Innumerevoli cambiamenti di stili e di formazione hanno segnato la storia dei Genesis, una delle più celebri band del "progressive rock". Ma la loro stagione più felice resta quella segnata dall’istrionismo teatrale e dal camaleontico trasformismo di Peter Gabriel.
Siamo a metà degli anni 60, la Charterhouse è una prestigiosa scuola privata nei dintorni di Londra, una di quelle istituzioni tutte disciplina e "sani principi" dove i ragazzi imparano a cavarsela nel "modo inglese". Il nucleo originario dei Genesis nasce qui, dove le agiate famiglie di Peter Gabriel, Anthony Banks, Antony Phillips e Michael Rutherford li spediscono a svolgere i loro studi superiori. Gabriel e Banks cominciano a strimpellare al piano della scuola e comporre canzoni, e ben presto quei ragazzi iniziano a vedere nella musica il loro futuro. Dopo qualche tentativo con gruppetti distinti, si formano i Genesis.
La prima svolta arriva con Jonathan King, un cantante e produttore pop inglese piuttosto affermato nella seconda metà dei 60, a sua volta ex allievo della Charterhouse, il quale prende in simpatia i Genesis e li porta a firmare il loro primo contratto, veramente assurdo per dei ragazzini di 16 anni, di cinque anni con opzione per altri cinque (durata poi drasticamente ridotta per intervento dei genitori), e a incidere il loro primo album, "From Genesis To Revelation", un concept basato sul Vecchio Testamento, su suggerimento dello stesso King. Decisamente il tutto è un passo troppo lungo per degli ancora ingenui studenti, che all'epoca sono Peter Gabriel (voce), Anthony Phillips (chitarra), John Silver e in due pezzi Cris Stewart (batteria), Anthony Banks (tastiere), e Michael Rutherford (basso e chitarra). Il disco è a tratti classicheggiante e a tratti pop per la pesante influenza di King, ha qualche lato interessante, conoscendo gli sviluppi futuri, ma è a dir poco acerbo. E' fatto di molte canzoni brevissime e semplici, ma infarcite di arrangiamenti pomposi con archi e tromboni, tutt'altra cosa rispetto a quello che verrà. Il disco esce per la Decca nel marzo del 1969, e viene pressoché ignorato da tutti.
King perde interesse nei Genesis con l'aumentare della complessità delle loro composizioni e il gruppo si ritrova solo, ma non senza entusiasmo. Rifiutando aiuti economici significativi dalle famiglie, si arrabatta a sopravvivere. Il periodo per i ragazzi è economicamente tragico (qualcuno che è loro vicino all'epoca dirà: "Avevo l'impressione che saltassero i pasti") e con l'ingresso del nuovo batterista John Mayhew le magre entrate dei primi concerti si rivelano una boccata di ossigeno.
E' proprio in questa fase che attraverso piccoli aggiustamenti e un enorme lavoro, provando e riprovando, i Genesis mettono a punto quello che sarà uno dei loro punti di forza, ovvero la performance dal vivo, non tanto con atteggiamenti spavaldi da rockstar, quanto imparando a creare un'atmosfera capace di coinvolgere il pubblico gradualmente per farlo entrare nella loro musica, che è quello che realmente vogliono con più intensità. I giovanissimi Genesis (all'epoca tutti intorno ai vent'anni) non si fidano praticamente di nessuno nell'ambiente finché non fanno il colpo grosso entrando nel cuore di Tony Stratton-Smith, padre-padrone della Charisma, una giovane ma già importante etichetta progressive, che nel giro di un paio di settimane li mette sotto contratto e, dunque, in condizione di registrare un nuovo album.
"Trespass" (ottobre 1970) è un disco per molti versi ancora di transizione, ma è un enorme salto rispetto al precedente. Si incominciano a vedere sostanziose tracce della personalità del gruppo. Nell'album si distinguono "Visions Of Angels", per l'epicità da "gran finale" classico che ritroveremo in composizioni degli album successivi, "Stagnation" per la morbidezza acustica, "The Knife", che si discosta molto dal resto, per la forza d'impatto "rock" con il suo attacco violento e la forte carica ritmica, e sarà la chiusura di tutti i concerti a venire dell'era Gabriel.
