Tim Buckley è senza dubbio uno tra i più importanti ed originali cantautori musicisti fuoriusciti dal panorama artistico americano.
Il suo approccio alla materia musicale, pur partendo dal folk e dal country, si è arricchito strada facendo con elementi di altra natura grazie ai quali egli è riuscito ad ottenere un amalgama sonoro unico, colto, inconfondibile, in certi casi vicino alla sperimentazione di nuove forme espressive.
E proprio quest’ultima caratteristica investe in pieno non tanto la sua musica quanto il canto la cui dirompente intensità, frutto di continui studi ed esercizi vocali, si propone come obiettivo principale quello di dare voce all’inconscio, di far parlare l’anima.
Tim Buckley con la sua vocalità riesce abilmente a catalizzare in un'unica cascata di emozioni i mille rivoli di singhiozzi e lamenti, le urla selvagge e gli eterei sussurri facendo convivere sentimenti apparentemente contrastanti in una sorta di limbo sonoro dove l’amore, l’angoscia e la solitudine si spingono in alto fino ad ottenere la loro sublimazione.
La colonna sonora del suo mondo devastato dai sentimenti è una indefinibile marea di suoni, uno splendido caos musicale i cui arrangiamenti, riconducibili a filoni diversi quali il free jazz, il folk latino-americano, la ballata country, la linea genealogica spirituals-gospel-blues-soul, la musica contemporanea, il rock, denotano architetture sempre più ardite e complesse tanto da potersi collocare ai vertici della produzione musicale degli ultimi cinquanta anni.
Nato nel 1947 a Washington trascorre la propria infanzia a New York trasferendosi in seguito in California e precisamente a Los Angeles dove ha inizio la sua carriera di musicista.
In quel periodo frequenta la High School dove entra in contatto con il futuro poeta Larry Beckett con il quale avrebbe poi in seguito scritto alcune tra le sue più belle canzoni.
Dopo aver suonato la chitarra in alcuni gruppi locali dediti ad un country piuttosto tradizionale Tim Buckley, che ammira molto i cantanti blues ed il free jazz, inizia ad esibirsi proponendo materiale di sua composizione che mette in risalto in modo particolare le sue doti di cantante.
Ben presto riesce a farsi notare e Herb Cohen, manager di Frank Zappa, rimane assai sorpreso dalla prodigiosa estensione vocale dell’allora diciottenne aspirante artista nonché dalla sua proposta musicale insolita e ricca di diversi stili e contaminazioni così da metterlo sotto contratto.
Nel 1966 esce il suo primo album semplicemente intitolato Tim Buckley che sebbene risenta del tipico sound dell’epoca, si discosta dagli altri prodotti per il clima malinconico e rassegnato e per certi arrangiamenti jazzati ed orchestrali con i quali l’artista colora il suo folk-rock.
Alla registrazione del disco partecipano musicisti di lusso, ovvero il pianista Van Dyke Parks, il bassista Jim Fielder, il chitarrista Lee Underwood ed il batterista Billy Mundi i quali insieme a Buckley danno vita ad un sound avvolgente e penetrante che si traduce in canzoni come la commovente Valentine Melody, l’esoterica Song Of The Magician, la bellissima Wings o l’intrigante Song Slowly Song dove il cantante dispiega le sue qualità vocali.
A partire dal secondo lavoro del 1967 - Goodbye And Hello - inizia per Buckley una fase della durata di quattro anni durante i quali egli incide altrettanti album che la critica e gli studiosi del rock considerano fra i più importanti e rappresentativi del trascorso secolo.
Goodbye And Hello è un autentico capolavoro, basta ascoltare attentamente la title song o Morning Glory o ancora Once I was per rendersi conto che siamo davanti a meravigliosi concentrati di passione e sentimento dove il lirismo sonoro assume livelli di assoluta grandezza.
In questa incisione Buckley si avvale di percussioni varie e tastiere che qui risultano strumenti decisivi ai fini della realizzazione del sottofondo ideale, cosmico e mistico insieme, con il quale arricchire l’incommensurabile carica emotiva che il suo canto d’autore è in grado di esprimere alle prese con i poetici versi di Beckett.
Oltre alle canzoni gia citate sono degne di attenzione la magica Carnival Song caratterizzata da un ipnotico ritornello e un improbabile sottofondo di organetto da circo o la spettrale Hallucinations dominata da un arrangiamento che spazia tra elementi medievali e classicheggianti non disdegnando incursioni in un oriente misterioso in cui il canto si muove con assoluta padronanza.
