Ma che trovata simpatica, un fatto quasi irreale
garantirci tutte quante le comodità
davanti a un mondo che muore
E' una pensata alquanto diabolica da soluzione finale
risolvere il problema della povertà
facendo guerra a chi ha fame
in un momento qualunque
bussando forte alla porta
e poco importa se sarà il vento o una tempesta di emozioni
forse è soltanto la vita che
ci viene a cercare dopo un'attesa infinita finalmente
ci ritroverà
ah, ah, Ambaradan, la vita che verrà
Chissà poi che significa tutto questo Ambaradan
è il caos che si moltiplica la protesta e il can can
I potenti hanno avuto una magnifica idea
per tirarsi fuori in modo geniale
è il mercato la colpa di ogni disparità
che intuito micidiale
in un momento qualunque
bussando forte alla porta
e poco importa se sarà il vento o qualcuno con cattive intenzioni
forse è soltanto la vita che
ci viene a cercare.
garantirci tutte quante le comodità
davanti a un mondo che muore
E' una pensata alquanto diabolica da soluzione finale
risolvere il problema della povertà
facendo guerra a chi ha fame
in un momento qualunque
bussando forte alla porta
e poco importa se sarà il vento o una tempesta di emozioni
forse è soltanto la vita che
ci viene a cercare dopo un'attesa infinita finalmente
ci ritroverà
ah, ah, Ambaradan, la vita che verrà
Chissà poi che significa tutto questo Ambaradan
è il caos che si moltiplica la protesta e il can can
I potenti hanno avuto una magnifica idea
per tirarsi fuori in modo geniale
è il mercato la colpa di ogni disparità
che intuito micidiale
in un momento qualunque
bussando forte alla porta
e poco importa se sarà il vento o qualcuno con cattive intenzioni
forse è soltanto la vita che
ci viene a cercare.
Il 19 Febbraio è il giorno della memoria del popolo etiopico, in ricordo del massacro compiuto dai fascisti il 19 gennaio 1937.
Pensavo di trovare qui un percorso che ricordasse questo evento ed altri simili, ma mi rendo conto che le canzoni che si trovano su internet relativamente a questo periodo sono solo gli inni fascisti.
Sarebbe bello che qualcuno che conosce le lingue parlate in quella zona trovasse e postasse le canzoni che raccontano la vera storia.
Pensavo di trovare qui un percorso che ricordasse questo evento ed altri simili, ma mi rendo conto che le canzoni che si trovano su internet relativamente a questo periodo sono solo gli inni fascisti.
Sarebbe bello che qualcuno che conosce le lingue parlate in quella zona trovasse e postasse le canzoni che raccontano la vera storia.
silva - 2013/2/5 - 16:19
Come nel 2019 e nel 2021, anche quest'anno un nuovo Stato federale viene istituito tramite referendum in Etiopia. Una garanzia di stabilità sociale oppure il preludio a ulteriori divisioni?
ETIOPIA: NASCE IL 12° STATO FEDERALE
Gianni Sartori
Risaliva al 2019 la dichiarazione ufficiale della nascita di un decimo stato federale (regionale autonomo), il Sidama.
Come conseguenza del referendum di autodeterminazione del gruppo etnico Sidama (2 novembre 2019). Un referendum a cui - stando ai dati ufficiali - aveva partecipato la quasi totalità degli aventi diritto (99,7%) con il 98,5% di voti a favore dell’autonomia. Nel novembre 2021, sempre tramite referendum, se ne era poi aggiunto un altro, lo Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud (SNNPR, in lingua amarica: የደቡብ ምዕራብ ኢትዮጵያ ህዝቦች ክልል).
All’epoca, della SNNPR facevano parte le zone amministrative di Keffa, Sheka, Bench Sheko, Dawro, West Omo Zones e il distretto speciale di Konta.
Ora, si diceva, nasce il 12°. Anche se in realtà è frutto di un distacco dalla SNNPR in quanto le sei zone amministrative (Konso, South Omo, Wolayta, Gamo, Gedeo, Gofa) e i cinque distretti speciali (Burji, Basketo, Ale, Amaro, Dirashe), ora autonome, precedentemente ne facevano parte.
