Polvere che si alza dalle interminabili capezzagne che tagliano le campagne, ricoperte di grano turco e barbabietole.
Polveri sottili che tagliano il fiato levandosi dall’asfalto cotto dal sole, o bagnato da una pioggia che ne accentua l’odore, zanzare e nebbia a dirci quando è estate e quando è inverno.
Fumo grigio di zone industriali appena abbozzate, di un Polesine ancora agricolo e chiuso a riccio tra i due grandi fiumi, Mesopotamia del Veneto, a due passi da un mare malato, dove i virus portati dal Po crescono impazziti, nelle cui spiagge si cerca di imitare le riviere dei luoghi più “In”, ma che alla fine restiamo noi, con i nostri limiti e le nostre magie, che ci fanno uscire con la mente da questa Provincia Democristiana e bigotta.
Qui nascono e vivono “I Folletti del grande bosco”, dove i boschi non ci sono, solo il pioppo ne simula la presenza sulle rive del fiume, qui iniziano a suonare e a partire varcando i confini, a nord e a sud della Provincia.
Dai lontani anni ’90, timidi ma decisi, prendiano ciò che Rovigo offre, ne bevono il succo, meglio se vino, dissetando la voce per poter cantare di storie, di vita e di morte, di sangue partigiano e di voglia di volare lontano, contro un vento di sale che arriva dal mare.
“Suona suona suona fisarmonica che nel vento lotterà”, “vivi la tua vita continua a lavorare, mangia, ingrassa e caga”, non pensare all’africa nera senza le gambe di un bambino, o alla frontiera che uccide un uomo che sperava, rimane, come diceva la nonna, solo da guardare il cielo, perchè “con la stella del mattino si comincia a lavorare e con la stella della sera occhi al cielo per sognare” Folletti del grande bosco, folk/rock da ballare, da ascoltare, divertente, riflessivo, malinconico, dai toni forti, come l’ideale che ci lega ad una storia dal sapore di cose buone.