Ci mettemmo insieme soprattutto per cantare, nel 1969, già adulti: Franco Contardo, metalmeccanico, Laura Ennas, fotografa, Renato Scagliola giornalista, Piero Marchisio, esperto di telecomunicazioni, Giancarlo Perempruner, venditore all’Olivetti. All’inizio modesto il supporto strumentale, due chitarre, un tamburello, una piccola tastiera, nessuna conoscenza della musica scritta, salvo vaghe reminiscenze di solfeggi e solo un grande orecchio. Primissimi passi al circolo Arci “Il Contemporaneo” di corso Casale (durò pochi anni), e al Garibaldi di Torino, che esiste ancora. Il repertorio è quello della tradizione piemontese con qualche puntata in altre regioni, senza particolari motivi, solo il piacere di affrontare canti interessanti e belli.
Tanti brani nostrani li conosciamo da sempre, appartengono alla trasmissione orale anche inconscia: ascolti nelle piole, filastrocche che cantava la nonna, canti di montagna, “da corriera”, durante le gite, rielaborazione di canti pubblicati in vinile, e il sacro testo del Nigra. L’interesse è verso la cultura contadina che ha prodotto cospicui materiali vecchi di secoli, poi il lavoro, la resistenza, la politica. Insomma basi da cui sono partiti tutti quelli che hanno fatto musica popolare in quegli anni, con maestri come Dario Fo e i Cantacronache. In quegli anni nascono a Torino tanti gruppi: Cantovivo di Alberto Cesa, Astrolabio dalla vita breve, Prinsi Raimund, La Lionetta, La Voce Rossa. Strumentalmente in genere sono più bravi, ma noi abbiamo la forza delle voci. I timbri della polifonia del gruppo diventano subito riconoscibili……….
Le armonizzazioni sono fatte in casa, tre, qualche volta quattro voci: terze e quinte, una quarta ogni tanto, sempre a orecchio. C’è il gran gusto, carnale, di sentire l’impasto sonoro. Laura è da sempre la voce solista, intonatissima, memoria di ferro per i testi come Contardo. Che è anche un perfetto giullare, anche se ha la veste di commissario politico della combriccola. Siamo amici e ci divertiamo sempre. Anche le platee se la ridono e ci vengono dietro. Durante le prove si discute se la musica popolare deve rimanere quella che è, o se si può rielaborare con i criteri di oggi. Prevale la seconda tesi, tenendo come unico valore la riuscita estetica. La cultura popolare si è sempre evoluta nei secoli, con aggiunte, contaminazioni, e via dicendo, quindi via libera.
Cominciamo a scrivere testi e musica. Non “canzoni di lotta”, o combat folk, come verranno chiamate vent’anni più tardi. Preferiamo aggirare gli argomenti con la satira, il surreale, la poesia. Perempruner scrive ballate lunghe, didascaliche, politicamente definite, e anche divertenti. Personalmente mi piacerebbe anche un folk, come dire, sinfonico ed epico, ma non abbiamo mezzi strumentali sufficienti.
Ci sono alcuni tentativi, neanche mal riusciti. Ballate sull’energia, su Janavel, eroe valdese, Batista, condottiero di se medesimo, valligiano e contrabbandiere, la Bestia selvatica. Mettiamo in musica temi già attuali ma non ancora pressanti come oggi: le troppe auto (Automobilesimo è del ’69), l’ambiente, il problema energetico, i genocidi culturali e non (Los Indios de la Langa), la crisi del Salvador, un anticipo del diluvio enogastronomico odierno (La canzone del cibbo 1980), gli emigrati italiani all’estero (La Svizzera del ‘75), il regime di Ceausescu (Rumena oh, 1979). Affrontiamo problemi gravi senza batter ciglio.
La musica parte qualche volta da stilemi tradizionali, ma non più di tanto, perché sappiamo tutti che le melodie “di anonimo”, sovente sono semplici fino alla banalità, i soliti giri di tonica, dominante, sottodominante. Per il resto non abbiamo preconcetti, prendiamo tutte le licenze necessarie.
Perempruner diventa un punto fermo, una caratterizzazione speciale con un suo settore di strumenti inventati con zucche, legni, e una vena di affabulatore impagabile che celebra ogni volta la sua cuneesità. Magistrali le sue reinterpretazioni in piemontese del Miles Gloriosus di Plauto, trasferite nella Grande Guerra, la discesa di Annibale dalle Alpi, con gli ozi di Cuneo, invece che di Capua. Intranto procede per conto suo nella ricerca sui giochi di strada, nella costruzione e ricostruzione di giocattoli partendo da materiali poveri e di recupero. Negli anni diventerà uno dei massimi esperti italiani. Morirà però nel ’95, stroncato da una leucemia. Ancora oggi ne parliamo continuamente, ripetiamo le sue gags.
Sul palco c’è sempre un’atmosfera di puro divertimento, con impertinenze scorrette , botte e risposte col pubblico, lazzi.
Per brevi periodi si aggiungono musicisti “veri” come Zanon, flautista veneto capitato a Torino per un breve periodo, e Giancarlo Zedde, pianista di Conservatorio, che scrive alcune armonizzazioni “serie” che impariamo a fatica.
