia, con lo scopo di condannare i più grossi criminali di guerra.
Tra i condannati, oltre a Crasemann comparve anche il Feldmaresciallo Kesselring, poiché dallo studio delle mappe emerse che le rappresaglie non furono eseguite per ordini di comandanti di singole formazioni, ma furono un esempio di campagna organizzata dall'alto. Dei 45 ricercati, tra i quali alcuni in attesa di essere ancora interrogati, soltanto due vennero veramente condannati dal processo di Venezia: il capitano Strauch e il comandante Crasemann. A entrambi furono comminate pene detentive per un periodo non superiore ai 6 anni. Il comandante Kesselring venne invece giudicato da un tribunale militare britannico a Mestre. Inizialmente venne condannato alla fucilazione per tutti i crimini di guerra commessi, compresi l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema e l'eccidio delle Fosse Ardeatine, ma successivamente la condanna venne modificata con la reclusione a vita, e venne portato nel carcere Werl. Nel 1948 però la pena venne ridotta a 21 anni, fino a quando nel 1952 venne scarcerato a causa delle sue condizioni di salute.