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Riccardo Venturi: Lettera alla fidanzata

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Langue: italien


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[25 giugno 1990]
Testo di Riccardo Venturi
Musica contenuta in sé.

cardo

Se Marco Valdo e Luciano accettano il gioco

Stasera ho visto la traduzione di “Gulliver” fatta da Marco Valdo M.I. (e anche da Luciano, I suppose). Straordinaria, come sempre; ma, una volta tanto, vorrei parlare piuttosto della loro traduzione del commento da me scritto a suo tempo, seppure a nome del mio "alter ego" (o eteronimo) Ahmed il Lavavetri. Proponendo a Luciano e Marco Valdo un gioco; o, meglio, la sua continuazione.

Nel commento a “Gulliver” (“Lemuele Sgrùlliver”), a un certo punto, c'è quanto segue:
”E nelle imprecisioni belle del girare a vuoto, nel mondo suo notturno sconfinato, sentiva confusioni un po' asfodeliche d'un piano, sentiva Niccolò che in casa sua gli entrava piano, sentiva entrare in circolo gli aromi da isolano, sentiva chiacchierare con la luna il Teresano, sentiva rapinare qualche banca arma alla mano, sentiva una stellina salutarlo in modo urbano, sentiva Marcovaldo che ragliava con Luciano, sentiva l'ananar che s'affettava sul ripiano, sentiva l'Alimonda alimondare lo scherano, sentiva pure un bimbo che piangeva piano piano, sentiva la Rosanna far l'amore con Cirano, sentiva morti strani conversare su a Trespiano, sentiva l'Arno scorrere tranquillo e un po' ruffiano, sentiva tutto il mondo respirare da lontano.”
Mettendomi nei panni di Marco Valdo e Luciano (peraltro nominati espressamente nel brano, tanto per continuare le rime in -ano), ho già le mani nei capelli davanti a una cosa del genere. Anche perché, a differenza dei due poveri traduttori, io so da dove viene. E ora ve lo racconto un po'. Di notte, come s'impone per una cosa del genere.

Ciò che segue è, in sintesi e in definitiva, una cosa dall'origine abbastanza banale: la fine di una, peraltro lunga, storia d'amore. Solo che, di solito, si scrive della fine di una storia dopo, appunto, che è terminata; io ne scrissi tre anni prima. In una sorta di lucida trance, un pomeriggio nella cantina condominiale che era la mia vecchia stanza, mi misi alla macchina per scrivere e cominciai a ticchettare come un ossesso, senza fermarmi, per quindici o venti minuti. Senza quasi respirare. Quasi fosse un caso di scrittura automatica, le parole e i versi mi venivano da soli, come se l'essere fisico "Riccardo Venturi" non ne fosse che il tramite, lo strumento. Avevo, all'epoca, una condizione mentale non semplice che, a volte, esplodeva in cose del genere. Dico “esplodeva”, perché c'è un fattore da considerare: tre anni dopo, quando la storia effettivamente finì, mi accorsi che quella cosa che avevo scritto ne era la cronaca, precisa fin nei dettagli. La cronaca non soltanto della fine, ma di quel che venne dopo. Me l'ero, in breve, immaginata. Predetta da solo. Ma in un linguaggio assolutamente endofasico, che doveva essermi salito dai recessi più profondi. E la dicitura “musica contenuta in sé”, che ho apposto a questa cosa, significa che era davvero la canzone di me stesso. Una canzone che mi era davvero venuta fuori senza che ci fosse bisogno di comporre nessuna musica. Ce l'aveva gia dentro, tutta sua. E così l'ho sempre considerata: una canzone. Mai una “poesia”, o robaccia del genere.

È la canzone di chi vive una separazione dolorosa, come lo fu. Narrata come fosse un viaggio in terre ignote (come Gulliver, appunto), o meglio in un'aspra contrada chiamata Casalverminoso. Casalverminoso è la terra di chiunque si ritrovi a vivere il distacco, e raccontare un distacco significa principalmente aggrapparsi a qualsiasi cosa si abbia ancora dentro. Al tempo stesso, essendo venuta fuori anni prima del suo verificarsi, è anche la cronaca precisa di una paura primordiale, e la paura ha anch'essa un linguaggio tutto suo. Di una paura, e della serie di rabbie che si avranno quando gli eventi saranno accaduti. Ma è anche altre cose. È la descrizione di tutta una serie di gesti, di segreti, di stratagemmi; è, infine, l'espressione del corollario eterno di qualsiasi dolore, e di qualunque natura: la speranza. In tutto questo ammasso di bagliori subliminali e di glossolalìe, quand'ebbi a nominare la speranza dovetti farlo con parole chiarissime.

