L'hip hop ha una certa età, guardare la biografia dei Beastie Boys per credere: sono passati venti anni da quando il terzetto bianco di New York faceva scontrare l'hardcore con il rap incidendo una canzone (Rock hard), che diventava il secondo disco della storia ad uscire per la mitica etichetta Daf Jam, quella del rap per antonomasia, dei Public Enemy, L1 Cool J, Method Man, Jay Z. Tutti neri. Il rap invecchia ma tiene i tempi, diventa gangstar, plastificato, sofisticato, ma la vecchia scuola rimane pulita, diretta, politica, impegnata. I Beastie Boys sono la vecchia scuola, e sono un pezzo di storia dell'hip hop. Per questo, il loro nuovo disco dopo una lunga assenza (l'ultimo, del 1998, era Hello nasty), è già una notizia. Notizia che si era amplificata a dismisura ascoltando i testi: una bordata furiosa contro l'estabilshment americano, dove la parolina Bush ricorre di continuo senza censura, dove la soluzione auspicata è "prendere il potere", "fare un impeachment", "ottenere un disarmo multilaterale". Musicalmente il cd, The 5 boroughs, che sono i cinque quartieri della Big Apple, non cambia troppo rispetto alla storia dei Beastie: rap scarno e diretto impreziosito da vari campionamenti (come Rapper's delight), old school come si dice in gergo. Oppure, come dicono loro scherzando: "Rap come lo sappiamo fare noi, cioè in quest'ultima maniera". Paradosso consapevole in una musica che, come ci dice Mike D, "è musica del movimento per natura, stile che cambia ogni sei mesi per stare al passo con la quotidianità". Ma soprattutto musica come mezzo per cambiare le cose: "Viviamo in tempi talmente estremi, tempi di polizia, di militarizzazione del quotidiano, che era ovvio che le nostre canzoni avrebbero virato in questa direzione. E non nascondiamo il nostro desiderio di influenzare in qualche modo le prossime elezioni. La musica può incidere sulla gente così come qualsiasi altra forma di scambio, di comunicazione. Io poi sono cresciuto con artisti che avevano un preciso indirizzo politico come i Clash, Bob Marley, i Public Enemy".
Musica che si addolcisce nel pezzo dedicato alla loro città, An open letter to NYC, dove si legge: "La diversità unisce, ovunque tu sia".
New York è sa sempre esempio di inclusione, accoglienza. Fa parte della nostra storia. E in questo è separata dal resto degli States.
Eppure, proprio a New York, i Beatles si sono sentiti stranieri.
Abbiamo iniziato a scrivere il disco dopo l'11 settembre, dopo aver partecipato a varie manifestazioni per la pace, compresa quella in simultanea con voi in Italia, quella da un milione di persone che Bush definì "poche frange radicali". Ma la gente, sull'onda dell'emozione, ci diceva: se siete per la pace allora significa che state dalla parte dei terroristi! Poi, pian piano l'opinione pubblica è cambiata. Fino alla scandalo delle foto delle torture che ha aperto il cervello alla gente. Dunque ci siamo detti: se non parliamo adesso, quando?
Due canzoni in particolare sono molto forti: "It takes time to build" invoca l'impeachment contro un "presidente che non abbiamo votato" che lascerà "distruzione ambientale e debito nazionale". "That's is that's" dice addirittura "dobbiamo prendergli il potere". Volete la rivoluzione?
Nella prima ci tenevamo a sottolineare in particolar modo come sia folle andare contro un paese per presunto possesso di armi di distruzione di massa, quando gli Usa sono l'unico paese al mondo ad aver usato la bomba atomica. Nella seconda no, non invochiamo la rivoluzione. Piuttosto invitiamo al voto. Non c'è bisogno di rivoluzione nel nostro paese, abbiamo un'ottima costituzione, va solo applicata.
Tanti temi, anche più futili. Ma nell'impegno, gli stessi evocati da un vostro connazionale, Michael Moore.
Il fatto che abbia vinto Cannes ci fa piacere. Ci piace la sua forma di intrattenimento impegnato. Speriamo influenzi le elezioni.
Intervista di Silvia Boschero L'UNITA' 25/05/2004