Subito dopo le registrazioni, Antony Phillips, uno dei principali compositori del gruppo ("The Knife" è sua), lascia: "Eravamo solo un pugno di perfezionisti. (
) La musica era diventata la fonte della mia più profonda sofferenza". L'abbandono dell'amico è un brutto colpo, ma, come accade nelle migliori storie, il gruppo riesce a cogliere l'occasione per fare invece un decisivo balzo in avanti, decidendo di cambiare anche il batterista.
Attraverso un annuncio sul Melody Maker, viene reclutato ai tamburi Phil Collins. Egli ha già una lunghissima esperienza nel mondo dello spettacolo, essendoci dentro fin da bambino come attore in pubblicità televisive e in teatro dapprima, nel rock poi come membro di alcuni gruppi sempre sul punto di farcela e poi regolarmente crollati. Dopo poco tempo, contattano un chitarrista-compositore in cerca di un gruppo che ha messo un annuncio sulla stessa rivista. E' Steve Hackett, il quale, dopo aver ascoltato "Trespass e assistito a un concerto, resta favorevolmente colpito. Furbescamente fa andare i Genesis direttamente a casa sua, in mezzo a tutti "i suoi aggeggi" e li impressiona al punto che, senza sentire nessun altro, decidono di prenderlo. Il primo impatto per il giovanissimo Steve, del tutto a digiuno di esperienza professionale o persino con un gruppo di qualunque tipo, non è affatto facile. La perfezione sonora che i Genesis vogliono raggiungere sul palco è ben lontana dal realizzarsi a causa dei limiti alla strumentazione, e i concerti sono sempre funestati da problemi tecnici, ma ciononostante la cosa lentamente ingrana e il gruppo comincia a crescere.
Arriva così nel gennaio '71 una tournée collettiva della Charisma ("The famous Charisma label"), organizzata da Stratton-Smith per lanciare i suoi gruppi più promettenti: Van Der Graaf Generator, Lindisfarne e naturalmente Genesis. I nostri sono ovviamente l'ultima ruota del carro. Attraverso le nove date del tour, però, le cose cambiano e i Genesis esplodono, relegando gli altri al ruolo di inseguitori incapaci di tener loro dietro, come ammette lo stesso Peter Hammill: "Ognuno cercava di far meglio degli altri ogni sera, ma a un tratto diventò impossibile far meglio di loro". Nel giugno '71, durante un concerto, Peter Gabriel saltando dal palco sul pubblico (una cosa che riprenderà con meno violenza nella sua carriera solista) si frattura una gamba, provocando l'interruzione della tournée, così i nostri si dedicano a composizioni e prove, il che torna loro molto utile sia per affiatarsi con i due nuovi membri sia in vista dell'imminente album successivo.
"Nursery Cryme" esce nel novembre '71, ed è ancora una volta un disco fondamentale per i Genesis, perché per la prima volta emerge chiaramente lo standard del gruppo in fatto di composizione e articolazione dei pezzi, si definisce "lo stile Genesis", che solo a tratti affiorava su "Trespass": lunghi brani fatti di momenti intimi e acustici seguiti da impetuose sciabolate elettriche. Lo stile è ormai chiaro anche per quanto riguarda le liriche, ricche di riferimenti storici, letterari, mistici e fiabeschi. Tutto l'album gioca con l'atmosfera vittoriana, fin dalla copertina. Emblematica è proprio la lunga composizione che l'ha ispirata, l'iniziale "The Musical Box", nella quale il sesso, generalmente trattato con ironia e mediante metafore, diventa una delle componenti principali dei testi di Gabriel e vi resterà a lungo. Lo stile musicale del gruppo dunque si definisce e trova finalmente la sua dimensione proprio in questa mini-suite, mostrando la tendenza a composizioni articolate attraverso momenti di ritmo e tono diversi che si alternano, arpeggi delicati di chitarra seguiti da cavalcate incalzanti e poi da nuovi momenti acustici. Il climax drammatico raggiunto nell'ultima parte svela per la prima volta le definitive "intenzioni" musicali dei cinque: composizioni complesse e classicheggianti rese con strumentazione rock, e drammaticamente enfatizzate dagli arrangiamenti a creare quadri capaci di rimanere fortemente impressi nell'ascoltatore.