Quella di questi giorni è stata comunque una conferma di quanto già si prevedeva al momento del referendum (6 febbraio 2023). Infatti la maggioranza degli aventi diritto (circa tre milioni) delle sei zone amministrative e dei cinque distretti speciali ha votato a favore della nascita del SNNP.
La Commissione elettorale nazionale, incaricata del controllo dei risultati, ha tuttavia sospeso provvisoriamente le decisioni per Wolayta a causa delle evidenti irregolarità (frodi elettorali, consegna di carte d’identità provvisorie…) che hanno segnato il referendum in questa zona e su cui stanno svolgendo indagini.
Il sistema di “federalismo-etnico” (fondato principalmente su criteri linguistici oltre che geografici) venne introdotto nel 1995. Nella prospettiva di garantire stabilità politica e tenuta sociale a un Paese di 120 milioni di abitanti in cui sono presenti oltre 80 etnie.
In realtà, secondo alcuni osservatori, avrebbe talvolta rischiato di alimentare ulteriormente rivendicazioni territoriali e scontri identitari. Favorendo anche - come forse nel caso del SNNP - ulteriori frammentazioni.
Gianni Sartori
ETIOPIA: NASCE IL 12° STATO FEDERALE
Gianni Sartori
Risaliva al 2019 la dichiarazione ufficiale della nascita di un decimo stato federale (regionale autonomo), il Sidama.
Come conseguenza del referendum di autodeterminazione del gruppo etnico Sidama (2 novembre 2019). Un referendum a cui - stando ai dati ufficiali - aveva partecipato la quasi totalità degli aventi diritto (99,7%) con il 98,5% di voti a favore dell’autonomia. Nel novembre 2021, sempre tramite referendum, se ne era poi aggiunto un altro, lo Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud (SNNPR, in lingua amarica: የደቡብ ምዕራብ ኢትዮጵያ ህዝቦች ክልል).
All’epoca, della SNNPR facevano parte le zone amministrative di Keffa, Sheka, Bench Sheko, Dawro, West Omo Zones e il distretto speciale di Konta.
Ora, si diceva, nasce il 12°. Anche se in realtà è frutto di un distacco dalla SNNPR in quanto le sei zone amministrative (Konso, South Omo, Wolayta, Gamo, Gedeo, Gofa) e i cinque distretti speciali (Burji, Basketo, Ale, Amaro, Dirashe), ora autonome, precedentemente ne facevano parte.
Quella di questi giorni è stata comunque una conferma di quanto già si prevedeva al momento del referendum (6 febbraio 2023). Infatti la maggioranza degli aventi diritto (circa tre milioni) delle sei zone amministrative e dei cinque distretti speciali ha votato a favore della nascita del SNNP.
La Commissione elettorale nazionale, incaricata del controllo dei risultati, ha tuttavia sospeso provvisoriamente le decisioni per Wolayta a causa delle evidenti irregolarità (frodi elettorali, consegna di carte d’identità provvisorie…) che hanno segnato il referendum in questa zona e su cui stanno svolgendo indagini.
Il sistema di “federalismo-etnico” (fondato principalmente su criteri linguistici oltre che geografici) venne introdotto nel 1995. Nella prospettiva di garantire stabilità politica e tenuta sociale a un Paese di 120 milioni di abitanti in cui sono presenti oltre 80 etnie.
In realtà, secondo alcuni osservatori, avrebbe talvolta rischiato di alimentare ulteriormente rivendicazioni territoriali e scontri identitari. Favorendo anche - come forse nel caso del SNNP - ulteriori frammentazioni.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2023/2/24 - 23:10
MA IN AFRICA: CHI TERRORIZZA CHI?
Gianni Sartori
Come era già accaduto - e non solo in Africa - la qualifica di “terrorista” può talvolta venir applicata anche a sproposito (o comunque con il beneficio del dubbio).