A chi non “dovrà” tradurre questa cosa dico semplicemente: non so se vi “piacerà” o meno. Non mi sono mai posto la domanda se sia “bella” o “brutta”. Comunque sia, non è una cosa che vi capiterà di leggere tutti i giorni. Se v'interesserà di leggerla, fatelo come ho fatto sempre io: datele un ritmo e non vi chiedete mai cosa “vogliano dire” certe parole. Non lo so nemmeno io che l'ho scritta, cosa significhi, che so io, strapuntacolubrine o cosa siano i marasmi ammazzafango. Quando dico La quercia s'algoritma fogliante lavandera è pura invenzione verbale. Oppure affidare alle parole la funzione della musica, visto che la musica, quella vera, non l'ho mai saputa imparare.

A Marco Valdo e a Luciano, se accetteranno il gioco di tradurla in francese, invece suggerisco di prendere tutto ciò proprio come un gioco. Non dovranno “tradurla”, ma riscriverla; inventando a loro volta parole liberamente in modo da mantenere la musica. Si chiederanno forse: ma il commento a “Gulliver” cosa c'entra, visto che è stato preso come punto di partenza per questo massimamente folle tra gli Extra? C'entra, perché quando lo ho scritto, quel commento, per la prima volta dopo quasi vent'anni mi si sono riaffacciate nella testa quella particolare trance, quella particolare condizione, quella particolare tecnica descrittiva che percorre la terra di nessuno tra la coscienza e l'inconscio. Stavolta per raccontare brevemente il presente, e il viaggio che continua (ma senza più essere, fortunatamente, a Casalverminoso). Un viaggio di tutti, probabilmente: si chiama vita.

Non mi era più accaduto dal 25 giugno 1990. Addirittura, nello scrivere il commento, ho ripreso una “parola” dalla Lettera: asfodeliche. Come fosse un lungo ponte, o un vulcano che mi dorme dentro. A Marco Valdo e Luciano lascio quindi il gioco, anche come segno di considerazione e ringraziamento per tutto ciò che fanno per questo sito; e ricordo loro che nel mio nome è contenuto un cardo. Uno dei mangiari preferiti dagli asini. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo...
Alla sig.na ***
Casalverminoso, Terra di Dürnés, 25 giugno 1990.


Ti scrivo, cara, appeso a una rupe metastatica
Che si protende astrusa su questa balza erratica
Di Casalverminoso, borgo un dì brulicante
Scomparso fra le nevi, vestito da emigrante.

Perduto ormai da tempo, da ottomila ore
Nel Mar delle Astrosfingi, Cristo Pantocratore,
Come tappo sturato da una bottiglia grigia
Facendo spola fra l’eterno e la battigia

Mi carico di vino, velluto galiziano
Lontano dal ricordo, con una pipa in mano
Strapiena di Latakia* sul precipizio umano
Pretesco rosmarino color di tuberosa.

Dardeggiano le falci dei sassi molibdeni,
M’interrogo sul piano rimbalza-reggiseni;
La spada dei tramonti si mescola alle viole
D’un roseo, impaginato Sole Ventiquattr’Ore.

Questo il paesaggio antico; cartina senza dediche
M’immagino di scrivere le lettere asfodeliche:
A denti larghi nuotano i verbi e gli aggettivi
Gettando giù la maschera dei ritmi positivi

E viene il matto ancora coi pugni stretti, lenti
A correrti sul naso, a ricontarti i denti...
"Ti amo, eppur ti amo, che mai gran pena al co-o-o-o-r"
(Liquòr multicolòr, d’amor grande pallòr)

Cervello spaventato da sindrome formale
E valuta pregiata offerta a un temporale;
Che gatto nero, lucido mi sento questa sera!
Mi sento un po’ Falloppio vestito da habanera.