Con gli anni si aggiungono in pianta stabile due giovani, Francesco Bruni, sofisticato chitarrista, voce e percussioni, Claudio Perelli chitarra, tastiera, voce. E il giovanissimo Davide Scagliola, batteria e percussioni. L’organico dura vent’anni. La pittrice Maria Giulia Alemanno decora alcuni dei neo-strumenti di Perempruner, inesistenti in natura, che si chiamano: grattagatto, zuccanna, tabasso e tanti altri, e realizza un magnifico poster a colori, nello stile dei cantastorie, che si vende a mille lire dopo i concerti. Tanti, a decenni di distanza, lo conservano gelosamente appeso in casa.
Soprattutto d’estate giriamo come trottole: tante feste dell’Unità, sagre di paese, Punti Verdi, circuiti dell’Arci, in provincia, perfino tourneè in Germania, Romania, e puntate in Svizzera e Jugoslavia. Tutto nei ritagli di tempo del lavoro di ciascuno. Qualche volta è faticoso.
Viaggiamo a bordo di un pulmino Fiat 238 rosso, con le scritte CANTAMBANCHI in bianco sulle fiancate e all’incontrario sul davanti, come le ambulanze. Dentro gli strumenti, l’amplificazione, generi di prima necessità, cuscini per il riposo. Durante i viaggi sovente si prova. Si canta in situazioni diverse: sopra un carro agricolo, sotto un mercato coperto, in un grande ex pollaio nelle Langhe, nei sotterranei del castello di Barolo, nel cortile del castello di Macello, in teatrini parrocchiali di provincia, e anche su palchi veri.
Epiche, impagabili le feste dell’Unità nelle Langhe, e soprattutto a Treiso negli anni settanta: una piazza sospesa in punta alla collina, sotto la chiesa, e in cucina i coniugi Marcarino, titolari dell’Osteria dell’Unione dove Carlin Petrini fonderà prima l’Arcigola poi trasformato nella multinazionale Slowfood, e L’unione diventa un posto noto anche oltreoceano. La Pina andrà a fare tajarin fino in California.
Diventiamo amici di Fausto Amodei e andiamo cantare qualche volta con lui oltre ad avere in repertorio alcuni suoi brani. Siamo la spalla una volta al palasport di Torino con De Andrè, e nel biellese con Pete Seeger, siamo molto fieri.
Siamo tra le colline di Bra per l’edizione 1980 di Cantè J’euv, seconda “Rassegna internazionale di musica popolare in terra di Langa”, con una baraonda di gruppi e singoli.
Franco Angerosa è il tecnico del suono che ci segue da sempre e siamo amici anche con lui. La prima cassetta audio vede la partecipazione di Sergio Balestracci, grande esperto di musica antica, che ci regala un sofisticato accompagnamento con cornamuto torto e flauto basso, antichi legni medioevali.
Nel 1977 realizziamo un prima cassetta autoprodotta, con dodici brani (cinque tradizionali, otto roba nostra), poi due ellepì, uno nel 1980 con la Durium di Milano, con otto pezzi , quattro nostri e quattro tradizionali, con l’intervento di Happy Ruggero, noto pianista torinese. L’altro, l’ultimo, ancora autoprodotto nel 1983, battezzato “Land Rover “, con sottotitolo: ”Oltre la frontiera in cerca di avventura”. Siamo già in un altrove, un passo avanti rispetto alle esperienze precedenti. Le ballate sono tutte nostre: Land Rover che da il titolo al disco, Goriziana, Batista, El salvador, Rumena oh, La bestia Selvatica, Janavel, Sette Bambini (che saremmo noi). Con una audace operazione di marketing, riusciamo a vendere 500 copie del disco – un record - all’importatore italiano della Land Rover che lo usa come promozione. Un migliaio di copie ciascuno, oltre alla cassette, tutti venduti durante i concerti. Un lavoro non tanto riuscito, fatto troppo in fretta, ma con alcune cose buone, e la partecipazione in studio di Franco Mondini, amico e grande batterista jazz che si abbassa volentieri al nostro livello.
Nel 1979 e nel 1982 registriamo perfino due special di trenta minuti per la terza rete Rai. Un anno siamo sotto il riflettori di una tv tedesca, chissà perché a Condove, e i pluffer ci mettono contro un muro per le riprese. Diremo in seguito, per darci delle arie, che siamo così longevi come musicanti, che una volta ci hanno anche messo al muro i tedeschi!
I dopo spettacolo sono quasi sempre a tavola negli stand dei festival con menù di sinistra: agnolotti, costine, salsicce, acciughe al verde, polenta. Talvolta organizzatori entusiasti preparano invece robe di lusso: cene da stelle Michelin nel Monferrato, ai Caffi di Cassinasco, con Dario Fo, e alla Locanda del Sant’Uffizio a Cioccaro di Penango con Paolo Conte.
Nascono amicizie che durano anni, specialmente in provincia, e specialmente tra Cuneo e la val Pellice; sovente sconosciuti, ancora oggi, ci riconoscono per la strada e noi facciamo, anche se contenti, la figura degli smemorati…
I Cantambanchi, nel 2006, esistono ancora, con l’aiuto di Daniele e Giuliano Contardo, figli di Franco, giovanotti musicisti professionisti che, dopo aver seguito la banda per anni da ragazzini, sono in grado di cantare e suonare tutto il repertorio. Pochi concerti, ogni tanto, molte cene cantate. Sovente.
(Renato Scagliola)
FB