Non poteva mancare una bellissima e struggente canzone d’amore dal titolo Phantasmagoria in Two, malinconico delirio di solitudine e paura dove il senso di vuoto opprime l’animo impedendo all’urlo di esplodere e neppure quella che oserei definire una curiosa incursione nel mondo degli antichi menestrelli ben evidenziata dalla breve e suggestiva Knight Errant, perfetta evocazione del valoroso cavaliere eroe d’altri tempi.
In definitiva in questo album, decisamente più maturo del predecessore, Buckley dimostra il suo versatile talento di artista eccentrico e geniale in grado di offrire un’ampia panoramica musicale che oscilla tra un lirismo melodico e favolistico ed il conflitto generazionale, la saga metafisica e la fatalità del sentimento il tutto impreziosito da una fragile malinconia e una sottile bellezza che rendono i suoi lavori un qualcosa di unico e finora irripetibile.
Mentre Goodbye And Hello è una raccolta di poesie sull’individuo che si presenta inerme al cospetto della pazzia del mondo, il successivo Happy Sad esplora frontiere ancora più ardite, musicalmente coraggiose, spingendosi oltre quel tanto che basta da spiazzare parte di quel pubblico che l’artista era fin qui riuscito a conquistare sia in patria che all’estero.
Innanzi tutto i brani sono più dilatati e varcano i confini dei tre o quattro minuti arrivando fino agli oltre dodici del capolavoro Gipsy Woman autentico caleidoscopio visionario denso di emozioni dirompenti, di convulse eccitazioni, di incontenibili accelerazioni e improvvisi rallentamenti che sembrano emulare l’impennarsi e l’estinguersi del fuoco.
Una danza selvaggia ricca di colori, di umori e di suoni contraddistinta dall’incedere ipnotico delle percussioni e dalla voce che qui raggiunge vette espressive di inusitata grandezza.
Buzzin’ Fly e l’iniziale Strange Feeling sono acquarelli dove prevale un forte senso di malinconia posto in rilievo da una musica essenziale ma caratterizzante mentre Love From Room 109 At The Islander rappresenta la quintessenza della quiete e della meditazione, del nulla e del suo contrario, l’infinito; un brano molto intenso che si estingue quasi sottovoce sovrastato dal rumore sordo e senza fine delle onde del mare.
In questa incisione Buckley è completamente padrone dei suoi brani non beneficiando più dell’apporto del paroliere Larry Beckett ed è forse per questa ragione che il canto viene liberato dal ruolo riduttivo di semplice guida della melodia del brano.
Esso diventa piuttosto uno strumento attraverso il quale la voce è libera di volare, di esprimersi in piena autonomia tonale ed emozionale fondendosi con gli altri strumenti siano essi il vibrafono, il contrabbasso, le congas o il più congeniale al genere rock quale la chitarra viaggiando insieme verso lidi sonori liquidi ed eterei, vibranti e passionali, artefici di quell’originale cromatismo acustico che pervade il disco in ogni suo solco.
Happy Sad si presenta in sostanza come una raccolta non tanto di brani ma di emozioni dove tra l’altro il folk tradizionale è qui trasfigurato, violentato e contaminato da elementi jazz, emancipato dalla struttura canzone.
Ci troviamo di conseguenza al cospetto di un flusso ininterrotto di note guidate dal canto il quale si assume l’incarico di tenere unito il brano e di conferire ad esso una determinata personalità sonoro emotiva, una musicalità inconsueta e ricca di feeling.
Nel 1969 Tim Buckley pubblica il suo quarto lavoro, Blue Afternoon, il quale si presenta meno audace del precedente avvalendosi di un suono più semplice ed ordinato con la batteria che riconquista caparbiamente il proprio ruolo.
In Blue Afternoon l’artista riesce a coniare un linguaggio meno selvaggio e sperimentale aprendo la strada ad un folk/jazz raffinato, originale e d’atmosfera senza per questo rinunciare seppur minimamente alla sua spiccata e controversa personalità artistica.
Lo spettro degli umori è praticamente infinito e bene rappresenta quel riflesso tipico delle alterazioni della coscienza dovute all’uso dell’LSD e di altre droghe pesanti a cui Tim Buckley, come molti altri musicisti dell’epoca, fa ricorso ormai da tempo.
Gli effetti di questa dipendenza si manifestano palesemente sulle sue composizioni tanto che il sottofondo musicale di canzoni anche assai diverse tra loro segue spesso le cadenze ipnotiche e scheletriche del trip lisergico.