La prima facciata dell'album si snoda attraverso altre due composizioni di tono differente, dapprima la delicata e acustica "For Absent Friends", quindi la potenza più marcatamente rock è la cifra della incalzante "The Return Of The Giant Hogweed", un altro dei "pezzi da battaglia" dei Genesis per lungo tempo. Dopo una prima facciata di tale portata "progressiva", ci si aspettano miracoli dalla seconda, che ha invece un andamento alterno. Si apre con un pezzo tutto sommato non indimenticabile come "Seven Stones", prosegue con la divertente e teatrale "Harold The Barrel", riscende ancora con la lenta "Harlequin" che non scorre bene, ma presenta una conclusione di tutto rispetto con un'altra complessa mini-suite, "The Fountain Of Salmacis", basata sul mito classico di Ermafrodito (ecco che si torna a giocare col sesso e l'ambiguità).
Il disco riceve un'accoglienza fredda in Inghilterra e il gruppo finisce moralmente a terra, quando ecco che qualcosa si muove dove meno i nostri se l'aspettano, ovvero all'estero e precisamente in Belgio, dove l'album arriva sparato al primo posto in classifica. Viene organizzato un tour nel paese, entusiasticamente accolto, ed ecco che Nursery Crime entra nella top ten anche in Italia. Così i Genesis "calano" in Italia per la prima volta e il pubblico accorre e li acclama.
Tutto ciò tira fuori il gruppo dall'inizio di depressione in cui stava entrando per le difficoltà in patria. Proprio in Italia, nelle pause dai concerti e durante le prove, cominciano a prendere corpo alcune nuove composizioni tra cui "Watcher Of The Skies". Questi pezzi vengono eseguiti dal vivo per la prima volta nei mesi successivi nei concerti europei e vengono così affinati. Pian piano il gruppo si fa strada anche in patria, ma ben presto arriva il momento di registrare il nuovo album ormai pronto.
"Foxtrot" (1972), a giudizio di chi scrive, è il miglior album dei Genesis. Tutto funziona e va improvvisamente al suo posto. La band ormai è completamente matura e ogni elemento si regge a meraviglia sugli altri, formando una cattedrale complessa che ha come chiave di volta ora l'incedere maestoso del mellotron di Banks, ora le trame chitarristiche del duo Hackett-Rutherford (che alterna la 12 corde al basso), ora la calda e potente voce di Gabriel e i suoi giochi di parole, ora la batteria di Collins così incredibilmente spontanea e ritmica pur nella sua complessità "art rock", finalmente assecondata dalla produzione.
Si comincia con l'impressionante introduzione al mellotron di "Watcher Of The Skies", che in un minuto scarso condensa moltissimo del genere progressive e dello stile Genesis: epicità, intensità, raffinatezza e improvvisi cambi di mood. La canzone vera e propria è fortemente rock, con rapide svisate di chitarra, e ci trascina in un racconto fantascientifico che è una metafora amara sul futuro di un'umanità in grado di autodistruggersi. "Time Table" è la composizione più classicheggiante dell'album, con un testo dal sapore passatista, e pare lievemente più debole rispetto alla maestosità del resto, ma è una pausa comunque gradevole dopo la corsa iniziale. La successiva "Get 'Em Out By Friday" prosegue sul registro della fantascienza, creando una vera e propria rappresentazione teatrale à la Gabriel sulla speculazione edilizia prossima ventura, ricca di sarcasmo, dove questi realmente interpreta i vari personaggi cambiando voce e intonazione di volta in volta. La stessa musica asseconda la vicenda divenendo più dolce con i "buoni" e molto elettrica e incalzante con "i cattivi". "Can Utility And The Coast-Liners" è satura di emozioni: tra citazioni simon-garfunkeliane, batteria in primo piano e momenti di intenso intimismo chitarristico, preludio a drammatici crescendo, l'organo domina portando all'esplosione finale come un vortice che stordisce.
La seconda facciata si apre con "Horizons", un breve divertissemènt per sola sei corde acustica di Hackett, destinato però a diventare uno dei brani più conosciuti del gruppo. Si prosegue con quella che è la composizione più rappresentativa dei Genesis, quella "Supper's Ready" che per oltre venti minuti tiene inchiodati con tutto quello che ci si aspetta dal progressive: intensità, tecnica mai fine a se stessa bensì al servizio della composizione e sempre da questa ben contenuta, complessità articolata, ma soprattutto idee, idee da vendere, senza sterili masturbazioni. Dal salotto di casa all'apocalisse e ritorno, la suite racconta il secondo avvento di Cristo sulla terra, la lotta contro l'Anticristo e la sua sconfitta, e dunque la definitiva conquista della nuova Gerusalemme per l'umanità, il tutto visto ovviamente come metafora della lotta del bene contro il male. Musicalmente c'è una enorme varietà di trovate e di accenti: dal classico, all'hard rock, al pop quasi cabarettistico e bambinesco, ai tempi dispari ("Apocalypse in 9/8"), e un ritmo marziale che porta alla conclusione di una intensità orchestrale quasi insostenibile. Tutto congiura per essere esagerato, ma non lo è: è musica che stupisce, ma senza orpelli inutili.
