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Canto dei minatori

Mario Rapisardi
Langue: italien


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(Bertolt Brecht)
Le chant des Canuts, ou Les Canuts
(Aristide Bruant)
Le travail, c'est la santé
(Henri Salvador)


[1882]
Dalla raccolta poetica intitolata “Giustizia”, pubblicata per la prima volta a Catania nel 1883 e poi ripubblicata con integrazioni nel 1915 a Milano con il titolo “Giustizia ed altre poesie politiche e sociali”. Di questa stessa raccolta fa pure parte il Canto dei mietitori.
Testo trovato sul blog di Salvatore Lo Leggio




Una poesia-canzone che anticipa di una decina di anni i sentimenti che tra il 1891 ed il 1893 saranno alla base del movimento democratico e socialista dei Fasci siciliani, schiacciato nel sangue dai carabinieri di Francesco Crispi.
In realtà Rapisardi, allo scoppiare dei moti siciliani, consigliò la calma, ritenendo che la rivolta fosse “intempestiva” e mancasse di chiari obiettivi e di leader efficienti. Fu attaccato per questo da molti socialisti del settentrione, ai quali a tono rispose: “Io ho finalmente consigliato la moderazione e la calma, perchè non ho fede alcuna nella solidarietà dei nostri famosi fratelli del continente, buoni ad arcadieggiare su le scuole e sui metodi socialistici, pronti sempre a denigrare la reputazione di persone che conoscono appena di nome, a sbraitare in qualche comizio, ad armeggiare in qualche gazzetta e ad aprire, tutt'al più, a cose finite una sottoscrizione a beneficio delle vittime […] La pace sarà fatta dopo un assetto sociale radicalmente diverso di quello onde ora ha regno e delizia la borghesia.”

“Erano gli anni dei Fasci Siciliani dei Lavoratori: e il mondo della zolfara prendeva coscienza di quel che Rapisardi affermava nei suoi versi: che proprietari e gabelloti, bestialmente sfruttando i minatori, avevano accumulato grandi ricchezze.
Proprio nel periodo di più acuta tensione, mentre il governo stava per decretare lo stato d’assedio contro le tumultuose rivendicazioni dei Fasci, un giornalista del nord scriveva: “nella mia vita giornalistica io ho assistito in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Africa, in America a scene orribili d’ogni maniera: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo mi aveva però così profondamente colpito come quello della zolfara…”. Si chiamava Adolfo Rossi, era stato inviato dal giornale “La tribuna”: e si trovò a scendere nella zolfara insieme all’onorevole De Felice, uno dei capi dei Fasci [Giuseppe de Felice Giuffrida, fondatore dei Fasci, condannato nel 1894 a 18 anni di carcere ma in seguito amnistiato, ndr]. “Sapevano ambedue per aver letto la relazione Jacini [il conte Stefano Jacini, lombardo, fu presidente di una commissione d'inchiesta sulle condizioni dell'agricoltura in Italia ed estensore del relativo rapporto in cui consigliava di ridurre le spese militare ed incentivare l’agricoltura attraverso sgravi fiscali, ndr] e altre inchieste rimaste infruttuose, che cosa sono i carusi, ma nessuno scrittore potrà darne mai un’idea sufficiente a chi non li ha veduti in quelle vere bolge infernali… Ne avemmo una così profonda impressione di pietà, che ci mettemmo a piangere come due bambini”.
E diciamo “è stata” perché in quelle poche oggi in attività le condizioni di lavoro sono impareggiabilmente più umane; mentre altre sono ormai in disarmo, squallide e deserte strutture, oscure bocche sui fianchi delle colline, spenta terra rossiccia, là dove generazioni di uomini colsero, con sudore e sangue, avarissimo pane.”
(Leonardo Sciascia, da “La corda pazza”, 1970)
Tra cieche forre, tra rocce pendenti
Su’l nostro capo, entr’oscure caverne,
Fra pozzi cupi e neri anditi algenti,
Fra rei mïasmi, fra tenebre eterne,

D’ogni consorzio, dal mondo noi scissi,
A nutrir gli ozj d’ignoti signori,
Noi picconieri di monti e d’abissi
Sepolti vivi scaviamo tesori.