Ormai Buckley è diventato una perfetta macchina vocale e si può permettere una sorta praticamente illimitata di espressioni, shout, acuti, cry, scat, rap, fade-out e altre spettacolari arrampicate tonali con sconvolgente duttilità riuscendo a costruire la tessitura delle sue perlopiù drammatiche storie.
La perfezione formale di Blue Afternoon non riesce ad emozionarmi più di tanto, personalmente preferisco la selvaggia mascolinità del precedente lavoro o la musica a 360 gradi di Goodbye And Hello, ma anche in questo album sono racchiuse delle gemme che rispondono al nome di I Must Have Been Blind, The River e la bellissima Blue Melody che se non altro mantengono alto il livello artistico del musicista cantante.
A questo punto sarebbe logico aspettarsi una continuazione, uno sviluppo del discorso intrapreso anche perché in tal modo risulterebbe più facile per l’artista consolidare il successo fin qui ottenuto e riuscire ad incrementare la sua fama di atipico e geniale menestrello.
Ma Buckley cambia ancora rotta e si addentra nei meandri del free folk e della sperimentazione, naturalmente a modo suo, elaborando un ulteriore ed inedito linguaggio musicale che avrà il compito di fare da colonna sonora ad una immane tristezza intenta a rovistare baratri senza fondo.
L’artista, ormai umanamente alla deriva per l’eccesso di droghe, in una sorta di coma cosciente si esprime attraverso forme emotive vicine al pianto assoluto, un pianto senza soluzione e senza ritorno sospeso in labirinti di angoscia e depressione.
Questo è frutto di un intimismo sempre più tormentato che nella nuova prova discografica, Lorca, si traduce in un denso e tenebroso viaggio onirico dove ciò che sopravvive della coscienza riesce a malapena a sondare cupi e metafisici abissi.
Il primo omonimo brano è sicuramente quello che meglio degli altri riesce ad esprimere, nei suoi dieci minuti di arte e delirio allo stato puro, le sensazioni sopra descritte.
Il continuo e ossessivo lamento, messo in risalto da uno scoordinato organo e da un improbabile quanto efficace pianismo swing, si sviluppa attraverso il canto che qui assume l’aspetto di un funereo e incessante flusso di vocali espanse.
Le successive Anonymous Proposition e I Had A Talk With My Woman non sono da meno; anche qui tra ispide figure di chitarra e di basso elettrico si erge il canto contorto e malato, chiara espressione di una coscienza in dissoluzione.
Semplicemente affascinante il brano seguente Driftin, oltre otto minuti di autentica emozione dove la voce naturalmente protagonista sembra andare alla deriva in uno sciacquio di chitarre pigre conferendo alla canzone il vago aspetto di uno spiritual al rallentatore.
In chiusura troviamo Nobody Walkin, un ritorno al passato, all’impeto trascinante di brani come Gipsy Woman e così sulle note guizzanti del piano elettrico e sul potente sottofondo percussivo delle congas l’artista sembra voler esorcizzare i drammi interiori presenti nei precedenti brani lasciandosi andare in una sorta di danza primitiva purificatrice.
Nel 1970 Buckley ritorna a collaborare con Larry Beckett e pubblica il suo sesto album dal titolo Starsailor, forse il punto più alto della sua carriera, autentico capolavoro di sperimentazione in cui gli ingredienti principali, il jazz e la psichedelia, sono qui portati al loro estremo.
Inutile aggiungere altro in merito all’espressività della voce dell’artista che a questo punto è divenuta talmente raffinata e ricca di sfumature e virtuosismi tanto da rasentare l’impossibile.
Ciò è il frutto di rigorosi e continui studi ed esercizi vocali diretti principalmente verso la tradizione nera spiritual, gospel, blues fino ad interessare anche la severa cultura del canto tibetano.
La strumentazione si arricchisce della sezione fiati delle Mother Of Invention, il gruppo di Frank Zappa, la quale contribuisce non poco alla buona riuscita del lavoro.
Tra gli episodi più arditi dal punto di vista della sperimentazione sono da segnalare l’iniziale Come Here Woman, Monterey ed in particolare Jungle Fire, brani impreziositi da arrangiamenti fantasiosi, persino geniali, perfetti pretesti sonori per le azzardate acrobazie vocali di Buckley.