Con il tour di Foxtrot arrivano anche i famosi costumi di Peter Gabriel, che comincia a mascherarsi ispirandosi ai testi proprio dopo i primi concerti in quella fine del '72.
Nell'estate del 1973 esce il primo album dal vivo dei Genesis, intitolato semplicemente "Live", che presenta in pratica il lato più "rock" del gruppo, allineando una sequenza di cinque pezzi tra i più elettrici del loro repertorio, che seppur non perfetti dal punto di vista della resa sonora (è quasi un bootleg), rendono tuttavia bene l'atmosfera del gruppo sul palco. Anzi, probabilmente le imperfezioni migliorano da questo punto di vista l'album, dandogli spontaneità. Ottime al riguardo sono "The return Of The Giant Hogweed" e la finale "The Knife".
I Genesis nel frattempo scrivono senza soste e registrano in quell'estate il loro lavoro successivo, "Selling England By The Pound", che mostra una netta evoluzione nelle composizioni e negli arrangiamenti. I cinque cercano nuovi rapporti tra gli strumenti e tra i pieni e i vuoti della loro musica, provando a mettere in risalto ora questo, ora quello strumento, discostandosi in certa misura dalla "coralità architettonica" delle opere precedenti. Esemplare in questo senso è "Firth Of Fifth", dove una lunga e incredibile introduzione di Banks per solo piano (un brano letteralmente "classico") sfocia in un'entrata improvvisa di tutti gli strumenti, con la voce che prende netta il sopravvento per poi lasciare il posto ancora a un solo di Banks, contrastato nel finale da contrappunti virtuosistici di batteria, prima che Hackett diventi protagonista, con forse il suo miglior assolo di sempre, per giungere infine alla ripresa collettiva della melodia principale. Insomma, ognuno ha la sua fetta di brano, ma ciò anziché creare inutili leziosità per dare spazio a questo e a quello a tutti i costi, indebolendo i pezzi e dilatandoli inutilmente, come invece capita in quegli stessi anni ad altri "mostri" del progressive, genera invece qualcosa di solido e compatto, unico e irripetibile. L'iniziale e lunga "Dancing With The Moonlight Knight" vede Gabriel satireggiare sul contrasto tra modernizzazione e "English way of life", con doppi sensi e metafore, ed è formata da vari brani composti da più membri del gruppo e cuciti insieme con incredibile maestria. La scanzonata "I Know What I Like", quasi uno swing rallentato, mostra come i Genesis avrebbero potuto già all'epoca cimentarsi con un repertorio leggero con ben altro costrutto (di sostanza, anche se non economico) di quello che caratterizzerà molto più tardi i superstiti della futura diaspora. La dolce "More Fool Me" è un intermezzo acustico che vede profeticamente Collins cantante solista.
In apertura, della seconda facciata "The Battle Of Epping Forest" è frutto dei contrasti che cominciano ad affiorare tra cantante e gruppo e di quelli che saranno i problemi di lì a poco: il brano, pur essendo divertente, ha troppo testo, mostra rapporti non chiariti tra voce e musica, e stenta a trovare un centro definito. La strumentale "After The Ordeal", di Hackett, è purtroppo annegata da una produzione demenziale in un'accozzaglia di suoni senza costrutto. La morbida e romantica "The Cinema Show" è invece una perla tutta giocata su tre chitarre eteree che si intrecciano, seguite da aperture morbide più marcatamente progressive. Nel canto, a tratti in falsetto, ancora una volta Gabriel scherza sui rapporti uomo-donna, sull'attrazione e sull'ermafroditismo, sempre con riferimenti mitologici, qui Tiresia dopo Ermafrodito di "The Fountain Of Salmacis". La lunga coda strumentale del brano, unica parte in effetti compositivamente un po' prolissa dell'album, sfuma nella finale "Aisle Of Plenty", che riprende a chiudere il tema musicale di "Dancing
".