Dismunto e passalento rimpinzo le mattine;
Ti scrivo, cara, ancora, strapuntacolubrine
Rivedo a poco a poco quegli attimi e le mire,
Cannone un po’ sfiatato dell’arte senza lire

Recuperasperanze d’antico gran lignaggio
Mi verso nel bicchiere tre botti di coraggio,
Ti scrivo, cara, gonfio di liquidi odorosi
Cavando dalla terra la forza dei fangosi.

Eppure soffia soffia l’avana ross’(il vento
Raggiungerà le labbra più interne, che ardimento),
La stringa già s’allaccia quella figura nera,
La quercia s’algoritma, fogliante lavandera;

Eterno spampanarsi d’occhiate fumiganti
E lagrime arcinote sui pavimenti andanti;
In cotto, θέσαυρε**, d’oro, farai fatica d’oro
A riguardar le stelle su di un viso incoloro.

Ma già si piroetta su un goffo fortunale
Terrigna la civetta del senso siderale,
Ho barba corta e baffi da Groucho Marx cristiano
Perso nell’ebraismo di questo giorno strano
Mi vendo qui ai peggiori ceffi di terza mano.


E tu dove sarai? Mi chiedo da millanta
Secondi a saliscendi (e la gallina canta),
Nel gioco degli avvolti nascosti sensi oscuri
Non butta più la fonte degl’incerti futuri

Dov’è finito il seme che biancolatte sgorga
Da questa canna rosa, prima che se n’accorga?
!Ay, qué eres hermosa!, donna al condizionale
Dall’ombelico mobile, pozzo dell’animale

E poi saremmo liberi, volando in linea interna
Mangiando brina e gelo, bevendo galaverna...
Ti scrivo, cara, in aria, ma l’alma spersa duole
Come una scarpa vecchia cui han tolto le suole.

E allora ti dirai: E il succo della vita?
E’ un succo di discesa, succo di risalita;
Da vette di Parnasi che si struggono cinici
Rimontano i miei piedi come dei casi clinici:

L’immagine è speranza e la speranza è neve,
Si scioglie e già ricade, e si riforma lieve.
Dai camposanti al mare già si ricicla in sogno
Con quella foglia morbida curvata nel bisogno,

Come riso al mortaio, la pasta scombinata
Di luce vagolante sul buio arrampicata.
E vai sicura e lenta, forse turlupinata
Durissima e tremenda, dolce ed inamidata

Ma se si fa la conta, vedrai che esce il giudice
Con la toga pulita, e labbra molto sudice;
Trascuro la facciata, mi do alle impalcature,
Sospeso tra i limoni rifò le imbiancature,

Le mensole al computer, e i muri in pietra spenti
Ai quali un bruco asfittico ha già mostrato i denti.
V’ignorano le trine, marasmi ammazzafango
Ed io che m’allontano con millelire e un tango
Ti lancio sguardi esatti, sbagliato è tutto il resto
E zapperò le nuvole finché ‘unn’è buio pesto.


Se sale la riscossa, vedrai che parapiglia
Succede, e s’arrabatta già tutta la famiglia
Già museal-decrepita, cianuro di solfuro,
Metacrilato aldeide, s’ammorba di sicuro!

Lucreziaborgia indomita, eroe son di discordia
Sublime e un po’ infocato, pien di misericordia,
Paventano le pietre futuri da neurosi
Un po’ più mollicosi, persino zuccherosi.

Ti scrivo da una vita, non ho finito ancora,
Mi piego gli avambracci da un secolo ed un’ora
Preciso come un fuso, felice dei silenzi
Io mi reinventerò come killer d'assenzi

Tu, enorme sparapetali, guardiana della legna
O Domina, t’affido quest’ultima consegna:
Ritorcimi le unghie, molesta-surrenali
Regina dei millesimi sfioranti carnevali.