Scaviam tesori noi squallido armento
A voi terreno concilio di Numi,
Tesor di ferro, di zolfo, d’argento,
Tesor di gemme ch’abbagliano i lumi.

A voi la terra vestita di fiori,
Le cene, i cocchi, i teatri, le danze,
Gli stabili ozj, i mutevoli amori,
Il compro riso d’eterne speranze;

A noi non occhio d’azzurro, non sole,
Non aura sana d’amore e di vita,
Non guardo amico, non dolci parole,
Ma pena eterna, ma notte infinita.

Uomini forse non siamo? Qual tristo
Destin c’infligge sì fiera condanna?
S’esiste Dio, se incarnato s’è Cristo,
Perchè a l’inferno ancor vivi ci danna?

Scaviam, scaviam; chi sa? forse tra poco
Ci mozza il fiato quest’aria maligna,
Ci schiaccia il monte, divoraci il foco:
Vedete? in fondo la morte sogghigna.

Scaviam, scaviam le ree viscere a questa
Terra a noi ricca d’obbrobrj e d’affanni;
Finchè un sol guizzo di vita ne resta,
Scaviamo il trono de’ nostri tiranni.

Stridete, su, negre macchine immani,
Argani urlate, picconi battete,
Tuonate, mine, scoppiate, vulcani;
Le nostre tombe mugghiando schiudete.

Venuta è l’ora! Noi vili, noi rei,
Ai forti, ai giusti sorgiamo davanti;
Noi, bulicame d’abietti pigmei,
Mirare in volto vogliamo i giganti.

Noi v’abbiam dato l’immenso tesoro,
Che in sen chiudeva gelosa la terra;
Ma voi, titani de l’ozio, con l’oro
Avete mossa a noi primi la guerra.

Noi v’abbiam l’arche di gemme ripiene,
E voi le figlie ci avete corrotte;
Del ferro avete a noi fatte catene
Per inferrarci a l’errore, a la notte.

Del carbon adro, che l’arti ravviva,
Che vi sfossiamo noi maceri e lerci,
A voi calore, a voi luce deriva
E pingui industrie e volanti comerci.

Per voi spezziam le montagne, per voi
Scendiam ne’ letti de l’igneo granito;
E voi co’l marmo negato agli eroi
Colossi ergete a chi il pan ci ha rapito.

Eppur, vedete? siam buoni e cortesi,
Benchè canaglia da forca e da fogna:
Patrizj biondi, panciuti borghesi,
Brindiamo un po’, non abbiate vergogna:

Brindiamo insieme al Lavoro che affranca,
A la Giustizia che l’opere abbella,
Al pan che a noi, a l’onor che a voi manca,
Ed a la Pace che tutti affratella.

Ma voi fremete, ed offesi dal lezzo
Dei nostri cenci torcete la faccia,
E ci lanciate co’l vostro disprezzo
Un duro tozzo e una vecchia minaccia.

Voi minacciate? Codardi! Com’angue
Le cento lingue il nostr’odio saetta:
Non vogliam pane, ma sangue, ma sangue,
Ma un giorno solo d’allegra vendetta.

envoyé par Bartleby - 31/8/2011 - 09:16



Langue: français

Version française – CHANT DES MINEURS – Marco Valdo M.I. – 2012
Chanson italienne – Canto dei minatori – Mario Rapisardi – 1882

Un chant-poème qui anticipe d'une dizaine d'années les sentiments qui entre 1891 et 1893 seront à la base du mouvement démocratique et socialiste des Faisceaux Siciliens, fracassé dans le sang par les carabiniers de Francesco Crispi.