Le meraviglie musicali si sprecano e l'album potrebbe essere di nuovo immenso, ma il suo vero punto debole è proprio la produzione, con dilettanteschi errori tecnici (si sentono tutte le S gracchianti del cantato) e la batteria relegata in secondo piano per lunghi tratti, con "pastoni" di tamburi e piatti, alcuni di questi col basso. Così si perde forza. Non trattandosi di musica adatta o comunque concepita per il low-fi o la "presa diretta", anzi esattamente il contrario, c'è di che rimanere sconcertati.
Parte il tour e i travestimenti sempre più complessi di Gabriel ormai sono divenuti leggenda tra il pubblico, così molti accorrono ai concerti solo per quelli, non avendo idea della musica proposta e rimanendone poi rapiti. Il gruppo è probabilmente al top delle sue performance live. Durante questo tour, il cantante comincia a maturare l'idea di incidere un concept album e propone l'idea agli altri, che l'accolgono con entusiasmo; vengono discusse le proposte di trama dei vari membri e ne esce vincente proprio quella di Gabriel: nasce così uno dei doppi album più monumentali della storia del rock, "The Lamb Lies Down On Broadway".
Quella che i Genesis realizzano nel 1974 è una vera e propria "opera rock", anzi una tappa fondamentale del genere, basata sulla storia di Rael, un teppista portoricano di New York che si trova catapultato in un mondo sotterraneo dove vive un'incredibile serie di avventure, attraverso le quali Gabriel narra per metafore la maturazione dell'adolescente e la vita di tutti i giorni. Musicalmente il gruppo cambia ancora; le canzoni si presentano mediamente più brevi rispetto agli altri lavori e il suono assai più deciso e pesante; la produzione asseconda di nuovo la batteria e basa molto sulla potenza e su atmosfere ruvide, cosa insolita per il gruppo, e proprio in questo senso la iniziale title track dà subito la cifra di come l'album si discosti dai precedenti. Accanto alla batteria, è il basso di Rutherford, finalmente nella giusta evidenza, a dare una grande forza ritmica agli arrangiamenti. Hackett alla chitarra si produce in assolo brevi e taglienti. Banks svaria per tutte le composizioni (molte delle quali sono opera prevalentemente sua, anche se l'album fu composto collettivamente) fungendo da "trama" continua sulla quale gli altri sono chiamati a costruire. Non mancano, ovviamente, i momenti acustici e intimisti, che più si richiamano allo stile tipico come in "Carpet Crawlers", ma la forma delle composizioni è nettamente meno articolata, e le variazioni di ritmo e di feeling che in precedenza si trovavano all'interno dello stesso pezzo sono adesso affidate all'alternanza dei vari brani. Comunque, in un lavoro di una mole simile, per quanto stupefacente, ci sono momenti in cui l'ascolto si fa lento.
La lavorazione del doppio album è stata difficoltosa, soprattutto a causa dei ritardi di Gabriel nella stesura dei complicatissimi testi, più del solito pieni di citazioni letterarie e riferimenti mitologici, ricchi di pathos e allo stesso tempo necessariamente descrittivi della vicenda di Rael. I cinque si sono divisi la lavorazione all'inizio, il cantante a scrivere le liriche e gli altri a comporre, ma questo, oltre a separare nettamente per la prima volta le due anime, crea difficoltà inevitabili. Il gruppo ormai disapprova apertamente il modo di lavorare di Gabriel e i litigi sono all'ordine del giorno: "Peter era molto indietro con i testi, così arrivava dopo e cantava su tutto, anche su quelli che dovevano essere passaggi strumentali. Per me era come se qualcuno avesse preso un quadro che avevo appena dipinto imbrattandomelo tutto di vernice rossa", rivelerà Hackett.
A questo si aggiungono, successivamente alla pubblicazione, le frustrazioni dovute alle errate attribuzioni che pubblico e critica fanno delle composizioni, mettendo quasi tutto in conto a Gabriel e relegando gli altri al ruolo di comprimari. Il colossale tour che segue negli Stati Uniti e in Europa, e nel quale le vicende di Rael vengono rappresentate integralmente con spettacolari trucchi teatrali, proiezioni video e Gabriel armato di costumi sempre più astrusi, non fa in realtà che peggiorare la situazione. Il pubblico accorre in massa, ma la popolarità acquisita si ritorce contro il gruppo, alimentando invidie e rancori verso il cantante, ormai protagonista della scena, cui si aggiungono suoi problemi familiari. Tutto ciò induce Peter Gabriel a decidere di andarsene.