Son qui su questa rupe, te lo volevo dire
Prima che il tempo corra, e che vada a sparire;
E mi ricordo un giorno, venivi a perdifiato
Ad incontrar daltonico, e un po’ terremotato

Un verdesporco esangue dai padiglioni lerci
È ora di pensarci, è ora di vederci.
Ma il fluido del passato ha invaso tutto ormai,
Rimedio ai guai sarà passar degli altri guai

E sperso tra le viti, ahimé, un dì volgerommi
A guardar senza fiato cavalli, lemmi e commi
Con fra le mani un cardo ed anche un naturàl
(Shiseido) a cavalcioni d’aurora boreàl.

Da Casalverminoso ti scrivo cara e chiudo
E infrancobollo il canto dei guardo e non m’illudo.
Ho un male millimetrico al terzo o quarto osso
E non ti posso stringere, ma forse posso, posso.

envoyé par Riccardo Venturi - 17/9/2009 - 02:10


Un paio di note:

* Il Latakia è un tabacco da pipa grezzo, nero e oleoso proveniente dalla Siria. È considerato infumabile da solo, e si usa solo nelle miscele (ad esempio, era uno dei componenti, assieme al Macedonia e allo Yenide, del leggendario Balkan Sobranie 759). Ovviamente, io lo fumavo; ma è roba esclusivamente per intossicati tabagisti.

** Si legga "thèsaure": "tesoro", in greco antico, al caso vocativo. Chi volesse leggerlo in greco moderno, cosa legittima, dovrà però dire "thèssavre".

Ahmed il Lavacardi - 17/9/2009 - 03:25



Langue: français

Version française – LETTRE À MA FIANCÉE – Marco Valdo M.I. – 2009
Chanson italienne – Lettera alla Fidanzata – Riccardo Venturi – 25 juin 1990

cardo

Lucien mon ami, regarde ce beau chardon... C'est Riccardo qui te l'offre, à toi expressément... À toi : « Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo... ». Bon d'accord, pas plus que moi, tu sembles connaître l'auteur de ce petit bout de phrase...

Mais si, mais si, dit Lucien l'âne en secouant sa jolie queue en signe de confirmation. Je sais bien qu'il s'agit d'un texte de Carducci. Que penses-tu ? Que j'ai traîné pendant des siècles tout autour de la Méditerranée sans savoir les textes qui parlent de l'âne... Je comprends que toi, mon ami Marco Valdo M.I., qui selon tes propres dires ne connaît que fort peu l'italien et l'Italie, tu ne saches que peu de choses de Carducci. Je le comprends bien, mais moi, Lucien, enfant de Lucien, depuis le temps que je me promène en âne littéraire et cultivé... Et puis, laisse-moi te résumer ce passage – dont je remercie notre ami de me l'avoir un peu dédié... C'est l'histoire du chameau... De ce chameau mêlé à mille aventures et qui invariablement, quels que soient les événements «  s'en fout ». Le refrain de la chansonnette est : « Le chameau s'en fout »; toujours répété, deux fois. Et bien, ici l'âne qui mange le carde de Riccardo, pour tout sauf manger son carde, fait exactement comme le chameau.

Mais, mais, Lucien mon ami, ne t'emballe pas comme çà... Je la connais la chanson du chameau et d'ailleurs, tu aurais pu préciser que ce fameux refrain est dit ou chanté sur un ton absolument et rigoureusement sinistre, si possible d'une voix caverneuse... Mais l'essentiel, c'est quand même que Riccardo Venturi, alias, alias... Ici Ahmed il Lavavetri ove il Lavacardi... nous ait invités à un jeu de traduction. Et en voici le résultat... qui n'est d'ailleurs pas une traduction facile, mais des plus fidèles quand même. Quoique, elle ne soit pas plus fidèle qu'à l'habitude; disons qu'elle ressemble au texte d'origine; elle peut en donner une idée. Comme dit Riccardo de son propre texte – qui est vraiment un Extra des plus extras, on ne sait si elle est bonne ou mauvaise, si elle est belle ou laide... Et j'ajouterais si elle est compréhensible ou non. D'ailleurs, j'ai dû créer quelques néologismes … Pour son texte et pour ma traduction, je fais appel aux lumières de Boby Lapointe qui disait :
« Je dis que l'amour,
Même sans amour,
C'est quand même l'amour
Comprend qui peut ou comprend qui veut! »

Remarque, remarque, dit Lucien, qu'on a accepté son jeu, il giuoco... Où cela va-t-il nous emmener ?

