Yaso Yayun
Bemuno Orideki
Yasewaro fawawi kankenem
Makadiser bon urek beramen
Saneri swar bape yamarisen
Romowiwa yqfawi
Raso Mand
Saneri swar kawasa yamananis
Awin kamam kawasa ayena
Menu iwa yaburyamanderi
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Contributed by Bartleby - 2011/3/30 - 13:16
Language: English
Traduzione inglese dalla tesi di laurea dell’australiana Diana Glazebrook intitolata Dwelling in exile, perceiving return - West Papuan refugees from Irian Jaya living at East Awin in Western Province, Papua New Guinea, 2001.
I AM SAILING AWAY
I am sailing away (to make my way)
To the place where the sun rises
To look for knowledge as a foothold in life for the time to come
Clouds at the peak of the blue mountain
Sad hearted but joyful
In the land of my ancestors
On a certain day tomorrow
I imagine the suffering of my people/nation
Mother, Father as well as people
That earthly land I leave behind with great yearning.
I am sailing away (to make my way)
To the place where the sun rises
To look for knowledge as a foothold in life for the time to come
Clouds at the peak of the blue mountain
Sad hearted but joyful
In the land of my ancestors
On a certain day tomorrow
I imagine the suffering of my people/nation
Mother, Father as well as people
That earthly land I leave behind with great yearning.
Contributed by Bartleby - 2011/3/30 - 13:19
PAPUA NUOVA GUINEA: SCONTRI “TRIBALI” A CAUSA DELLA MINIERA D'ORO NEW PORGERA LIMITED
Gianni Sartori
I recenti scontri in Papua Nuova Guinea sono stati descritti come conseguenza di “pratiche tradizionali tribali”, ma in realtà rappresentano l'irruzione della modernità legata allo sfruttamento minerario di territori rimasti finora, se pur parzialmente, incontaminati.
Qualche considerazione in merito agli “scontri tribali” intorno alla miniera d'oro a cielo aperto di Porgera in Papua Nuova Guinea (provincia di Enga). Tra le prime dieci più grandi miniere d'oro del mondo, dal valore di diversi miliardi di kina (un miliardo di kina corrisponde a 227 milioni di euro), rappresenta il 10% del valore delle esportazioni annuali del Paese.
A oltre duemila metri di altitudine e a circa 600 chilometri a nord-ovest di Port Moresby, la New Porgera Limited è oggi posseduta al 51% da azionisti papuani (la holding statale Kumul Minerals, l'amministrazione provinciale e i proprietari terrieri locali) e al 49% dalla Barrick Niugini (joint venture tra la canadese Barrick Gold e la cinese Zijin Mining).
Cinque anni fa il governo non aveva rinnovato la licenza alle compagnie straniere e nel 2020 la miniera veniva chiusa. Ma le attività riprendevano alla fine del 2023 (dopo lunghe trattative), nonostante gli indigeni avessero denunciato sia le ripetute violenze contro la popolazione da parte del personale di sicurezza, sia l'inquinamento di fiumi e terreni agricoli (resi improduttivi) a causa dello smaltimento delle scorie minerarie.
Questo per la cronaca.
Tornando ai recenti scontri, ritengo che sottolinearne l'aspetto “tribale” sia quantomeno riduttivo, fuorviante (direi anche “folcloristico”). Rischiando (forse intenzionalmente) di proiettare sul conflitto un equivoco. Ossia che si tratti di una manifestazione di brutale, ancestrale “primitivismo”. Roba da “selvaggi”.
Da un certo punto di vista (il mio, ovviamente) si tratta di una questione ben più prosaica, direi modernissima. Legata alla piaga planetaria dell'estrattivismo che agisce sempre in maniera devastante. Sia quando è gestito da qualche potenza neo-coloniale, sia quando è in mano alle “borghesie” locali.
Nel caso di Porgera direi che sono all'opera entrambe.
Nonostante i proventi della miniera vengano parzialmente ridistribuiti anche ai proprietari terrieri locali come forma di parziale compensazione per i danni ambientali.
Danni che però, diversamente dai profitti, si riversano indistintamente (“equamente” ?) su tutta la popolazione e sull'habitat.
Per cui, ripeto, il vero problema non sono i “tradizionali conflitti tribali” (resi comunque più devastanti dalla massiccia introduzione di moderne armi da fuoco automatiche), ma la presenza stessa della miniera.
Ossia più la “modernizzazione” indotta dall'estrattivismo che la sopravvivenza di pratiche tradizionali.
Gli scontri che hanno coinvolto centinaia di tribali, appartenenti a clan definiti “rivali” (concorrenti ?) erano iniziati in agosto e il 15 settembre sarebbero esplosi con particolare virulenza (si parla di centinaia di colpi di arma da fuoco). Forse alimentati - se non proprio innescati - anche dalla frana che in maggio aveva seppellito centinaia di abitanti dei villaggi costringendo i sopravvissuti – traumatizzati - allo sfollamento in condizioni precarie.