In base alla situazione, al contesto, agli interessi in gioco in quel momento storico. Vedi il caso dei Curdi o, in passato, dei Neri del Sudafrica all’epoca dell’apartheid.
Qualcosa del genere sembra stia accadendo in questi giorni confrontando due esempi da manuale: il primo in Etiopia (dove un'organizzazione viene tolta dalla l"ista nera"), l’altro nel Ciad (dove con l'accusa di "terrorismo" si infliggono centinaia di ergastoli in maniera quantomeno sommaria).
Nel novembre dell’anno scorso (dopo dieci giorni di trattative in Sudafrica) si concordava tra i ribelli del Tplf (Fronte di liberazione del popolo del Tigray) e il governo etiopico la “cessazione permanente delle ostilità e il disarmo sistematico, ordinato, regolare e coordinato (delle milizie tigrine che stavano per consegnare le armi pesanti nda)”. Ponendo termine, almeno per ora, a due anni di sanguinosa guerra civile, con oltre mezzo milione di vittime e milioni di sfollati. Un conflitto fratricida in cui entrambi i contendenti (così come l’Eritrea scesa in campo a fianco dell’Etiopia e le milizie etniche) si erano resi responsabili di crimini di guerra (stupri, pulizia etnica…).
Forse parlare di “accordi di Pace” veri e propri era prematuro, ma comunque si stava imboccando la strada giusta.
Veniva infatti trovato un accordo anche in materia di sicurezza e per il ritorno ad una vita, compatibilmente con il contesto, normale. Ossia “il ripristino dell’ordine pubblico e dei servizi pubblici, l’accesso senza ostacoli alle forniture umanitarie, la protezione dei civili”.
Nella dichiarazione congiunta si evocava “un programma dettagliato di disarmo (…) e il ripristino dell’ordine costituzionale nel Tigray”.
Così da “mettere a tacere permanentemente le armi e fermare ogni forma di conflitto e propaganda ostile”.
E’ di questi giorno la notizia di un altro fondamentale passo avanti: la decisione del Parlamento di rimuovere il Tplf dall’elenco delle organizzazioni terroristiche. Con una importante conseguenza (assai probabile anche se non ancora confermata): il venir meno delle accuse di terrorismo nei confronti di molti funzionari tigrini. In particolare per Getachew Reda, già portavoce del Tplf e indicato come l’uomo destinato ad amministrare ad interim la regione fino alle prossime elezioni.
Di segno diametralmente opposto quanto è accaduto nel Ciad. Il processo per la morte del presidente Idriss Déby (risalente al 20 aprile 2021 e avvenuta in circostanze poco chiare) si è appena concluso con la condanna all’ergastolo di circa 400 appartenenti al “Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad” per “atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello stato”.
Un processo a porte chiuse - definito da alcuni osservatori “sommario” - che si è svoltonel carcere di Klessoum (nei pressi di N’Djamena).
La morte del presidente (insieme a quella di almeno sette generali ciadiani) era avvenuta, almeno ufficialmente, mentre guidava di persona l’esercito del Ciad contro le milizie ribelli che si dirigevano all’assalto della capitale.
Come è noto Idriss Deby, nonostante la fama di dittatore (era rimasto al potere per oltre un trentennio),godeva di una certa simpatia in Francia. In quanto l’esercito ciadiano rappresentava la spina dorsale del G5 Sahel (insieme a Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad) nel contenimento delle milizie jihadiste nel Sahel.
Dopo la morte di Idriss Deby veniva nominato presidente suo figlio, il generaleMahamat Idriss Déby Itno. A cui toccava il compito di governare a capo di una giunta militare. In teoria per traghettare il paese verso la democrazia con le elezioni previste entro il 2024.
Nel frattempo governo e parlamento venivano sciolti e sostituiti da un Consiglio militare di transizione (Cmt). Da allora la cosiddetta “transizione” è stata regolarmente boicottata sia dai partiti dell’opposizione che da alcuni gruppi armati dissidenti. Il bilancio alla fine dell’anno scorso era di continue proteste violente, scontri e manifestazioni sia nella capitale N’Djamena che in altre città (Moundou, Koumra…). Con centinaia di morti e feriti.