Je n'en sais trop rien, mais une chose sûre (chaussure ?) est que j'ai eu bien du plaisir à retrouver le mot « eteronimo », qui est notre nature profonde. Quant à la musicalité de ma composition, ce n'est pas moi qui pourrai en juger, n'ayant pas l'oreille musicale.

Ni moi non plus, dit Lucien l'âne en agitant la tête, qui ait les oreilles trop musicales... À moins que tu ne te décides à me lire le texte en le psalmodiant comme tu sais si bien le faire , parfois.

Allons, je vais te le lire comme le psalmiste...

Ainsi parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane.
LETTRE À MA FIANCÉE

A M.lle ***
Casalverminoso, Terre de Durnès, 25 juin 1990


Je t'écris, ma chère, pendu à un roc métastatique
Qui surplombe cette corniche granitique
De Casalverminoso, bourg, un jour fourmillant,
Disparu dans les neiges, vêtu en émigrant.

Perdu désormais depuis longtemps, depuis huit mille heures
Dans la mer des Astrophynges, Christ Pantocrator
Comme un bouchon tiré d'une bouteille grise
Faisant la navette entre l'éternité et la laisse.

Je me charge de vin, un galicien à la saveur soyeuse
Loin du souvenir, avec une pipe en main
Remplie de Latakia sur le précipice humain
Sacerdotal romarin de couleur tubéreuse.

Les faux éclatent des pierres molybdènes,
Je m'interroge sur le plan des soutiens-ricochets;
L'épée des crépuscules se mélange aux violettes
D'un Sole Ventiquattr’Ore mis en page rose.

Voici l'ancien paysage; carte sans destination pratique.
Je m'imagine écrire des lettres asphodéliques :
À larges dents nagent les verbes et les adjectifs
Jetant bas le masque des rythmes positifs.

Et le fou encore vient avec ses poings serrés, lents
À te courir sur le nez, à recompter tes dents...
Je t'aime, oui je t'éééémeuh, tant que j'ai une grande peine au coooeur
(Liqueur multicolore, grande pâleur d'amour).

Cerveau épouvanté par un syndrome formel
Et la monnaie de prix offerte à une averse;
Quel chat noir et lucide, je suis ce soir !
Je me sens un peu Falloppe vêtu en Havanaise.

En démontant et passant lentement, j'engloutis les mâtines;
Je t'écris ma chère, encore, couvrecouleuvrine,
Je revois peu à peu ces instants et les visées,
Canon un peu essoufflé de l'art sans monnaie.

Porteur d'espoirs d'ancien grand lignage
Je verse dans mon verre trois tonnes de courage
Je t'écris, ma chère, gonflé d'odorants liquides
Tirant de la terre la force des Atrides.

Et pourtant souffle, souffle le havane rouge
(le vent atteint, quelle chaleur, à l'intérieur, les lèvres rouges).
Le lacet déjà enlace cette figure basanée,
Le chêne s'algorythme, lavandière effeuillée.

Éternel épamprage aux œillades fumantes
Et de larmes trop connues sur les pavés évanescents;
Amoureux, Trésor, d'or, tu feras un effort d'or
Pour regarder les étoiles au-dessus d'un visage incolore.

Mais déjà on pirouette sur une maladroite tempête
La civette du sens sidéral se terre
J'ai la barbe courte et les moustaches christo-marxistes de Groucho
Perdu dans l'hébraïsme de ce jour étrange
Je me vends ici à des brutes de troisième main.


Et toi où es-tu ? Je me demande mille fois
Suivant les aléas (et la poule chante)
Dans le jeu des tours cachés des sens obscurs
Ne rejette plus la source des futurs incertain

Où donc a fini la semence qui dégorge en lait blanc
De cette canne rouge, avant qu'on s'en aperçoive ?
!Ay, qué eres hermosa!, femme au conditionnel
Du nombril mobile, puits de l'animal.

Et puis nous serons libres, en volant sur une ligne intérieure
En mangeant givre et gel, en buvant les glaçons...
Je t'écris, ma chère, légèrement, mais l'âme éperdue souffre
Comme une vieille chaussure dont on a ôté la semelle.