Il fatto contingente, scatenante degli ultimi episodi di violenza riguarderebbe la presenza dei cosiddetti “minatori illegali” (definiti “immigrati clandestini”) in conflitto aperto con i proprietari dei terreni da dove si estrae l'oro.
Secondo Al-Jazeera, negli scontri di domenica 15 settembre si sarebbero contate almeno 35 vittime (tra cui due funzionari della miniera in un agguato successivo) e centinaia di sfollati dopo che le loro case erano state date alle fiamme.
In un secondo tempo, Mate Bagossy, consigliere umanitario delle Nazioni Unite per la Papua-Nuova Guinea, indicava in almeno una cinquantina il numero delle persone rimaste uccise (in base alla testimonianza delle popolazioni locali).
Nemmeno l'applicazione di un severo copri-fuoco (con l'ordine di sparare a chiunque brandisca un'arma) e la proibizione della vendita di alcolici pare aver riportato alla calma.
Non mancavano i precedenti. Con 17 morti (quelli accertati) nel 2022 e almeno una trentina (tra cui 16 bambini) negli attacchi dell'inizio di quest'anno nella provincia del Sepik orientale.
Conseguenza inevitabile, la chiusura della miniera (per quanto temporanea, in attesa che “il governo ristabilisca la legge e l'ordine nella regione”) annunciata il 19 settembre dall'impresa mineraria canadese Barrik Gold. Concedendo ai dipendenti locali di prendere un congedo (non retribuito) per poter mettere al sicuro la famiglia.
Comunque sia, rimane il fatto incontestabile che – al di là della “ridistribuzione” più o meno equa dei profitti (all'origine del sanguinoso contenzioso) - l'attività della miniera sta inquinando e degradando irreparabilmente le acque e i terreni. Con conseguenze immaginabili per il futuro.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
I recenti scontri in Papua Nuova Guinea sono stati descritti come conseguenza di “pratiche tradizionali tribali”, ma in realtà rappresentano l'irruzione della modernità legata allo sfruttamento minerario di territori rimasti finora, se pur parzialmente, incontaminati.
Qualche considerazione in merito agli “scontri tribali” intorno alla miniera d'oro a cielo aperto di Porgera in Papua Nuova Guinea (provincia di Enga). Tra le prime dieci più grandi miniere d'oro del mondo, dal valore di diversi miliardi di kina (un miliardo di kina corrisponde a 227 milioni di euro), rappresenta il 10% del valore delle esportazioni annuali del Paese.
A oltre duemila metri di altitudine e a circa 600 chilometri a nord-ovest di Port Moresby, la New Porgera Limited è oggi posseduta al 51% da azionisti papuani (la holding statale Kumul Minerals, l'amministrazione provinciale e i proprietari terrieri locali) e al 49% dalla Barrick Niugini (joint venture tra la canadese Barrick Gold e la cinese Zijin Mining).
Cinque anni fa il governo non aveva rinnovato la licenza alle compagnie straniere e nel 2020 la miniera veniva chiusa. Ma le attività riprendevano alla fine del 2023 (dopo lunghe trattative), nonostante gli indigeni avessero denunciato sia le ripetute violenze contro la popolazione da parte del personale di sicurezza, sia l'inquinamento di fiumi e terreni agricoli (resi improduttivi) a causa dello smaltimento delle scorie minerarie.
Questo per la cronaca.
Tornando ai recenti scontri, ritengo che sottolinearne l'aspetto “tribale” sia quantomeno riduttivo, fuorviante (direi anche “folcloristico”). Rischiando (forse intenzionalmente) di proiettare sul conflitto un equivoco. Ossia che si tratti di una manifestazione di brutale, ancestrale “primitivismo”. Roba da “selvaggi”.
Da un certo punto di vista (il mio, ovviamente) si tratta di una questione ben più prosaica, direi modernissima. Legata alla piaga planetaria dell'estrattivismo che agisce sempre in maniera devastante. Sia quando è gestito da qualche potenza neo-coloniale, sia quando è in mano alle “borghesie” locali.
Nel caso di Porgera direi che sono all'opera entrambe.
Nonostante i proventi della miniera vengano parzialmente ridistribuiti anche ai proprietari terrieri locali come forma di parziale compensazione per i danni ambientali.
Danni che però, diversamente dai profitti, si riversano indistintamente (“equamente” ?) su tutta la popolazione e sull'habitat.
Per cui, ripeto, il vero problema non sono i “tradizionali conflitti tribali” (resi comunque più devastanti dalla massiccia introduzione di moderne armi da fuoco automatiche), ma la presenza stessa della miniera.
Ossia più la “modernizzazione” indotta dall'estrattivismo che la sopravvivenza di pratiche tradizionali.
Gli scontri che hanno coinvolto centinaia di tribali, appartenenti a clan definiti “rivali” (concorrenti ?) erano iniziati in agosto e il 15 settembre sarebbero esplosi con particolare virulenza (si parla di centinaia di colpi di arma da fuoco). Forse alimentati - se non proprio innescati - anche dalla frana che in maggio aveva seppellito centinaia di abitanti dei villaggi costringendo i sopravvissuti – traumatizzati - allo sfollamento in condizioni precarie.