In una sola giornata di protesta, 20 ottobre 2022, le vittime tra i manifestanti erano state una cinquantina.
E la repressione, ca va sans dire, ha colpito con durezza partiti e movimenti dell’opposizione. In particolar modo il partito Transformateurs, il Partito socialista e Wakit Tamma (“È giunta l’ora”, un movimento della società civile).
Il 5 gennaio 2023 il governo (la Giunta) del Ciad comunicava di aver sventato un “tentativo di destabilizzazione” rivolto contro “l’ordine costituzionale e le istituzioni della repubblica”. Stando al comunicato ufficiale si sarebbe trattato di “un piano elaborato da un gruppo ristretto di cospiratori costituito da undici affilai dell’esercito guidati da Baradine Berdei Targuio”. Ossia dal presidente dell’Organisation tchadienne des droits humains (OTDH, fondata nel 2006).
Nei confronti dei “cospiratori” (veri o presunti) pesanti accuse di “attentato all’ordine costituzionale, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi fuoco e complicità”.
I processi sarebbero (condizionale d’obbligo) già in corso.
Baradine Berdei Targuio, noto per le sue critiche alle politiche governative, era già stato condannato nel febbraio 2021 per “attacco all’ordine costituzionale”. In quanto autore di uno scritto in cui sosteneva che Idriss Deby Itno era “gravemente malato e in ospedale”. Ipotesi non priva di fondamento, ma che verrà cancellata dalla quanto mai opportuna morte eroica in combattimento (una messinscena ?) del presidente-dittatore.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Come era già accaduto - e non solo in Africa - la qualifica di “terrorista” può talvolta venir applicata anche a sproposito (o comunque con il beneficio del dubbio).
In base alla situazione, al contesto, agli interessi in gioco in quel momento storico. Vedi il caso dei Curdi o, in passato, dei Neri del Sudafrica all’epoca dell’apartheid.
Qualcosa del genere sembra stia accadendo in questi giorni confrontando due esempi da manuale: il primo in Etiopia (dove un'organizzazione viene tolta dalla l"ista nera"), l’altro nel Ciad (dove con l'accusa di "terrorismo" si infliggono centinaia di ergastoli in maniera quantomeno sommaria).
Nel novembre dell’anno scorso (dopo dieci giorni di trattative in Sudafrica) si concordava tra i ribelli del Tplf (Fronte di liberazione del popolo del Tigray) e il governo etiopico la “cessazione permanente delle ostilità e il disarmo sistematico, ordinato, regolare e coordinato (delle milizie tigrine che stavano per consegnare le armi pesanti nda)”. Ponendo termine, almeno per ora, a due anni di sanguinosa guerra civile, con oltre mezzo milione di vittime e milioni di sfollati. Un conflitto fratricida in cui entrambi i contendenti (così come l’Eritrea scesa in campo a fianco dell’Etiopia e le milizie etniche) si erano resi responsabili di crimini di guerra (stupri, pulizia etnica…).
Forse parlare di “accordi di Pace” veri e propri era prematuro, ma comunque si stava imboccando la strada giusta.
Veniva infatti trovato un accordo anche in materia di sicurezza e per il ritorno ad una vita, compatibilmente con il contesto, normale. Ossia “il ripristino dell’ordine pubblico e dei servizi pubblici, l’accesso senza ostacoli alle forniture umanitarie, la protezione dei civili”.
Nella dichiarazione congiunta si evocava “un programma dettagliato di disarmo (…) e il ripristino dell’ordine costituzionale nel Tigray”.
Così da “mettere a tacere permanentemente le armi e fermare ogni forma di conflitto e propaganda ostile”.