Et alors tu te diras : Est-ce le suc de la vie ?
C'est un suc de descente, un suc de remontée;
De tranches de Parnasse qui se consomment cyniques
mes pieds remontent comme des cas cliniques.

L'image est espérance et l'espérance est neige,
Elle se dissout et déjà retombe et se reforme légère.
Des cimetières à la mer, on recycle en songe
Avec cette feuille souple courbée par le besoin,

Comme le riz qu'on écrase, la pâte qu'on mêle
De lumière errant sur l'ombre grimpée.
Et sois sûre et lente, peut-être turlupinée
Durissime et terrible, douce et guindée.

Mais si on fait le compte, tu verras que le juge sort
Avec sa toge propre et ses lèvres très dégoutantes,
Je traverse la façade, je me cogne aux échafaudages,
Suspendu entre les citrons, je refais les échaudages.

Les consoles d'ordinateurs et les murs en pierre abouliques
Auxquels une chenille asphyxique a déjà montré les dents.
Ignorent les guipures, marasmes étouffants
Et moi qui m'éloigne avec mille lires et un tango
Je te lance des regards précis, tout le reste est faux
Et je creuserai les nuages jusqu'au noir absolu.


Si le secours arrive, tu verras quelle cohue
Se produit et toute la famille déjà se démène
Décrépie et muséale, cyanure de sulfure
Méthacrylate aldéhyde, elle s'infecte à coup sûr !

Lucrèceborgia indomptée, je suis le héros de la discorde
Sublime et un peu survolté, rempli de miséricorde,
Les pierres redoutent des futurs de névroses
Un peu plus moelleux, juste sucrés.

Je t'écris d'une vie, pas encore finie
Je plie mes avantbras d'un siècle et une heure
Précis comme un fuseau, heureux de tes silences
Moi, je me réinventerai en tueur d'absinthes.

Toi, énorme arrachepétales, gardienne des bois
Ô Domina, je te confie cette ultime mission
Retourne-moi les ongles, harcèlesurrénales,
Reine de milliers de carnavals défleuris

Je suis ici sur ce rocher, je voulais te le dire
Avant que le temps ne s'enfuie et ne disparaisse.
Et je me remémore un jour, tu venais à perdre haleine
À une rencontre daltonienne et un peu bousculée.

Avec un vert sale exsangue de pavillons immondes
Il est temps d'y repenser, il est temps d'y voir.
Mais le flux du passé a désormais tout envahi.
Le remède aux ennuis sera de passer par d'autres ennuis.

Et perdu dans les vignes, hélas, un jour je retournerai
Pour regarder sans voix chevaux, lemmes et commas
Avec entre les mains un carde et aussi un naturel
(Shiseido) à califourchon sur une aurore boréale.

De Casalverminoso, je t'écris ma chère et je ferme
et je timbre le chant de et je ne m'illusionne pas
J'ai un mal millimétrique au troisième ou quatrième os
Et je ne peux te serrer, mais peut-être puis-je, puis-je.

envoyé par Marco Valdo M.I. - 18/9/2009 - 23:07


Chers Marco Valdo et Lucien Lane,

Je suis tout à fait étonné. Vraiment, je n'aurais jamais pensé que quelqu'un arriverait un jour à traduire ce délire, même s'il s'agit d'un délire qui a une très grande importance pour moi. J'ai lu votre traduction, et j'ai vu que vous avez bien compris les...règles du jeu que je vous ai proposé. Règle n° 1: oui, certes, la musique...mais c'est votre musique à vous...pour cette chanson qui n'est pas "leviane", mais un peu "léviathane". En effet, M. le Diable (un vieux ami à moi, vous savez!) doit m'avoir aidé pas mal le 25 juin 1990. Vous savez, quand j'ai lu L'Arrache-Cœur de Boris Vian, j'y ai retrouvé pas mal de choses de Casalverminoso, et peut-être ai-je imaginé même un livre que je n'avais pas encore lu ce jour-là. Ça marche comme ça dans mon crâne, évidemment. Bon! Merci, un très grand merci à tous les deux, et j'ai l'honneur de mettre à votre disposition un champ entier de chardons à l'île d'Elbe: vous allez pouvoir vous en régaler!

Riccardo Venturi - 19/9/2009 - 12:45




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