Il fatto contingente, scatenante degli ultimi episodi di violenza riguarderebbe la presenza dei cosiddetti “minatori illegali” (definiti “immigrati clandestini”) in conflitto aperto con i proprietari dei terreni da dove si estrae l'oro.
Secondo Al-Jazeera, negli scontri di domenica 15 settembre si sarebbero contate almeno 35 vittime (tra cui due funzionari della miniera in un agguato successivo) e centinaia di sfollati dopo che le loro case erano state date alle fiamme.
In un secondo tempo, Mate Bagossy, consigliere umanitario delle Nazioni Unite per la Papua-Nuova Guinea, indicava in almeno una cinquantina il numero delle persone rimaste uccise (in base alla testimonianza delle popolazioni locali).
Nemmeno l'applicazione di un severo copri-fuoco (con l'ordine di sparare a chiunque brandisca un'arma) e la proibizione della vendita di alcolici pare aver riportato alla calma.
Non mancavano i precedenti. Con 17 morti (quelli accertati) nel 2022 e almeno una trentina (tra cui 16 bambini) negli attacchi dell'inizio di quest'anno nella provincia del Sepik orientale.
Conseguenza inevitabile, la chiusura della miniera (per quanto temporanea, in attesa che “il governo ristabilisca la legge e l'ordine nella regione”) annunciata il 19 settembre dall'impresa mineraria canadese Barrik Gold. Concedendo ai dipendenti locali di prendere un congedo (non retribuito) per poter mettere al sicuro la famiglia.
Comunque sia, rimane il fatto incontestabile che – al di là della “ridistribuzione” più o meno equa dei profitti (all'origine del sanguinoso contenzioso) - l'attività della miniera sta inquinando e degradando irreparabilmente le acque e i terreni. Con conseguenze immaginabili per il futuro.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2024/9/19 - 12:15
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Note for non-Italian users: Sorry, though the interface of this website is translated into English, most commentaries and biographies are in Italian and/or in other languages like French, German, Spanish, Russian etc.
Testo in lingua biak trovato sulla tesi di laurea dell’australiana Diana Glazebrook intitolata Dwelling in exile, perceiving return - West Papuan refugees from Irian Jaya living at East Awin in Western Province, Papua New Guinea, 2001.
Una canzone – secondo me - molto importante.
Intanto credo che sulle CCG/AWS questa sia la prima canzone in biak , una lingua austronesiana parlata nelle isole dell’arcipelago di Papua, cioè la parte occidentale della Nuova Guinea, quella facente parte dell’Indonesia.
E soprattutto si tratta del testamento spirituale di un uomo che difese fino alla morte l’identità culturale delle popolazioni native di quell’area, che dalla dominazione olandese passarono all’inizio degli anni 60 sotto quella indonesiana, conoscendo quattro decenni di feroce repressione da parte del Kopassus, le famigerate forze speciali dell’esercito di Giakarta.
Arnold Ap era un antropologo, curatore del museo dell’università Cenderawasih di Jayapura, ed era un musicista. Nel 1978 fondò i Mambesak (“Uccello splendente”), un gruppo folklorico dedito alla riscoperta della musica e delle danze tradizionali della regione. All’epoca Arnold Ap conduceva anche un seguìto programma radiofonico di cultura locale nel corso del quale non mancava di evidenziare i problemi esistenti, come la militarizzazione della regione, gli abusi dell’esercito e le emergenze ambientali dovute allo sfruttamento minerario. Al regime di Giakarta bastò questo per etichettare Arnold Ap come un simpatizzante dell’organizzazione indipendentista “Free Papua Movement” (OPM), come un nemico giurato. Nel novembre del 1983 Arnold Ap fu arrestato dal Kopassus, imprigionato senza imputazione e torturato. Nei mesi successivi gli fu consentito di scrivere, comporre e financo di registrare canzoni ma lui sapeva – come dice un proverbio locale – che “Il nemico va ben nutrito prima di ucciderlo”. E così accadde: il 26 aprile del 1984 morì in un ospedale militare dove era giunto poco prima – dissero – ferito dopo uno scontro a fuoco con i soldati indonesiani in seguito ad un tentativo di fuga. In realtà la tentata evasione non fu mai documentata e testimoni riferirono di aver trovato Arnold Ap, ferito a morte a colpi di baionetta, giacente su di una spiaggia vicino ad Jayapura e che solo dopo la segnalazione fosse stato portato all’ospedale militare di Aryoko.
Nella sua “Yaso Yayun” – “I am sailing away”, “Sto per salpare, per andare lontano, verso la terra dei miei antenati” - scritta nelle settimane di prigionia, Arnold Ap aveva in qualche modo prefigurato la sua fine e la prosecuzione della sofferenza della sua gente…