I Woke Up si sostiene grazie ad un insieme di note fluttuanti immerse in una immensa staticità dove soltanto i fiati riescono a dare fiacchi segni di vita mentre Moulin Rouge rappresenta un episodio atipico per l’artista con il suo incedere solare e divertito, un po’ in stile swing.
Song To The Siren è un gioiello di pura poesia sonora, The Healing Festival è un cocktail di jazz, free form e improvvisazioni varie il tutto condito con un turbinio di fiati deliranti, Down By The Borderline, un brano più convenzionale nell’arrangiamento, è molto vicino al funky ed al soul.
Ma è con Starsailor che l’artista tocca le più alte vette della creatività; il brano che dà il titolo al lavoro rappresenta infatti il punto di arrivo, una sorta di sunto delle capacità espressive di Buckley la cui voce tra funambolismi, effetti, riverberi e sovraincisioni detiene il dominio assoluto delle note regalando quasi cinque minuti di brivido e magia.
E’a questo punto però che inizia a chiudersi la dolorosa parabola artistica di Tim Buckley il quale, ormai provato fisicamente e psicologicamente dall’uso delle droghe, è costretto ad assentarsi dalle scene e a concedersi un prolungato periodo di riposo che si protrae per oltre due anni peraltro insufficienti agli effetti di una guarigione completa.
Egli si sente inevitabilmente naufrago nel mare dell’incomprensione generale e ormai preda di una naturale tendenza alla depressione che fin ora è andata accentuandosi ad ogni uscita discografica a causa di una poliedricità artistica fuori dal comune che lo pone sempre troppo avanti sia per i tempi che per il pubblico.
Forse sarà anche per questi motivi che Buckley da qui in avanti mette a tacere la sua creatività in favore di un approccio più convenzionale alla musica che trova modo di materializzarsi in un trittico di vinili dalle coordinate sonore decisamente più abbordabili.
Il primo album del nuovo corso è Greetings From L. A. del 1972 che pur mostrando un artista alle prese con una materia musicale più limpida e lineare riesce tuttavia a risultare lavoro convincente e pronto a coinvolgere con brani come Sweet Surrender, Nightwalkin’ o Devil Eyes.
Comunque è l’intera incisione che a mio avviso risulta essere degna di attenzione, un perfetto trampolino di lancio per porre i preziosismi interpretativi vocali dell’artista all’attenzione di una più vasta platea senza mai scadere in una esposizione ordinaria e priva di originalità.
L’anno seguente Buckley si propone con Look At A Fool, album interessante ma comunque un tantino al di sotto del precedente.
Non mancano anche qui episodi apprezzabili ma la vena creativa dell’artista sembra veramente volgere al tramonto e certe strizzatine d’occhio ad un funky soul piuttosto leggerino ne sono la piena conferma.
Il successivo ed ultimo album di Tim Buckley intitolato Sefronia esce nel 1974, appena un anno prima della prematura scomparsa dell’artista.
Checché ne dica la critica, che lo giudica il punto più basso della sua carriera artistica, personalmente trovo Sefronia un lavoro fresco ed elettrizzante, inconsuetamente solare e ricco di feeling, non un capolavoro ma comunque apprezzabile.
Serfronia ci mostra un Buckley riconciliato con sé stesso e con il mondo, perciò di nuovo padrone delle composizioni e delle note che la sua voce ed il suo formidabile modo di cantare cavalcano con una naturalezza incredibile, trascinante.
Gia la song di apertura, la nota Dolphin, fa ben sperare e le seguenti Honey Man, Because Of You, Peanut Man non sono certo da meno.
Si tratta ovviamente di un Buckley assai diverso dalla allucinata genialità visionaria di Lorca, differente dai cromatismi sonori di Starsailor, ma ascoltare brani come Martha, I Know I’d Recognize Your Face o Sefronia cantati con perizia tecnico vocale da brivido, ci riporta come per incanto alle memorabili poesie sonore delle prime incisioni e questo non può che emozionare e lasciare ben sperare per il futuro
un futuro che purtroppo non ci sarà.
L’album si chiude con una versione veramente accattivante del traditional Sally Go Round The Roses con un Buckley che si produce in una performance da vero fuoriclasse.
Il 29 giugno del 1975 il musicista muore per overdose a Santa Monica lasciando molte promesse non mantenute e diversi album sempre più apprezzabili ad ogni ulteriore ascolto a riprova di quanto la sua proposta musicale sia non solo frutto di una marcata ed esplosiva genialità ma anche attuale e rivolta verso futuro.