En réalité Rapisardi, à l’éclatement des mouvements siciliens, conseilla le calme, considérant que la révolte était « intempestive » et manquait d'objectifs clairs et de dirigeants efficients. Il fut attaqué pour cela par nombre de socialistes du Nord, auxquels il répondit du tac au tac : « J'ai finalement conseillé la modération et le calme ; car je n'ai aucune confiance dans la solidarité de nos fameux frères du continent, bons à gloser sur les écoles et les méthodes socialistes, toujours prêts à dénigrer la réputation de personnes dont ils connaissent à peine le nom, à gueuler dans l'un ou l'autre comité, à se répandre dans quelque gazette et à ouvrir, tout au plus, et après coup, une souscription au bénéfice des victimes […] La paix sera faite après qu'un accord social différent de celui en cours aura dominé et assommé la bourgeoisie. »
« C'étaient les années des Faisceaux Siciliens des Travailleurs et le monde de la soufrière prenait conscience de ce que Rapisardi affirmait dans ses vers : que les propriétaires et les gérants, en exploitant bestialement les mineurs, avaient accumulé de grandes richesses. Justement dans la période de tension la plus aiguë, pendant que le gouvernement allait décréter l'état de siège contre les revendications tumultueuses des Faisceaux, un journaliste du Nord écrivait: "Dans ma vie journalistique, j'ai assisté en Italie, en France, en Angleterre, en Afrique, en Amérique à des scènes horribles de toutes sortes: exécutions, pendaisons, lynchages, massacres, morts de toutes espèces et dans les lazarets et ailleurs. Aucun spectacle ne m'avait cependant si profondément frappé que celui de la soufrière ... Il s'appelait Adolfo Rossi, il avait été envoyé par le journal "La Tribune" ; il descendit dans la soufrière avec le député De Felice, un des chefs des Faisceaux [Giuseppe De Felice Giuffrida, fondateur des Faisceaux, condamné en 1894 à 18 ans de prison mais par la suite amnistié, ndr]. "Nous savions tous les deux pour avoir lu la relation Jacini [le comte Stefano Jacini, lombard, fut président d'une commission d'enquête sur les conditions de l'agriculture en Italie et rédacteur du rapport y relatif dans lequel il conseillait de réduire les dépenses militaires et d'encourager l'agriculture par des dégrèvements fiscaux, ndr] et d'autres enquêtes restées lettres mortes, ce que sont les carusi, mais aucun écrivain ne pourra en donner jamais une idée suffisante à qui il ne les a pas vus dans ces vraies pagailles infernales. Nous en eûmes une impression si profonde de pitié, que nous nous mîmes à pleurer comme deux enfants."
Et disons « elle a été », parce que dans les rares soufrières aujourd'hui en activité, les conditions de travail sont incomparablement plus humaines; pendant qu'autres sont désaffectées maintenant, structures misérables et désertes, bouches obscures sur les flancs des collines, terre rougeâtre éteinte, là où des générations d'hommes cueillirent, avec sueur et sang, un pain avare.

(Leonardo Sciascia) de "La corde folle",1970)

*****

Il me semble me souvenir, Marco Valdo M.I. mon ami, que toi-même, tu avais écrit une chanson sur la soufrière de Lercara Friddi... Est-ce que je me trompe ?

Certes non, mon ami Lucien l'âne... C'était, tirée de ce livre de Carlo Levi consacré à la Sicile : Le Parole sono Pietre, la description d'un de ces serpents qui tiennent les terres et les mines de Sicile pour leur compte propre ou pour d'autres; à proprement parler, un personnage abominable, une sorte de patron, un « padrone » dans la version pré-néandertalienne. Mais le mieux est d'aller revoir la canzone Néron, le Sicilien... Cela dit, ce Chant des Mineurs est un chant de la même veine que celui des Canuts Le chant des Canuts, ou Les Canuts, c'est un chant de révolte ouvrière, un chant qui annonce le temps de la libération... Un chant qui, en quelque sorte, annonce et mieux encore, appelle la fin de la Guerre de Cent Mille Ans... Cette Guerre que les riches font contre les pauvres afin de continuer à les exploiter, à en tirer les plus immenses profits, à les dominer, à les écraser sous leur pouvoir afin de les obliger à leur céder la plus grande part de la terre... je veux dire de la planète Terre et de tout ce que l'humanité peut en extraire... Bientôt, s'ils le peuvent les riches privatiseront l'air qu'on respire afin de pouvoir le vendre et en tirer profit...