E’ di questi giorno la notizia di un altro fondamentale passo avanti: la decisione del Parlamento di rimuovere il Tplf dall’elenco delle organizzazioni terroristiche. Con una importante conseguenza (assai probabile anche se non ancora confermata): il venir meno delle accuse di terrorismo nei confronti di molti funzionari tigrini. In particolare per Getachew Reda, già portavoce del Tplf e indicato come l’uomo destinato ad amministrare ad interim la regione fino alle prossime elezioni.
Di segno diametralmente opposto quanto è accaduto nel Ciad. Il processo per la morte del presidente Idriss Déby (risalente al 20 aprile 2021 e avvenuta in circostanze poco chiare) si è appena concluso con la condanna all’ergastolo di circa 400 appartenenti al “Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad” per “atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello stato”.
Un processo a porte chiuse - definito da alcuni osservatori “sommario” - che si è svoltonel carcere di Klessoum (nei pressi di N’Djamena).
La morte del presidente (insieme a quella di almeno sette generali ciadiani) era avvenuta, almeno ufficialmente, mentre guidava di persona l’esercito del Ciad contro le milizie ribelli che si dirigevano all’assalto della capitale.
Come è noto Idriss Deby, nonostante la fama di dittatore (era rimasto al potere per oltre un trentennio),godeva di una certa simpatia in Francia. In quanto l’esercito ciadiano rappresentava la spina dorsale del G5 Sahel (insieme a Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad) nel contenimento delle milizie jihadiste nel Sahel.
Dopo la morte di Idriss Deby veniva nominato presidente suo figlio, il generaleMahamat Idriss Déby Itno. A cui toccava il compito di governare a capo di una giunta militare. In teoria per traghettare il paese verso la democrazia con le elezioni previste entro il 2024.
Nel frattempo governo e parlamento venivano sciolti e sostituiti da un Consiglio militare di transizione (Cmt). Da allora la cosiddetta “transizione” è stata regolarmente boicottata sia dai partiti dell’opposizione che da alcuni gruppi armati dissidenti. Il bilancio alla fine dell’anno scorso era di continue proteste violente, scontri e manifestazioni sia nella capitale N’Djamena che in altre città (Moundou, Koumra…). Con centinaia di morti e feriti.
In una sola giornata di protesta, 20 ottobre 2022, le vittime tra i manifestanti erano state una cinquantina.
E la repressione, ca va sans dire, ha colpito con durezza partiti e movimenti dell’opposizione. In particolar modo il partito Transformateurs, il Partito socialista e Wakit Tamma (“È giunta l’ora”, un movimento della società civile).
Il 5 gennaio 2023 il governo (la Giunta) del Ciad comunicava di aver sventato un “tentativo di destabilizzazione” rivolto contro “l’ordine costituzionale e le istituzioni della repubblica”. Stando al comunicato ufficiale si sarebbe trattato di “un piano elaborato da un gruppo ristretto di cospiratori costituito da undici affilai dell’esercito guidati da Baradine Berdei Targuio”. Ossia dal presidente dell’Organisation tchadienne des droits humains (OTDH, fondata nel 2006).
Nei confronti dei “cospiratori” (veri o presunti) pesanti accuse di “attentato all’ordine costituzionale, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi fuoco e complicità”.
I processi sarebbero (condizionale d’obbligo) già in corso.
Baradine Berdei Targuio, noto per le sue critiche alle politiche governative, era già stato condannato nel febbraio 2021 per “attacco all’ordine costituzionale”. In quanto autore di uno scritto in cui sosteneva che Idriss Deby Itno era “gravemente malato e in ospedale”. Ipotesi non priva di fondamento, ma che verrà cancellata dalla quanto mai opportuna morte eroica in combattimento (una messinscena ?) del presidente-dittatore.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2023/3/24 - 23:04
ETIOPIA-ARABIA SAUDITA: MIGRANTI USA E GETTA
Gianni Sartori
Il ruolo dell’Etiopia? Anche quello di serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita
Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo etiopico e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM).
Per l'occasione un accorato appello veniva ricolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350mila. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).
Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per “garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati” (leggi: non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite).
Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750mila i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450mila vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.
In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori, “addomesticarli" per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara* ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del ”mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.
Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.
Come aveva denunciato Human Rights Wath “per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia”.
Stando a quanto riportava Al Jazeera, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verrano poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba
Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.
Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
“In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500mila etiopiche, tra cui 150mila dalla regione Amhara”.
Niente di nuovo sotto il sole naturalmete. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semi-schiavitù.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.
Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali. Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di “integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (ENDF) e delle forze di polizia federale”.
Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello Stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.
Quindi, per il governo centrale, “sì” alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma “no” all’autodeterminazione regionale.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Il ruolo dell’Etiopia? Anche quello di serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita
Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo etiopico e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM).
Per l'occasione un accorato appello veniva ricolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350mila. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).
Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per “garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati” (leggi: non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite).
Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750mila i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450mila vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.
In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori, “addomesticarli" per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara* ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del ”mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.
Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.
Come aveva denunciato Human Rights Wath “per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia”.
Stando a quanto riportava Al Jazeera, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verrano poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba
Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.
Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
“In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500mila etiopiche, tra cui 150mila dalla regione Amhara”.
Niente di nuovo sotto il sole naturalmete. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semi-schiavitù.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.
Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali. Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di “integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (ENDF) e delle forze di polizia federale”.
Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello Stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.
Quindi, per il governo centrale, “sì” alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma “no” all’autodeterminazione regionale.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2023/4/20 - 10:44
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Album: Alla bellezza dei margini
"Una filastrocca 'semplice semplice' che parla degli esclusi e della vita che verrà e che gli Yo Yo Mundi hanno dedicato: "a tutti coloro i quali si battono per un altro mondo possibile".
(Semmy, dalla mailing list "Bielle"; commento originale alla primitiva raccolta delle CCG)
"L'Amba Aradam è un'amba (rilievo montuoso) situato a Sud di Macallè e 100 km a Nord di Addis Abeba (Etiopia), nella zona del Debra Behan. Il monte è noto principalmente per la battaglia che le truppe italiane guidate dal duca di Pistoia combatterono per conquistarla il 15 febbraio 1936, e per il massacro avvenuto tre anni dopo, per reprimere la resistenza etiope.
Questo episodio fu parte della più vasta serie di operazioni militari svolte nel contesto della battaglia dell'Endertà (guerra d'Etiopia).
Tra il 9 e l'11 aprile 1939, una carovana di partigiani guidati da Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione Etiope, fu individuata dall'aviazione italiana e si rifugiò nella grotta di Amezena Washa (Antro dei Ribelli) del monte Amba Aradam.
La carovana era composta da membri della resistenza, ma anche dai loro parenti, che garantivano la cura dei feriti, oltre che da donne, vecchi e bambini.
Il 9 aprile 1939 il plotone chimico della divisione Granatieri di Savoia attaccò i partigiani di Aregai usando bombe a gas d'arsina ed iprite. Solo quindici persone riuscirono a scappare dalla grotta. La maggior parte di quanti vi si erano rifiugiati morì. Ottocento persone arresesi all'alba dell' 11 aprile furono fucilate. Coloro che all'interno della grotta continuarono la resistenza furono uccisi con lanciafiamme.
Le estese ramificazioni della grotta resero molto difficile esplorarla per stanare i membri della resistenza che ancora vi si rifugiavano. Il comando militare italiano diede quindi ordine di ostruirla: Gli eventi accaduti in questa località hanno originato il termine italiano ambaradan.
A Roma una famosa via porta il nome di 'Via Amba Aradam'.
Anche a Genova, Lainate e Mestre esistono vie che portano il nome di 'Via Amba Aradam'."
Come si può vedere, questo termine ci riporta a questo "fulgido" episodio dei famosi "italiani brava gente", che nelle guerre di aggressione coloniale si comportavano né più e né meno come i nazisti. Ciononostante, a Roma e in diverse altre città continuano a sussistere strade che gli sono state dedicate [CCG/AWS Staff]