La notizia mette a rumore un po' tutto l'ambiente musicale, e vista a posteriori, segna probabilmente un momento di rottura nella stessa storia del rock. Con questo addio, il progressive stesso dice addio alla sua fase d'oro, ma anche un certo mondo musicale saluta un'epoca. "I tempi stanno per cambiare" e probabilmente lo stesso Gabriel ne è ben consapevole nel prendere la sua decisione.
Il cantante lascia definitivamente nella primavera '75, sebbene la decisione risalisse all'inizio del tour di "The Lamb", per dar vita negli anni a una carriera solista importantissima e ricca di soddisfazioni artistiche, tra ricerca di nuovi ritmi e sonorità, tra Africa e sperimentazioni elettroniche, anni luce lontano dalla musica dei Genesis. La band invece, sebbene in realtà colpita dall'abbandono, tra la sorpresa generale decide di proseguire e tra l'ancor maggiore meraviglia decide di farlo, dopo innumerevoli audizioni, senza un nuovo cantante, affidando la voce a Phil Collins.
Nasce così, dopo soli pochi mesi dalla fine della tournée, "A Trick Of A Tail". Atteso da tutti alla prova di voce solista, il batterista, grazie anche alla maggior semplicità delle composizioni, riesce sorprendentemente a non far troppo rimpiangere Gabriel. Il disco si presenta più levigato negli arrangiamenti e nei suoni. L'iniziale "Dance On A Volcano" mostra un Collins in gran spolvero ai tamburi, grazie anche alla struttura del brano: incalzante, basata su continui cambi di ritmo, tempi spuri e controtempi a profusione. Un pezzo come "Squonk" fa sentire come le composizioni concepite per l'istrionismo di Gabriel siano ancora presenti (pare che egli l'avesse anche provata prima dell'abbandono), ma offrono a Collins l'occasione di dimostrare che come cantante sa il fatto suo, pur faticando ancora a liberarsi dall'influenza e quindi dal paragone con Gabriel.
Il disco è comunque un buon lavoro ed è complessivamente ben accolto. Il trauma della partenza di Gabriel viene dunque attutito, quantomeno dal punto di vista dell'impatto sul pubblico. Anche musicalmente il gruppo assorbe il colpo (ben altri drammi si preparano per il futuro): le composizioni sono certamente diverse, più semplici e accessibili, soprattutto nei testi, i suoni sono più brillanti, gli arrangiamenti più diretti. Il gruppo ha scelto una maggiore fruibilità sebbene sappia ancora regalare emozioni e tocchi di classe. Vi sono tuttavia due mielose cadute che lasciano presagire gli sviluppi degli anni a venire: le stucchevoli "Mad Man Moon" e "Ripples".
"Wind & Wuthering" esce a quasi due anni dal precedente album, e mostra dei miglioramenti e ancora qualche cambiamento, sia pur nel solco della nuova formula. La chitarra acquista sempre maggior spazio e buona parte dell'album è una battaglia Hackett-Banks. Il passato affiora all'inizio in "Eleventh Earl Of Mar", che presenta alcune piacevolezze acustiche, con arpeggi tra l'arabeggiante e il rinascimentale, frutto della passione di Hackett per queste musicalità. "One For The Vine" si presenta basata principalmente su movimenti di piano e synth, con un veloce intermezzo strumentale a mo' di fuga e ancora un'elettrica arabeggiante. "All In A Mouse's Night" gioca il ruolo che nel precedente album aveva "Dance On A Volcano", incalzante, con cambi di ritmo e tempi dispari, ma con meno forza d'impatto. "Blood On The Rooftops" vede una collaborazione alla scrittura Hackett-Collins che dà buoni frutti. Seguono due lunghe parti strumentali collegate, ma ben distinte "Unquiet Slumbers For The Sleepers", sospesa e sognante, e "
In That Quiet Earth", dove invece troviamo accenni di hard-rock raffinato, con barrage chitarristici quasi alla King Crimson-seconda fase. La intensa "Afterglow" chiude il disco con un dolce arpeggio di chitarra e con i sintetizzatori a formare i cori che conducono la voce di Collins a un pathos notevole; è pop, ma ancora di classe. In generale, risalta che Hackett prende molto più spazio anche in composizione, anzi alcuni pezzi attribuiti a più autori sono in pratica solo suoi, con gli altri che lo assecondano. Il chitarrista inizia a coltivare l'idea di una carriera solista dopo il primo lavoro pubblicato nel 1975 "Voyage Of The Acolyte".