Si on les laisse faire, c'est évident... Ils ne sont pas à une infamie près... Pour notre part, tissons le linceul de ce vieux monde extérieurement plein de rodomontades, intérieurement décrépit, rongé par les sucs délétères de son avidité, ambitieux, prétentieux et cacochyme cependant.

Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane.
CHANT DES MINEURS

Au-dessus de ravins aveugles, sous des roches pendant
Sur notre tête, dans d'obscures cavernes,
Dans des puits sombres et noirs, des vestibules glaçants,
Dans de mauvais miasmes, dans d'éternels ténèbres,

Nous sommes tenus à l'écart du monde et de toute compagnie,
Pour nourrir les loisirs de messieurs cousus d'or,
Nous piocheurs de monts et de profondeurs infinies
Enterrés vifs, nous excavons des trésors.

Nous excavons des trésors, nous misérable troupe
Pour vous conseil des puissants de la terre,
Trésors de soufre, d'argent et de fer,
Trésors de gemmes qu'éblouissent les lampes.

À vous la terre habillée de fleurs,
À vous les dîners, les carrosses, les théâtres, les danses,
Les amours changeantes, les stables bonheurs
Le sourire acheté d'éternelles espérances;

À nous ni bel azur, ni soleil,
Ni saine aura d'amour et de vie,
Pas de regard amical, pas de mots de miel
Mais une peine éternelle, mais une nuit infinie.

Ne sommes-nous pas des hommes peut-être ? Quel triste
Destin nous inflige une condamnation si sévère ?
Si Dieu existe, si incarné, il est Christ,
Pourquoi nous condamner encore vivants à l'enfer ?

Excavons, excavons; qui sait ? Peut-être sous peu
Cet air mauvais nous coupera le souffle,
Le mont nous écrasera, nous dévorera le feu
Voyez-vous ? Au fond, la mort ricane.

Nous excavons, les entrailles putrides de cette
Terre pour nous riche d'infamies et de tourments;
Tant qu'un seul souffle de vie reste,
Creusons le trône de nos tyrans.

Grincez, là-haut, épouvantables machines noires,
Hurlez treuils, battez pioches,
Tonnez, mines ; volcans éclatez
Nos tombes en mugissant entrouvrez.

L'heure est venue ! Nous lâches, nous infects,
Nous nous dressons face aux forts, aux justes;
Nous, cohue de pygmées abjects,
Nous voulons regarder les géants en face.

Nous vous avons donné l'immense trésor,
Qu'en elle, jalouse, renfermait la terre,;
Mais vous, titans de l'oisiveté, avec l'or
Vous nous avez rapporté la guerre.

Nous avons remplis votre arche de gemmes
Et vous les filles, vous les avez corrompues
Du fer, vous nous avez fait des chaînes
Pour nous lier à la faute, à la nuit.

De l'hadron, qui ravive les membres,
Que pour vous, nous déterrons suants et crasseux
À vous la chaleur, à vous la lumière
De riches industries et de commerces fastueux

Pour vous nous brisons les montagnes, pour vous
Nous descendons dans des lits de granit souterrains
Avec le marbre que vous refusez aux héros, vous,
Vous érigez des colosses à ceux qui ont pris notre pain.

Et pourtant, voyez-vous ? Nous sommes courtois et bons
Bien que gens de sac et de corde ;
Bourgeois pansus, patriciens blonds,
Trinquons un peu, il n'y a pas de honte.

Trinquons ensemble au travail qui affranchit ;
À la justice qui embellit l’œuvre,
À ce qui nous manque : à nous, le pain et à vous, l'estime
Et à la Paix qui tous unit.

Mais vous frémissez, et gênés par la puanteur
De nos haillons, vous faites la grimace,
Et vous nous lancez de toute votre hauteur
Un quignon trop dur et une vieille menace.

Vous menacez ? Couards! Comme des serpents
Vos cent langues attisent notre haine
Nous ne voulons pas de votre pain, mais du sang, du sang
Et un jour, un seul, de vengeance certaine.

envoyé par Marco Valdo M.I. - 1/9/2012 - 21:53




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