Il tour porta nuovi, stellari successi, ma i rovelli di Hackett prendono definitivamente corpo durante le sessioni di missaggio del doppio live Second's Out, tratto da quei concerti, e così, terrorizzato dalla macchina da spettacolo in cui si è trovato invischiato, anche il chitarrista lascia per dar vita a una carriera individuale duratura, estremamente prolifica e di discreto livello.
Col senno di poi, questo abbandono si può ritenere ben più traumatico di quello di Gabriel. I tre superstiti, ormai lanciati verso orizzonti economici del tutto inimmaginabili fino a poco prima, legati a doppio filo con contratti tipici delle superstar, non solo non vogliono ma probabilmente non possono nemmeno mollare. "Second's Out" esplode nelle classifiche mondiali, le entrate superano ogni previsione, ma perché limitarsi a questo? Tutto ciò che ai tempi di Gabriel non era concepibile e che con Hackett trovava ancora mille remore "artistiche" ormai è divenuto possibile; così i tre rimasti nemmeno sono sfiorati dall'idea di mollare, ma anzi si mettono al lavoro progettando a sangue freddo uno dei più clamorosi delitti musicali della storia del rock.
Con "And Then There Were Three", nel 1978, i Genesis scompaiono per essere sostituiti da tre cloni di Banks, Collins e Rutherford, i quali interpretano un dischetto pop insulso, a tratti davvero irritante se si pensa a chi ne è l'autore. Pochi residui progressivi sono ancora presenti, ma tutto è studiato per ricercare l'effetto più semplice e la presa più immediata sul grande pubblico: soli di tastiera stucchevoli e arrangiamenti mielosi fanno da padrone. Fedeli alla linea della "soluzione interna", i tre stavolta si guardano bene anche dal cercare un nuovo chitarrista (significherebbe dividere i profitti con uno di più) e la sei corde passa in mano a Rutherford che, sebbene avesse sempre suonato la dodici corde di accompagnamento con il gruppo, tecnicamente, in fantasia e gusto, come solista non è nemmeno lontanamente paragonabile a Hackett e dunque si limita a un lavoro da onesto strimpellatore. Il singolo "Follow You Follow Me" è leggero come l'aria, con Collins che canticchia con voce flebile un motivetto che si incolla immediatamente ai neuroni, soprattutto nel ritornello, da gustare come zucchero filato tra le luci di un luna-park. Il primo grande successo a 45 giri trascina l'album a livelli mai toccati prima. Dal vivo sono Daryl Sturmeuer alla chitarra e Chester Thompson alla batteria a dar man forte ai tre in concerti che arrivano a richiamare fino a 100.000 spettatori. Ormai nessun traguardo commerciale è precluso.
Scoperto il trucco, i tre tornano alla carica nel 1980 con "Duke", dove la trasformazione è definitivamente compiuta e nulla più ha a che fare col passato. Si va a registrare a Stoccolma, ai Polar Studios degli Abba, e tutto assume l'aria super patinata della produzione di puro pop da classifica. "Turn It On Again" si fa piacere per qualche trovata ad effetto, ma ormai siamo al livello di decine di prodotti del genere: fuori del singolo c'è aria fritta e tanta noia.
Collins fin dal '76 ha dato vita a un gruppo parallelo di fusion, i Brand X, comunque nel 1981 è l'ultimo del gruppo a uscire, con un lavoro realmente solista e che subito incontra un successo strepitoso: "Face Value". Seppur discontinuo, è perlomeno un album medio-buono, con momenti interessanti a partire dalla storica "In The Air Tonight", dalla struttura davvero notevole per una canzone pop-rock: una prima parte dove c'è in pratica la sola voce sopra strumenti flebili e un inquietante pattern ossessivo di drum machine (pluricampionato negli anni a venire) a delineare un'atmosfera tesa, e una seconda parte in cui esplode una batteria letteralmente impressionante, impossibile da dimenticare, che domina e "fa" il brano; il testo è profondamente autobiografico. Di certo, il lavoro è superiore a quelli contemporanei a nome Genesis, ma è un eccezione: Collins non raggiungerà più quei livelli, diventando in compenso uno dei solisti pop più di successo della storia, con raffiche di hit e album piazzati ai primissimi posti ovunque. Come Re Mida, Collins trasformerà in oro tutto ciò che tocca, persino come produttore.
La carriera dei Genesis nel frattempo prosegue con una serie di album che giungono regolarmente ai primi posti in tutto mondo: "Abacab" (1981) in cui compaiono i fiati nientemeno che degli Earth, Wind & Fire, "Three Sides Live" (1982), doppio live, che solo in edizione Usa ha una facciata in studio fatta di scarti degli album precedenti e un singolo, "Paperlate", che venendo dalle sessioni di Abacab è ancora una volta pieno di fiati alla EW&F che gli donano una certa piacevolezza, e quindi Genesis (1983). La musica di questi album è una sorta di funky-pop, a volte un soft-rock leggerissimo per manager dei rampanti anni 80 che il rock non lo hanno mai amato. Ma soprattutto è musica vuota e senz'anima, non a caso simbolicamente lo scrittore Brett Easton Ellis sceglierà proprio i Genesis degli anni 80 come gruppo preferito dello yuppie psicopatico e serial killer protagonista del suo celebre "American Psycho".
Proseguono parallelamente anche le carriere soliste dei membri. Di Collins abbiamo già detto. Rutherford in questi anni forma il gruppo pop Mike & The Mechanics che dopo un inizio stentato trova un immenso successo commerciale. Di musicalmente degno di nota c'è zero. Banks pubblica fin dagli anni 70 album a suo nome, composti nel suo tipico stile, ma senza incantare. Solo per appassionati.
Il peggio comunque deve ancora arrivare. Nel 1986 esce il pessimo "Invisible Touch", un'ulteriore degradazione puramente commerciale di una band che da tempo nulla ha a che spartire con il rock, né nel sound né nelle composizioni: motivetti facili di presa immediata (come i singoli "Invisible Touch" e "Land Of Confusion"), iperprodotti con ciò che più va in voga, suoni da tipico mainstream anni 80. Come iniziare a scavare una volta toccato il fondo. L'album, se possibile, vende ancor più dei precedenti. Un nome glorioso è da dieci anni letteralmente usurpato da tre signori straricchi e ben pasciuti che hanno perfettamente capito i meccanismi del music-business e li fanno propri senza remore. Ma, incredibilmente, non sarà ancora il momento più nero.
Nel 1991 esce "We Can't Dance", che segue le linee di "Invisible Touch" e, a tratti, pare un disco del più esile Collins solista, come in "Jesus He Knows Me". Poi, rispettivamente nel 1992 e 1993, arrivano due dischi dal vivo, "The Way We Walk - Vol. 1" e "The Way We Walk - Vol 2", entrambi di una inutilità clamorosa.
Quando anche Phil Collins abbandona ufficialmente il gruppo la speranza è che finalmente l'agonia sia giunta al termine. Passa il tempo e il gruppo sembra definitivamente morto e sepolto, quando, come uno zombie che non vuol morire o un vampiro che vampirizza se stesso, il nome Genesis risorge ad opera del duo senza vergogna Tony Banks-Michael Rutherford. I due, per l'occasione, reclutano come cantante lo sconosciuto Ray Wilson, convinti che il nome basti ancora a vendere sei anni dopo l'ultimo album in studio e in un mondo profondamente diverso. Danno così vita, se di vita si può parlare, a "Calling All Stations" (1997), un disco ignobile da ogni punto di vista, che per di più, nonostante un battage pubblicitario di tutto rispetto, vende pochissimo rispetto alle attese soprattutto negli Usa, su cui i due invece puntavano.
Tutti o quasi li hanno abbandonati. I due, attoniti e delusi, anche personalmente cominciano a porsi domande serie: "Credevo si potesse ancora far qualcosa di valido, ma devo ricredermi. I tempi non sono più gli stessi. Dovremo riflettere seriamente se sia il caso di continuare col nome Genesis o farla finita", ammette Rutherford. In pratica, una vera tragedia per chiudere, esattamente trent'anni dopo la nascita, la storia di un nome che avrebbe meritato ben altro rispetto da parte degli stessi che con esso hanno segnato un'epoca, gli hanno dato lustro e dedicato una vita. Musicisti che un tempo avevano creduto così tanto in quel nome da arrivare quasi a far la fame per portarlo avanti.